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jueves, 4 de agosto de 2011

Io non ho paura - Gabriele Salvatores (2002)


TÍTULO Io non ho paura
AÑO 2002 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 109 min.
DIRECTOR Gabriele Salvatores
GUIÓN Niccolò Ammaniti & Francesca Marciano (Novela: Niccolò Ammaniti)
MÚSICA Ezio Bosso & Pepo Scherman
FOTOGRAFÍA Italo Petriccione
REPARTO Diego Abatantuono, Aitana Sánchez-Gijón, Giuseppe Bocchino, Dino Abbrescia, Mattia Di Pierro, Stefano Biase, Giulia Matturo, Fabio Tetta, Giorgio Careccia, Antonella Stefanucci, Michele Vasca, Fabio Antonacci
PRODUCTORA Coproducción Italia-España-GB
WEB OFICIAL http://www.iononhopaura.it/
GÉNERO Intriga | Vida rural. Años 70

SINOPSIS En 1978, durante el verano más caluroso del siglo, en la aldea de Acque Traverse todo parece inmóvil, inactivo; el colegio ha terminado, los adultos se resguardan dentro de sus casas para escapar del calor que a todos sofoca. Solamente un pequeño grupo de niños se mueve libremente alrededor de la ciudad y del campo que la rodea, jugando y corriendo aventuras. Durante una de ellas, el pequeño Michelle, un chico de nueve años, descubre un secreto increíble: la ciudad en la que está creciendo está ocultando a un niño -apenas de su misma edad- cautivo en un hoyo dentro de una casa abandonada. (FILMAFFINITY)


Legioni di nuvole che galleggiano fino all'orizzonte, campi di grano accecanti, un borgo di allevatori e contadini che sembra isolato dal mondo: nel portare sullo schermo il bel romanzo di Niccolò Ammaniti ("Io non ho paura"), Salvatores stavolta ha avuto buon gioco nel disseminarlo di quelle ossessioni del cinema americano che porta sempre con sè in incubazione in ogni film. L'idea di allestire in un angolo meridionale dell'Italia degli anni '70 una sorta di immaginario midwest mediterraneo, che affonda le radici in un mondo rurale e primordiale, lontano dalla modernità, provvede a fornire all'intreccio del romanzo una scena congeniale. Sembra il paesaggio ideale di un racconto di Stephen King in cui un gruppo di teenager viene per la prima volta a contatto con il pericolo della morte, l'orrore e il mistero che sono il controcanto di ogni avventura: è invece lo scenario in cui si annida la gestione del rapimento di un bambino negli anni '70. Scena diversa, stesso orrore.
Tra radio a transistor e biscotti Ringo, tra empori dove si vendono pagnotte e ceri per le preghiere e il faccione di Emilio Fede, la cui chioma gremiva in quegli anni lo schermo del TG1, il film ripercorre piuttosto fedelmente la graduale scoperta del giovane protagonista del romanzo: il padre, camionista, con la complicità di un altro paio di famiglie limitrofe e la regia di un minaccioso Abatantuono nella parte di un disperato e balordo basista, tiene segregato un bambino per ottenere un riscatto dalla ricca famiglia del nord al quale appartiene. Michele, il ragazzo protagonista, che scopre il bambino stravolto, denutrito e incatenato nell'orrido anfratto di un casolare in rovina - un tratto del soggetto che richiama un film di Carlo Carlei: La corsa dell'innocente - avrà un ruolo decisivo nella vicenda, andando incontro ad una sorta di dramma edipico all'incontrario.
Nei racconti di Ammaniti, probabilmente il più dotato tra i giovani narratori italiani delle ultime stagioni, c'è sempre l'irruzione di brutalità, sopraffazione e violenza in una quotidianità amorfa o inconsapevole della propria domestica mostruosità. A volte i suoi racconti stingono in un granguignol grottesco, ma questo romanzo è costantemente sotto il controllo di uno stile che punta ad un'area più sfuggente e delicata: il disvelamento dello squallore degli adulti e la percezione della loro miseria e fragilità, il fascino del fantastico e la scoperta traumatica della diffusione dell'illegalità. La paura è l'emozione attraverso la quale il protagonista scopre l'esistenza di una istintiva fraternità, quasi animale, ma anche la possibilità di non soccombere ad un mondo crudele e infelice, anche se il film conserva una speranza di lieto fine che il romanzo sembra decisamente escludere.
Il passo è fluido e sicuro, i bambini protagonisti sono tutti dotati di una mobile vividezza, gli adulti lavorano al tratto grosso delle loro canaglie piene di disperazione e paura, senza accanirsi sul loro cinismo, il paesaggio maestoso e remoto, è l' originale scenografia di una sorta di gotico pugliese o lucano. Se il protagonista fosse ancora vivo e sentisse oggi i dibattiti sul terrorismo, pieni di rancore per gli anni di piombo, forse avrebbe voglia di raccontare cos'era il resto d'Italia in quegli anni: quando si progettavano i rapimenti in una fattoria, col sottofondo del borbottio della passata di pomodori sul fornello.
Mario Sesti
http://trovacinema.repubblica.it/film/critica/io-non-ho-paura/122681


LA DOLOROSA FINE DI UN’INFANZIA
Un romanzo di formazione
L’avventura estiva di un gruppo di ragazzini che per uno di loro, a sua insaputa, diventerà l’occasione per passare dall’ingenuità infantile ad un grado maggiore di consapevolezza della realtà, è la tematica principale del racconto di Stephen King Il corpo (Stand by me), ma anche del più recente romanzo di Niccolò Ammaniti Io non ho paura, che Gabriele Salvatores ha portato sul grande schermo, con la sceneggiatura dello stesso scrittore. Non c’è nessuna intenzione polemica in questa constatazione, semmai la volontà di evidenziare come l’ambientazione, i personaggi, il contesto che caratterizzano l’opera le assegnino una connotazione di originalità, benché siano riconoscibili in essa gli elementi tipici del romanzo di formazione, al quale appartiene anche il racconto di King. Infatti Michele, il giovane protagonista, si muove in mezzo a tanti falsi maestri, per poi realizzarsi grazie al contributo di un personaggio che, usando in senso lato la terminologia di Vladimir Propp, potremmo chiamare donatore: Filippo, un coetaneo rinchiuso in una buca scavata nel terreno dai suoi rapitori, uno dei quali è il padre di Michele stesso. Sarà dunque per mezzo di questo singolare incontro, che il protagonista potrà fare sua l’affermazione contenuta nel titolo del romanzo.
La trasposizione cinematografica nasce da un felice incontro: da una parte Ammaniti alla sua migliore prova come sceneggiatore , coadiuvato dall’esperta Francesca Marciano ; dall’altra Salvatores che, dopo pellicole poco convincenti, si ritrova particolarmente ispirato. Il regista milanese nel corso della sua carriera in una sola occasione aveva diretto un film tratto da un’opera letteraria , ma in questo caso non ha voluto occuparsi della sceneggiatura, concentrandosi sulla regia; forse è stata proprio questa scelta a favorire la riuscita del film. Per altro la vicenda che il romanzo racconta, contiene tematiche care al regista: il sud, l’incontro/scontro con le responsabilità della vita, il labile confine tra ciò che è legale e ciò che non lo è, l’inconscio e le sue paure… E se Salvatores ha dato il meglio di sé raccontando la propria generazione, Michele, che ha nove anni nel 1978, potrebbe essere il fratello minore che quella generazione guarda con affetto e forse un po’ di invidia.
Lo sguardo di un bambino
Era inevitabile, vista la presenza di Ammaniti fra gli sceneggiatori, che il film mantenesse una sostanziale fedeltà al romanzo. Eppure qualche modifica può essere notata nelle modalità della narrazione. Il narratore dell’opera letteraria è il protagonista stesso, che racconta i fatti a distanza di anni; anche in questo Io non ho paura ricorda The body, ma con la differenza che nel primo non troviamo nessuna traccia di nostalgia per l’epoca raccontata, semmai a caratterizzare la narrazione di Michele è una certa consapevolezza che solo a tratti affiora, in condivisione col lettore. Il punto di vista narrativo del film è invece affidato allo sguardo infantile del protagonista, lasciando allo spettatore la possibilità di intuire ciò che per lui è incomprensibile. Il 1978 è, nella memoria collettiva, l’anno dei tre papi, del rapimento e dell’uccisione di Moro, delle dimissioni del presidente Leone, ma nulla di tutto questo può appartenere alla vita di un bambino di nove anni di Acque Traverse, immaginaria località meridionale fatta di «quattro casette e una vecchia villa di campagna disperse nel grano» . Il film ci immerge nella sua realtà, fatta di gite in bicicletta, partite a pallone, giochi infantili, pomeriggi assolati in cui ci si annoia. Il resto del mondo non esiste: Michele non sa neppure cosa sia il rapimento di un bambino. La cifra stilistica di Salvatores è in questo senso semplice ed efficace, come egli stesso spiega: «La scelta di tenere la macchina da presa a un metro e trenta era necessaria per ritrovare lo sguardo di un bambino che guida il film».
Altre informazioni sono lasciate all’intuito del lettore ed alla sua capacità di interpretarle. Si pensi ad esempio all’ambientazione temporale. La vicenda si svolge, come si è detto, nell’estate del 1978 e nel romanzo lo scopriamo quasi subito. Nel film si può intuire il periodo dall’abbigliamento dei personaggi, da alcune battute, dal TG1 in bianco e nero condotto da Emilio Fede, dalle canzoni provenienti da una fonte sonora diegetica (una radio) e ancora da alcuni oggetti (le cinquecento lire di carta e i numeri dell’Intrepido) che potremmo quasi definire d’epoca.
Lo stesso discorso vale per l’ambientazione locale, mantenuta vaga nel romanzo e che anche nel film si può individuare in modo generico, tramite i dialetti e le targhe delle automobili. Le riprese sono state comunque effettuate nelle vicinanze di Melfi e i bambini che recitano sono originari della zona.
Ci sono infine situazioni in cui la macchina da presa, con un’apprezzabile invenzione di regia, sembra allontanarsi dal punto di vista del protagonista, per andare a cogliere a figura intera qualche insetto o qualche animaletto perduto tra il grano. Lo sguardo non è più quindi quello di Michele, ma è quello del regista che vuol comunicarci che quei paesaggi, quegli splendidi squarci naturali, le cui immagini sono spesso commentate da un tema musicale che ricorda il Canone a tre voci su un basso ostinato di Johann Pachelbel, nascondono numerose insidie. Sotto il bellissimo grano dorato c’è un pauroso buco nero, metafora di «come eravamo» afferma Salvatores «il giorno in cui dall’oro dell’infanzia, siamo dovuti passare al buio dell’età adulta».
Una fuga dalle illusioni
La crescita, il momento di passaggio sono resi evidenti da una serie di netti contrasti: il giorno e la notte, il buio e la luce, l’infanzia e l’età adulta, la paura e il coraggio. Michele si muove in un precario equilibrio, oscillando fra gli opposti o attraversandoli continuamente, come fa quando oltrepassa il filo spinato, per raggiungere il casolare dov’è imprigionato il suo coetaneo. Le prove a cui è continuamente sottoposto possono perciò essere interpretate come un lungo rito di iniziazione: la penitenza, la stanza da letto condivisa con uno sconosciuto, il tradimento di colui che considerava amico, la discesa nel buco-nascondiglio. Ma solo con la disobbedienza al padre, la coraggiosa fuga di notte e la liberazione del nuovo amico Michele perderà l’infanzia. In questo senso si è scelto per il film un finale meno aperto e più consolatorio.
Un elemento fondamentale del passaggio all’età adulta è la disillusione: film e romanzo si fermano prima che Michele possa realizzare di avere in casa l’uomo nero, ma nel romanzo l’occasione della disillusione è offerta dalla bicicletta nuova. Nel processo di sottrazione che quasi inevitabilmente accompagna ogni trasposizione cinematografica di un testo letterario, gli sceneggiatori hanno rinunciato a questa significativa circostanza. Michele possiede una vecchia e brutta bicicletta, ereditata dal padre, che è chiamata Scassona. Per cercare di distogliere il suo interesse verso la scoperta di Filippo, il ragazzo riceverà un regalo: «Era una bicicletta tutta rossa, con il manubrio che sembrava le corna di un toro. La ruota davanti piccola. Il cambio a tre marce. Le gomme con i tacchetti. Il sellino lungo che ci potevi andare in due…Sopra la canna c’era scritto in oro Red Dragon». Geloso ed entusiasta, Michele scoprirà ben presto che «Red Dragon era una fregatura. Non lo volevo ammettere ma era così. Se ti tiravi su, ti trovavi il manubrio in bocca e se cambiavi marcia, se ne usciva la catena». Conoscere la realtà significa abbandonare le illusioni: nella fuga notturna che metaforicamente lo allontana dall’infanzia, Michele userà la Scassona.
Con la precisione e la tenerezza con cui viene ricostruita l’epoca del film per la Scassona è stata utilizzata una Atala 2000, forse il modello meno efficiente nella storia di questo mezzo di locomozione, ma è un peccato che manchi ogni riferimento alla Red Dragon ed alla sua valenza simbolica.
Un’ultima annotazione riguarda il cast. La critica ha sottolineato pressoché all’unanimità la qualità della recitazione, a cominciare dai bambini, tutti esordienti ma spontanei e sempre credibili. Va apprezzata anche la felice scelta di aver affidato la parte di Sergio a Diego Abantatuono, che spicca in mezzo a tanti attori sconosciuti, proprio come Sergio si differenzia, per provenienza, esperienza ed autorevolezza, da tutti gli altri personaggi del romanzo.
http://abbracciepopcorn.blogspot.com/2009/07/io-non-ho-paura.html

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