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domingo, 1 de mayo de 2011

Sacco e Vanzetti - Giuliano Montaldo (1971)


TÍTULO Sacco e Vanzetti
AÑO 1971 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 121 min.
DIRECTOR Giuliano Montaldo
GUIÓN Giuliano Montaldo & Fabrizio Onofri
MÚSICA Ennio Morricone
FOTOGRAFÍA Silvano Ippoliti
REPARTO Gian Maria Volonté, Riccardo Cucciolla, Cyril Cusack, Rosanna Fratello, Milo O'Shea
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia
GÉNERO Drama

SINOPSIS Magnífica película en honor de Nicola Sacco y Bartolomeo Vanzetti, dos inmigrantes italianos anarquistas detenidos y acusados por doble asesinato y finalmente ejecutados en Boston en la década de 1920. Se trata de una feroz crítica al sistema judicial estadounidense y al profundo sentimiento anticomunista imperante en aquella época, principal causa de aquél juicio y la posterior sentencia a la pena capital. Numerosos intelectuales de la época se manifestaron abiertamente contra el proceso, entre ellos Bertrand Russell, George Bernard Shaw, Upton Sinclair y H.G.Wells. Al saberse la noticia de la ejecución, el 23 de agosto de 1927 en la prisión de Dedham (Massachussetts), se sucedieron las revueltas populares, en especial en Londres, París y Alemania. Hay que mencionar también que un gobernador del citado estado pidió disculpas en 1977 por el injusto trato que recibieron los acusados.

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
http://www46.zippyshare.com/v/19671921/file.html

Sacco y Vanzetti y la historia universal de la injusticia

Dentro de la historia universal de la injusticia, el caso Sacco y Vanzetti ocupa un lugar de importancia, porque tiene todos los ingredientes necesarios para desnudar cómo funciona el capitalismo estadounidense: xenofobia, racismo, y la brutalidad de un sistema dictatorial que con cinismo infinito se autodenomina “democracia”. La película basada en el caso, un clásico del cine de denuncia política dirigido por Giuliano Montaldo, se estrenó en 1971.
El filme es una adaptación del argumento minuciosamente documentado de Herbert Ehrmann, según el cual el robo y asesinato de un pagador en South Braintree, Massachussets, de los que se culpó a los anarquistas italianos, fue en realidad obra de una organización criminal conocida como la banda de Morelli.
Obviamente, así fue, los acusados nada tenía que ver, y medio siglo después, en 1977, Estados Unidos reconoció oficialmente el “error”. Sacco y Vanzetti fueron exonerados de manera simbólica el 23 de agosto de 1977 por el entonces gobernador de Massachusetts, Michael Dukakis, adhiriendo a una moda que impuso la Iglesia Católica: primero te mata, te roba, te quema vivo y después se toma 500 años para pedirte disculpas. Lo hicieron con Galileo, con los aborígenes americanos. Ante esto, lo de EE.UU. es apenas el gesto imitativo de un imperio menor.
La trama del film de Montaldo nos lleva a escenas de la lucha de clases en Boston. El contexto social era conflictivo: 1920, con la efervescencia de la cercana revolución rusa, un momento clave del capitalismo en el que había que liquidar a los que pretendieran cambiar algo. Hordas racistas pedían a gritos en las calles que liquiden a los peligrosos anarcos, y al mismo tiempo, en todo el mundo, multitudes todavía más enormes pedían justicia.
Frederick Katzmann, un fiscal al servicio de los poderes establecidos, educado en Harvard, firma la condena a dos inmigrantes italianos “subversivos”. La historia de Sacco y Vanzetti no fue solamente un caso de mero “error judicial”, sino todo lo contrario: fue un brutal “acierto” de un sistema que se defiende de los subversivos a favor de las minorías más ricas. Los dos anarquistas fueron ejecutados por ser militantes del cambio social, por ser inmigrantes y pobres, y por ser italianos, extranjeros, como advertencia para otros. La película está concentrada en el juicio, queda patente la falta de pruebas y la resolución injusta, sugiriéndose incluso un acuerdo entre el juez y el fiscal, algo que estuvo en cabeza de los que se opusieron. Fue filmada casi enteramente en Estados Unidos, pero utilizando actores italianos. Bartolomé Vanzetti es protagonizado por Gian Maria Volonté, uno de los actores más emblemáticos del “cine político”, Riccardo Cucciolla encarna a Nicolo Sacco. La música corrió a cargo del celebrado Ennio Morricone. Y quizás lo más recordado sea la banda sonora cantada por Joan Baez, con música del propio Morricone. Una balada épica, de protesta, a tono con la denuncia que sustenta el film, y que posee una acuciante actualidad, con sólo pensar en los juicios a los presuntos terroristas, con sólo ver las imágenes de la prisión de Guantánamo. Eso que sucedió en EE.UU. en la década del 20 sigue sucediendo allí hoy, está sucediendo en este preciso momento.
http://www.redaccionrosario.com/noticias/taxonomy/term/6?q=node/742


E la legge li dichiarò morti
Roger Campione

Come tanti altri milioni di italiani, questi due uomini erano emigrati all’inizio del secolo dallo stivale, attratti dall’illusione di poter migliorare le proprie condizioni di vita nel Nuovo Mondo. È la storia di molti: partire verso un paese alla ricerca di una terra promessa che, alla fine, si rivela solo una provincia in più dell’inferno.
Il tema centrale che collega i vari capitoli di questo libro è la pena di morte nel cinema; senza dubbio, Sacco e Vanzetti si inserisce nel filone – opinione personalissima – soltanto in maniera accessoria, poiché le altre questioni “giuridiche” che pone sono di tale portata e straordinaria attualità da non potersi trascurare, per quanto qui si dichiari il fermo intento di non staccarsi dall’argomento che lega tra loro i distinti lavori del libro. Si pensi, come suggerivo prima, al tema dell’immigrazione (adesso siamo noi gli Stati Uniti di allora…) ed al suo ripercuotersi sulle dinamiche lavorative (sebbene nell’epoca di Sacco e Vanzetti i lavoratori, soprattutto immigranti, si sentivano sfruttati, mentre fortunatamente oggigiorno la manodopera, nazionale ed extracomunitaria, si sente solo flessibile…), o pensiamo – e questa per me è la questione giuridica veramente centrale nel film – all’utilizzazione antigiuridica, a fini politici, del diritto da parte dello Stato e di chi lo rappresenta nei tribunali e negli apparati del potere.
L’arresto di Sacco Vanzetti, italiani e per di più anarchici, coincide con il Red Scare (Terrore Rosso), uno dei periodi di repressione non solo ideologica più intenso della storia americana. Basti dire, in relazione al tema di cui ci occupiamo, che in quello stesso anno, 1920, la paura dell’estendersi dei conflitti sociali prima dell’apparizione del socialismo e della Rivoluzione Russa spinge cinque dei sei Stati abolizionisti a reintrodurre la pena capitale. Non vi è dubbio che in quest’ultimo senso la pellicola appartenga a quello strano subgenere che fu il cinema politico italiano, allora – a cavallo tra gli anni sessanta e settanta – capeggiato da Francesco Rosi; un tipo di cinema militante e, in effetti, anche per lo spettatore la storia cinematografica de Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti (Nicola and Bart, nel testo della meravigliosa Ballata cantata da Joan Baez e composta dal genio di sempre, Ennio Moricone) non può fare a meno di tradursi in un’autentica militanza. Gli avvenimenti e la forma che Giuliano Montaldo escogita per narrarli, vale a dire l’intreccio di parti del processo con immagini che presentano visivamente i distinti testimoni ed i ricordi degli stessi accusati, aiutano a mantenere viva la tensione e a non trasformare la pellicola in un unico, lungo e troppo monotono processo. Ma veniamo ai fatti più rilevanti (i medesimi, tanto nella pellicola che nella realtà).
Sacco e Vanzetti vengono arrestati nel pomeriggio del 5 maggio 1920, nell’ambito di un’operazione di “normale repressione” contro gli immigrati radicali; hanno addosso una pistola ciascuno. Nel momento dell’arresto mentono al riguardo (non avevano autorizzazione al porto d’armi) e la polizia – malgrado questo non appaia nel film – trova nelle tasche di Sacco un foglietto sul quale si convocavano i lavoratori ad una conferenza, senza dubbio non eccessivamente rivoluzionaria, dal momento che “donne e bambini vi erano caldamente invitati”. A partire da qui, e dopo che il commissario avverte Sacco del fatto che “tutto sarà fatto secondo la legge” (più avanti un giornalista ricorderà all’avvocato Thompson, riferendosi ai manganelli della polizia, che “questa legalità è dura”), le autorità li accusano di essere i responsabili del delitto di South Braintree: una rapina con duplice omicidio commessa alle 15.00 del 15 aprile 1920 a South Braintree, piccola città industriale a Sud di Boston.
A partire da allora si svolge un processo costellato di violazioni grossolane della legge, falsi testimoni e prove costruite sotto la direzione della pubblica accusa Katzmann (a sua volta immigrato, sebbene tedesco) e con la volontaria complicità del giudice Webster Thayer e del Governatore del Massachussetts, Alvan Tufts Fuller. Il 14 luglio del 1921 la giuria dichiara Sacco e Vanzetti colpevoli degli addebiti di rapina ed omicidio. A nulla varranno, lungo sei anni, i ricorsi e le petizioni per un nuovo processo fondate sulla ritrattazione di alcuni dei testimoni e, soprattutto, sulla confessione del portoricano celestino Madeiros che coinvolgeva, con dati incontrovertibilmente evidenti, la cosiddetta Morelli gang nel delitto di South Braintree. Il giudice Webster Thayer respingerà tutto.
Il 9 aprile del 1927, Nicola Sacco, calzolaio, italiano e anarchico, e Bartolomeo Vanzetti, pescivendolo, italiano e anarchico, sono legalmente condannati a morire sulla sedia elettrica. Di fatto, già lo erano stati il giorno del loro arresto (dovettero aspettare sette anni in carcere prima di essere giustiziati, a differenza dell’altro anarchico Salsedo che, arrestato poco tempo prima della detenzione di Sacco e Vanzetti, cadde “accidentalmente” dalla finestra del commissariato di New York durante un interrogatorio). La pellicola ci mostra immagini delle agitazioni popolari che portarono centinaia di migliaia di persone a manifestare infruttuosamente per chiedere la libertà degli accusati: a Chicago, San Francisco, Londra, Buenos Aires. Né valse la richiesta di grazia, firmata anche da Vanzetti, diretta al Governatore Fuller (domandarono pure clemenza, tra gli altri, Einstein, Marie Curie, Bernard Show, Orson Wells e Miguel de Unamuno). La conversazione tenuta a questo proposito nell’ufficio di Fuller fra questi, il procuratore Katzmann e Vanzetti, è una vera e propria lezione di filosofia del diritto e aiuta a capire le ragioni di Trasimaco contro Socrate:
- Fuller: Lei è anarchico ed io conservatore, anzi, sono governatore di uno degli Stati più conservatori d’America…Cosa le fa credere che io possa eseguire un atto di clemenza verso di lei?
- Vanzetti: Comprendo ciò che vuol dire…Che io, sebbene anarchico, credo ancora nel potere borghese.
- Fuller: Guardi… noi desidereremmo sapere come immagina che siano i rapporti di potere in quella che lei chiama borghesia.
- Vanzetti: Signor Fuller, mi sta rimproverando di averle inviato una domanda di grazia?
- Katzmann: Lei crede di stare lottando contro un sistema di potere che va dal presidente Coolidge al giudice Thayer, al governatore e fino all’ultima guardia di questa prigione. Cosa le fa pensare che questa rete, questo sistema, abbia un punto, un anello che mettiamo sia il governatore, per quanto non l’ultimo, tanto debole ed incoerente da essere clemente con un anarchico, cioè con un nemico del sistema?
- Vanzetti: Sta dicendo che siamo stati condannati per il fatto di essere anarchici, e non rapinatori ed assassini?
- Fuller: Ascolti… Supponiamo che lei non fosse né anarchico, né radicale, né niente di niente, e fosse accusato di omicidio e rapina. Si sarebbe prodotta una reazione così violenta in tutto il mondo? Certamente no, signor Vanzetti. Oggi lei non si rivolge all’autorità come un cittadino qualunque… Lei è un anarchico, esiste un movimento nel mondo… Un atto di clemenza cambierebbe l’opinione del movimento rispetto al potere? O sarebbe considerato un segno di debolezza?
- Vanzetti: io volevo solo parlare di giustizia, signor Fuller.
- Katzmann: Ma la giustizia non fa forse parte di un sistema di potere? In definitiva, in questa situazione, lei, come uomo di potere, concederebbe la grazia?
- Vanzetti: io ho solo sollecitato un atto di giustizia, ma voi mi avete spiegato una volta in più che il sistema si basa sulla forza e la violenza.
Il 23 agosto del 1927 Sacco e Vanzetti furono giustiziati sulla sedia elettrica. E così si chiude il film.
Dopo l’esecuzione, la Corte Suprema, per mezzo dell’organo di autocensura dei produttori cinematografici – la Hays Commission –, ordinò la distruzione di tutto il materiale filmato sulla vicenda. Quarant’anni dopo, un amico parla di questi due uomini a Giuliano Montaldo che, come la maggior parte degli italiani, ignorava la storia di Sacco e Vanzetti. Il regista comincia a fare ricerche sull’argomento e cerca un produttore che creda nella storia; per fortuna incontra uno che, oltretutto, aveva previamente studiato il caso a partire dalle lettere che Vanzetti scriveva al suo avvocato per collaborare alla difesa (alla fine il film sarà prodotto da Arrigo Colombo e Giorgio Papi). Montaldo scrive la sceneggiatura con Fabrizio Onofri e dirige la pellicola, che esce nel 1971. L’anno seguente – si tratta di semplice cronologia, senza alcun nesso di causalità – la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiara incostituzionale la legislazione sulla pena di morte perché viola l’ottavo emendamento, relativo al divieto di infliggere pene crudeli. La pena capitale è immediatamente abolita in tutti gli Stati, sebbene per poco: nel 1976, la stessa Corte ristabilisce la pena di morte considerando che, a seguito delle riforme introdotte, ormai non leda più l’ottavo emendamento.
Il problema è che tutte le riforme del mondo costituiranno un misero conforto per chi creda nelle parole pronunciate da Pietro Ellero nel Giornale per l’abolizione della pena di morte, il 1° gennaio del 1861: “Non basta diminuire le condanne e le esecuzioni capitali; quantunque si giustizi un solo colpevole, ciò resta sempre una grande disgrazia per l’umanità”.
Se ha senso il pensiero di Ellero – e non ho dubbi che ne abbia – rispetto ad un colpevole, si immagini che implicazioni può avere in rapporto ad un innocente. E da qui scaturisce la difficoltà di dover commentare il film Sacco e Vanzetti sotto l’etichetta cinema e pena di morte: se ci si pone – come nel mio caso – contro la pena di morte e si intende sostenere tale presa di posizione attraverso un caso concreto, come può essere un film, la cosa più ragionevole è di poterlo fare contando su un colpevole. Solo così è possibile mettere in evidenza le ragioni che rendono inutile, immorale, ingiusta, o in qualunque caso erronea, la pena di morte o, come parafrasa opportunamente Italo Mereu, “la morte come pena”. In questo senso, mi pare, siano più adeguate altre pellicole che vengono commentate in questo libro, come Dead man walking (Tim Robbins, 1987 o A sangue freddo (Richard Brooks, 1967), poiché è ovvio che se si vogliono addurre ragioni contro la pena di morte, il punto di partenza deve essere la reale colpevolezza. Laddove non si tenga conto di tale conditio sine qua non in un dibattito sulla pena di morte, avrebbe unicamente senso argomentare, come accade nell’ipotesi di cui ci occupiamo, contro la pena tout court. Senza dubbio, ci sono due elementi che possono favorire l’inserimento del film in questo contesto. In primo luogo, sebbene i condannati siano innocenti, non è irrilevante che si infligga loro la pena di morte, anziché altre misure carcerarie. Visto il carattere dichiaratamente politico del giudizio, questa sentenza ha un valore preciso: attraverso Sacco e Vanzetti o, per meglio dire, attraverso la loro morte si cercava di intimorire ed imbavagliare la classe operaia nordamericana, immersa in un processo di sindacalizzazione incipiente. È una giustificazione della sanzione penale che, per quanto non studiata solitamente nei manuali di diritto penale, ha operato costantemente in lungo e in largo nel mondo: la pena come punizione, come castigo esemplare, come dissuasione a non perseguire obiettivi legittimi (la riduzione dell’orario di lavoro, ad esempio). La condanna alla sedia elettrica permette al Potere di dispiegare tutta la sua forza “giustiziera”, perfino al confine con l’idea di giustizia dello Stato di diritto. Su quest’aspetto, possiamo ricordare il brillante esempio di Sentieri di gloria (Stanley Kubrick, 1958), in cui l’impero della ragione dello Stato classista (le vittime sacrificali nel tragicomico processo non sono gli alti comandi militari ma piuttosto i soldati) raggiunge vette parossistiche. In secondo luogo – il che rappresenta un vantaggio rispetto ai colleghi che raccontano di colpevoli – la via crucis di Sacco e Vanzetti fornisce un argomento rilevante al dibattito: l’irreversibilità della pena di morte. Questa conseguenza, messa in relazione con la possibilità dell’errore giudiziario, è una delle ragioni principali addotte dagli abolizionisti. Tuttavia ciò non è neppure completamente applicabile al nostro caso, perché non si tratta di porre rimedio ad un errore giudiziario – il che implica la volontà di ricercare la verità dei fatti – quanto invece di smascherare un doloroso esercizio dell’autorità. Certamente se si fosse trattato, per esempio, di un ergastolo sarebbe rimasta aperta la possibilità di dimostrare la sussistenza dell’errore; tuttavia non deve trascurarsi che l’ammissione esplicita dell’irregolarità del processo, con la conseguente riabilitazione di Sacco e Vanzetti da parte delle autorità, si produsse solo nel 1977 ad opera di M. S. Dukakis, l’allora governatore del Massachusetts. Cinquant’anni dopo essere stati giustiziati sulla sedia elettrica.
Ad ogni modo, non servono argomenti teorici, morali o di diritto penale per criticare l’impiego della pena di morte contro Sacco e Vanzetti. Il giudizio non è stato conforme alla legge e questo è tutto. Inserire però tale pellicola nel dibattito sulla pena di morte costituisce una difficoltà aggiuntiva. Dico aggiuntiva dal momento che la questione della pena capitale mi pare, già di per sé, assai problematica sotto il profilo dell’argomentazione pratica. È un problema di giustificazione, non di convinzione: si può avere un’idea molto chiara e definitiva al riguardo, ma essere in condizione di addurre motivazioni convincenti sul piano intersoggettivo è cosa ben distinta. Credo che l’operazione più corretta sia quella di inquadrare il tema all’interno della giustificazione della sanzione penale, più che nel solco della riflessione sui diritti umani. Ciò per una semplice ragione materiale: quello dei diritti umani è un terreno troppo formale (proiettato necessariamente su scala internazionale è viziato dai noti problemi di esecutorietà ed efficacia), astratto (a causa di quanto detto prima si risolvono molti problemi nella teoria ma pochi nella pratica) e mistificatorio (tutti gli ordinamenti, compresi i più “democratici”, si riempiono la bocca dei diritti civili e politici ma fanno orecchio da mercante quando si tratta dei diritti sociali ed economici) per poter offrire un sistema di riferimento certo e non traballante. E nemmeno attraverso il richiamo al diritto alla vita tout court: il miglior argomento, in tal senso, ce lo fornisce lo stesso Vanzetti, quando risponde ad un Sacco distrutto dalla crudeltà della condanna che è meglio morire che vivere così (il che impone la necessità che si parli, in ogni caso, di diritto ad una vita “degna” di essere vissuta in luogo di un generico diritto alla vita). Di contro, il campo della funzione della pena è stato storicamente quello dove è maggiormente fiorito il dibattito, sebbene i termini essenziali di quest’ultimo continuino ad essere sostanzialmente gli stessi da più di duecento anni. Abolizionisti contro non abolizionisti. Il problema è che a ciascuna di queste posizioni non corrisponde un progetto univoco su quale debba essere la principale giustificazione delle condanne. La questione non è semplice al punto da potersi chiaramente affermare che chi maneggia una concezione retributiva della pena – vale a dire, quella per cui la giustificazione sta nell’indennizzo, secondo l’equivalenza tra malum actionis e malum passionis – appartiene alla schiera dei sostenitori della pena di morte, mentre i fautori della pena come strumento di prevenzione sono tutti abolizionisti. Avere una determinata posizione in rapporto alla funzione della pena non significa, automaticamente, essere a favore o contro la pena capitale. Ritenere che la sanzione penale sia concepita ed orientata a fini di dissuasione, allo scopo cioè di scoraggiare tanto il reo quanto gli altri membri della società a commettere crimini, non chiarisce nulla sul fatto di essere o meno sostenitori della pena di morte. La funzione della pena è il fine, il tipo di pena il mezzo. Il comune obiettivo di prevenzione dei delitti sembra potersi giustificare da entrambe le prospettive: quella di chi, come Beccaria, sostiene che è inconcepibile pensare che gli individui che rinunciano a vivere nello stato naturale abbiano potuto mettere a disposizione dei propri simili il loro stesso diritto alla vita; e quella di chi, come Rousseau, crede che è appunto per non rimanere vittima di un omicidio che ogni cittadino che lo commetta dà il proprio assenso a morire per mano della collettività. La diatriba è difficilmente risolvibile, giacché mancano dati empirici risolutivi che dimostrino la maggior efficacia preventiva di ognuna delle posizioni in conflitto. Inoltre, l’argomento empirico, almeno dal mio punto di vista, non risulterebbe risolutivo anche laddove dimostrasse che gli indici di criminalità dipendono effettivamente dall’introduzione o dal mantenimento della pena di morte nell’ordinamento, cosa che, d’altra parte, non accade. L’efficacia a tutti i costi suole generare effetti perversi: può essere che nessuno realizzi condotte criminose perché nessuno è libero di realizzare condotte…
Tanto meno l’appello alle ragioni morali offre una soluzione univoca alla questione, poiché entrano in contrasto teorie morali sostanzialmente distinte. Per alcuni la pena di morte è moralmente ammissibile perché risponde a criteri di giustizia, tanto se si sancisce il primato del collettivo sull’individuale (si ricordino le parole di San Tommaso: “se un uomo rappresenta un pericolo per la comunità è lodevole e salutare mandarlo a morte per salvare il bene comune”) quanto se si allega il diritto particolare delle vittime, e dei loro familiari, ad una qualche forma di risarcimento (quantificabile, ovviamente, solo in termini di conforto, ambito irrazionale difficilmente suscettibile di mediazione giuridica). Per altri, la pena di morte inflitta asetticamente dall’ordinamento è ancor più riprovevole che la morte procurata in circostanze di fatto puntuali ed irripetibili.
Queste brevi notazioni testimoniano la difficoltà di applicare un’etica discorsiva al tema della pena di morte; si possono condividere i presupposti razionali di fondo e, ciononostante, arrivare a conclusioni opposte. Valori, mezzi e fini: tutto gira attorno a questo trittico. Non v’è dubbio che, alla maniera di San Tommaso, tutti i personaggi principali del film Sacco e Vanzetti abbiano un’idea chiara di ciò che è il bene comune e di ciò che è la giustizia. Vanzetti ne ha una; Thayer e Katzmann ne hanno un’altra; e l’avvocato Thompson dimostra di possederne una diversa dalle precedenti. Quest’ultimo è l’unico che creda nell’indissolubilità del binomio diritto-giustizia, almeno fino al finale, quando il consumarsi del law in action rende evidente che la sua convinzione teorica non è operativa nella democrazia statunitense degli anni venti. Il fallimento dell’avvocato Thompson dimostra come la teoria pura del diritto nasca già sconfitta dalla pratica giuridica (o forse conferma, ancora una volta, la sua reale operatività al limite di ogni purezza…): gli ultimi gradini del Stufenbau sono il giudice Thayer ed il governatore Fuller e, per la verità, non somigliano molto ad una Grundnorm; per lo meno non sono presupposti né ipotetici.
Quel che Giuliano Montaldo ci vuol mostrare, per mezzo del film, è che Sacco e Vanzetti vengono condannati a morte per la loro condizione di immigranti e per i loro ideali politici anarchici, essendo il meno la circostanza che siano colpevoli o innocenti dei fatti concreti di cui li si accusa. Non c’è una condanna aperta e manifesta della pena di morte in generale perché la pellicola, in realtà, non riguarda questo. Ciò nonostante, qualsiasi spettatore si sente spinto a riflettere sul tema perché si scontra con la questione. A tal proposito, mi pare molto convincente la descrizione di Victor Hugo laddove dice che si può essere indifferenti e non pronunciarsi sulla pena di morte fintanto che non si sia mai vista una ghigliottina. Ma laddove se ne veda una, occorre prendere posizione, a favore o contro.
È questa una reazione viscerale, che non passa per il filtro della razionalità argomentativa, e mi si rende disponibile quale unico punto di partenza realmente certo. Maleauguratamente è anche un punto di non ritorno: il problema di assumere una visione tendenzialmente irrazionale è che torna difficile la riflessione discorsiva. Se dovessi giustificare davanti ad una platea di ascoltatori il mio rifiuto della pena di morte non mi si offrirebbe miglior argomento che citare le parole pronunciate in un’occasione dal Presidente della Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, davanti al Senato: “Ho sempre pensato che un paese civile non possa accogliere nel proprio ordinamento la pena di morte”. Nessuna considerazione mi convince al pari di questa: Sacco e Vanzetti (insieme ad altri personaggi di spicco: Moore, Thompson, il giornalista che lo aiuta) rappresentano, in questo gioco delle parti, la civiltà, il patrimonio culturale, la memoria storica; il giudice Thayer, il procuratore Katzmann ed il governatore Fuller incarnano la barbarie, la menzogna e l’oblio. Qui il confronto non può ridursi alla lotta fra fautori e non della pena di morte, ma è un buon esempio di ciò che si definisce “cultura giuridica”. Né si deve dimenticare la complicità dell’“accademia” nella triste storia di Sacco e Vanzetti: sollecitando evidentemente i ricorsi inoltrati la celebrazione di un nuovo giudizio, Fuller nomina un Comitato presieduto dal Rettore dell’Università di Harvard, Abbot Lowell, che finirà col confermare la sostanziale regolarità del processo. Curiosamente, tutto all’opposto di un altro illustre cattedratico di Harvard, Felix Frankfurter, che scrisse affinché si riaprisse il processo, dimostrando i pregiudizi di Thayer contro gli accusati. Il giudice Holmes, della Corte Suprema, non intervenne nella vicenda, adducendo che si trattava di una materia statale e non federale.
Dal punto di vista della giustificazione della sanzione penale, l’unico argomento “razionale” convincente che trovo contro la pena di morte è il reinserimento. Tale funzione della pena è ovviamente incompatibile con la privazione della vita del condannato, giacché richiede la partecipazione attiva del soggetto che si pretende “recuperare”. In più, la funzione rieducativa della pena è compatibile con l’esigenza preventiva, a differenza di quest’ultima che, in caso di inclusione della pena di morte, taglia di netto la possibilità rieducativa. In ogni caso, sono comunque chiari i rischi insiti nel concetto di recupero: basti ricordare lo straordinario esempio cinematografico offertoci da Stanley Kubrick con il “trattamento Ludovico” in Arancia meccanica (Stanley Kubrick, 1971). Il giovane Alex, protagonista del film ed ultraviolento di professione, è sottomesso in carcere ad una terapia d’urto (un cocktail infallibile di condizionamento psicologico e droga) destinata a strappargli l’impulso criminale ed a “recuperarlo”, in questo modo, per la civile convivenza sociale. Risultato: gli si toglie l’istinto violento, ma con esso evapora anche la sua capacità di autodeterminazione volitiva. Sparisce la propensione al delitto, ma proprio perché sfuma la possibilità di scelta. A pensarci bene, non tanto diversamente da una condanna a morte. È chiaro che in un’ipotesi come questa c’è da essere assai ambigui a parlare di reinserimento. Sono certo che molti – io per primo – non hanno potuto evitare un sospiro di sollievo quando, alla fine della pellicola, Alex si scopre “curato” e torna ad essere il potenziale delinquente di prima. Contro un’esecuzione incivile da parte dell’autorità che pretenda di riparare ad una condotta incivile di un cittadino (come ha affermato la scrittrice Katherine Ann Porter a proposito dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti, “il processo fu solo una maschera che travestì il crimine), è normale che si assuma – almeno per noi che non apparteniamo alla combriccola dell’altra guancia – una posizione che finisce per disattendere le regole giuridiche formali, scatenando così un progressus ad infinitum. Contro mali estremi, estremi rimedi.
Così dunque, nel momento esatto in cui incrina la nozione stessa di reinserimento (applicando – mentre si gloria del monopolio legittimo dell’uso della forza – una assai poco educativa legge del taglione), il potere costituito si fa beffe della funzione preventiva della sanzione penale e riesce a realizzare il suo rovescio. Buona prova ne è l’iscrizione su una bandiera che accompagnava le corone di fiori al funerale di Sacco e Vanzetti: Aspettando l’ora della vendetta. Il 27 settembre 1932 il giudice Thayer uscì illeso da un attentato.
Forse per questo la pellicola di Montaldo risulta a qualcuno manichea o politicamente schematica (si è anche detto che il film ignora gli argomenti esposti in alcune pubblicazioni degli inizi degli anni sessanta, in cui si cercava di arguire l’effettiva colpevolezza di Sacco). Ma occasionalmente, e questo è il caso, la finzione può essere la fedele riproduzione di una realtà manichea. Dice Baudrillard che l’universo non è dialettico, che è condannato agli estremi, non all’equilibrio, che è condannato all’antagonismo radicale, non alla conciliazione. In un caso come quello di Sacco e Vanzetti risulta difficile dargli torto. A che servono le ragioni del diritto quando – come sostiene l’avvocato Moore in un momento del processo – “il banco degli accusati è il luogo più pulito di questo Tribunale”?
http://www.jgcinema.com/single.php?sl=sacco-vanzetti-film



9 comentarios:

  1. ¿Subtítulos en italiano para esta gran película?
    Desde ya, ¡gracias por el sólo hecho de subirla!

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  2. Los subtítulos están en español.
    ¿Buscás subtítulos en italiano?, yo no los encontré.
    Si aparecen los subiré.
    Saludos.

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  3. Amarcord hola! su blog es tan interesante que usted debe (lentamente ...) no transferir vídeos Zippyshare perderlos. Sacco y Vanzetti, por ejemplo, ya no están disponibles ...
    Gracias y buena suerte
    Stefanos

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  4. File has expired and does not exist anymore on this server

    REUP, PLEASE!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

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  5. grazie!!!!!!!!!!!!!!!!!! ^____^

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  6. File has expired and does not exist anymore on this server

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    thanks

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