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sábado, 4 de febrero de 2012

Le stagioni del nostro amore - Florestano Vancini (1965)


TÍTULO ORIGINAL Le stagioni del nostro amore
AÑO 1965
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS En inglès 
DURACIÓN 104 min. 
DIRECTOR Florestano Vancini
GUIÓN Elio Bartolini, Florestano Vancini
MÚSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFÍA Dario di Palma
REPARTO Enrico Maria Salerno, Anouk Aimée, Gian Maria Volonté, Jacqueline Sassard, Gastone Moschin, Valeria Valeri, Pietro Tordi, Daniele Vargas, Elena Ballesio
PRODUCTORA Ga.Va. Film
PREMIOS 1966: Festival de Berlín: Premio Internacional de la Crítica FIPRESCI
GÉNERO Drama
 
SINOPSIS Un periodista de izquierdas, en crisis tanto sentimental como políticamente, visita el pueblo de sus orígenes y reflexiona sobre su vida. (FILMAFFINITY)



Trama
Vittorio Borghi, un giornalista quarantenne, è giunto ad un momento di crisi, o meglio di ripensamento, di riflessione su una vita di cui è ormai trascorsa la parte migliore. L'occasione della crisi è un'avventura sentimentale: Vittorio è legato ad una ragazza, Elena, molto più giovane di lui, ma questa è una relazione ormai giunta alla fine. Ed è proprio l'addio con la ragazza assieme alla rottura definitiva con la moglie, Milena, a spingerlo nei luoghi della giovinezza in cerca di ricordi e di amicizie quasi dimenticate. Vittorio ritorna a Mantova, incontra gli amici del padre - un postino di campagna, vecchio socialista all'antica - i compagni di scuola, della resistenza, delle lotte politiche, del dopoguerra. Se i ricordi degli avvenimenti sono vivi e presenti, le persone sono invece mutate, lontanissime. Anche Vittorio è profondamente cambiato: è deluso, non crede più agli ideali per cui ha lottato durante e dopo la resistenza, e, ferito nei sentimenti, non riesce a trovare un punto di contatto con chi gli era stato vicino in gioventù. Il pellegrinaggio ai luoghi del tempo trascorso terminerà in una balera lungo il Po, dove un gruppo di ragazzi e ragazze è riuscito a far funzionare un juke-box. E' un altra gioventù che non ricorda in alcun modo quella di Vittorio, allegra, senza problemi, ma forse con un più esatto senso della vita.

Critica
"La suggestiva rappresentazione di un ambiente di provincia italiana, la crisi della ideologia marxista che emerge dal contrasto del protagonista con i suoi ricordi lontani, la rivalutazione dei sentimenti dell'uomo, fanno di questo film un'opera di indubbio interesse. Non troppo focalizzata e risolta la figura del protagonista: buona la regia; suggestiva la fotografia e rimarchevole l'interpretazione".
(Segnalazioni cinematografiche, vol. 61, 1967)

"Il film vuole essere (...) prima di tutto, la testimonianza di una crisi, che è insieme sentimentale e ideologica, vista attraverso gli occhi di un personaggio che vorrebbe essere emblematico. (...) Il film procede dunque sul filo delle riflessioni, dei ricordi (...) accumulando una serie di elementi che dovrebbero servire a definire i termini della sua crisi personale (...) L'intellettualismo e un certo compiacimento formalistico sono quindi i limiti più vistosi di questo film."
(A. Bernardini, "Cineforum", 54, aprile 1966)

Note


Liquidare “Le stagioni del nostro amore” come l’autoritratto inquieto dell’intellettuale Vancini è, oltre che riduttivo, ingiusto. Probabilmente il punto massimo della carriera del regista, è un film fondamentale per capire il decennio settimo del secolo breve. Attraverso il personaggio del giornalista Vittorio Borghi – appena approdato ad un quotidiano “laico” dopo anni di militanza giornalistica nel giornale di partito (“l’Unità”?), Vancini trova il modo per parlare di sé stesso e del suo posto nel mondo, cercando di arrivare alle cause della crisi esistenziale che travolge un certo ceto della sua generazione: l’allontanamento dalla vita politica – in questo caso dal comunismo, quand’era ancora una ideologia di popolo, e non da élite radical-chic – è vissuto in funzione alle dinamiche personali e come proiezione della propria inadeguatezza nella società. Dov’è finito lo spirito di un tempo, che ci mosse partigiani sulle montagne in nome della libertà e della resistenza al nazifascismo? Dove siamo finiti noi? Accusato a destra e a manca di essere troppo autoreferenziale, non ci si rende conto che ne “Le stagioni del nostro amore” a specchiarsi siamo (anche) noi, non solo l’autore servendosi di Borghi. Proprio al Borghi come esemplificativa figura si è poi inconsapevolmente attribuita un po’ l’avvio a tutta quella serie di intellettuali di sinistra in crisi con sé stessi e dunque col mondo. Non è un luogo comune, Vittorio Borghi, ma il perfetto concentrato umano di quei sentimenti intrinseci e di quegli sviluppi psicologici appartenenti all’ordinario (non stereotipato) intellettuale di sinistra, smarrito in una società di cui non afferra i moti, perso tra i ricordi quasi commiserevoli della stagione delle battaglie, inquieto nei riguardi del divenire della sua vita, sospeso tra voglia di normalità e bisogno di conoscere l’estremo. E tra una conversazione coi vecchi compagni di avventure giovanili (sia un professore-assessore comunista sottilmente disperato, sia un ex comandante partigiano con l’artrite diventato guardia notturna, sia l’antica fiamma di cui, forse, è ancora innamorato) e un litigio con un post-fascista, una scorribanda in auto con l’amante giovane e un dissidio con la moglie, il suo piccolo universo borghese comincia a perdere la sua ragione di esistere. Tanto vale, sul finale, abbandonarsi ad una dimensione quasi allegorica dell’incomunicabilità che assale l’autore e il suo alter ego, ma anche la collettività inconsapevole del baratro in cui si sta, piano piano, calando. Coscienza critica di una provincia meccanicamente annoiata, Vittorio non si accontenta di sopravvivere, ma non riesce appieno a vivere. Corpo vigoroso ed anima angosciata glieli offre Enrico Maria Salerno alla sua migliore interpretazione.

Sulla regia di Florestano Vancini
Probabile autoritratto del suo vivere esistenziale. La prova migliore della sua carriera? Forse sì. Perché c'è dentro fin sopra i capelli. Ha una notevole cognizione di causa.

Sull'interpretazione di Gastone Moschin
Il comandante partigiano con l'artrite, riciclatosi guardia notturna: la personificazione del tempo che scorre e dimentica l'importanza dell'azione di determinati personaggi. Bravissimo.

Sull'interpretazione di Gian Maria Volonté
Il vecchio compagno comunista, professore ed assessore alle finanze, deluso dalla moglie prostituta (e lo ammette) e da un'ideologia che non riesce a stare più a capire (ma non lo ammette). Irrequieto, sensibile, sofferto.

Sull'interpretazione di Jacqueline Sassard
L'amante giovane del presente, simbolica presenza che proviene dall'universo ninfatico di "Guendalina" e "Nata di marzo". Recidiva, sorprendente.

Sull'interpretazione di Anouk Aimée
L'amante dei vecchi tempi, verso la quale non si è indifferenti. La ama ancora, molto probabilmente, nonostante la sfuriata: è la memoria che fa crescere anche i ricordi meno gai. Brava.

Sull'interpretazione di Enrico Maria Salerno
La sua più importante e più bella interpretazione. Alter ego di Vancini, coscienza critica di una provincia meccanicamente annoiata, sospeso tra passato che non passa, presente che non segna e futuro che non arriva. Straordinario.

Sulla colonna sonora



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