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jueves, 17 de noviembre de 2011

Forse Dio E Malato - Franco Brogi Taviani (2007)


TITULO Forse Dio é malato
AÑO 2007
DURACION 90 min.
DIRECCION Franco Brogi Taviani
GUION Franco Brogi Taviani, basado en el libro de Walter Veltroni
FOTOGRAFIA Stefano Moser
MONTAJE Alessandro Cerquetti
SONIDO Ignazio Vellucci, José Nascimento, Fabio D’Amico, Franco Coratella
MUSICA Giuliano Taviani, Carmelo Travia, Badarà Seck, Siya Makuzeni
ENTREVISTAS Khalo Matabane, Horacio Caballero, Manuel Anselmo Miguel, Horatio Guiamba, Manuel Francisco, Elias Marufo Mafunde, Mamadou Wade, Mamadou Niang, Dario Dosio, Brian Nemavhidi, Madine Nel, Jacinta Nagero, Nazziya Yudaya, Sarah Nakiriyya
PRODUCCION Grazia Volpi per Ager 3
DISTRIBUCION Istituto Luce
SITIO OFICIAL http://www.forsedioemalato.it/


Al di là del personale umano arricchimento di questa eccezionale esperienza, un film sull’Africa di oggi è stata per me, autore e regista, un’occasione unica, irripetibile: ho potuto utilizzare il mezzo d’espressione che è passione e mestiere di una vita, per schierarmi, in tutta umiltà e coscienza della relatività del contributo, con chi lavora perché il mondo prenda coscienza che la tragedia dell’Africa può trasformarsi in un disastro planetario. D’altra parte, almeno moralmente, il disastro, viste le responsabilità dell’occidente, ci ha già travolto.
Le persone colpite dall' Aids nell’Africa subsahariana sono salite in questi ultimi anni a quasi 25 milioni e mezzo e gli orfani a causa di questa malattia sono passati da 11 milioni e mezzo a 15 milioni.
E non si tratta solo dell' Aids. Non c'è rapporto, delle Nazioni Unite o di altre organizzazioni, che non ci dica di come siano stati fatti a volte più passi indietro che avanti, nonostante che in alcuni stati africani il prodotto interno lordo stia rapidamente crescendo: gli individui colpiti da fame cronica sono nel mondo 852 milioni e, fra i paesi con una percentuale di persone denutrite superiore al 35%, i primi sette sono africani. 20 milioni sono le mine sparse nel territorio (soprattutto in Mozambico e Angola). In nove paesi africani l’aspettativa di vita è scivolata sotto i 40 anni. Un bambino su sei, tra quelli che nascono nell'Africa subsahariana, muore prima di compiere 5 anni. Fame, guerra, malattia. Moltitudini che hanno poco o nulla, costrette a sopravvivere in una disperazione che sempre più diventerà rabbia e poi assedio e poi conflitto senza fine. In ballo c'è il futuro non solo dell' Africa, ma del mondo, la cui sicurezza e sopravvivenza dipendono esclusivamente dalla sconfitta della povertà.
Ma che fare con una cinepresa di fronte a tanta enormità. Quando Grazia Volpi, che ha sempre fortemente voluto questo film, mi propose di scriverne la sceneggiatura e realizzarlo, stavo per rifiutare. Ero impaurito e non mi sentivo all’altezza della situazione.
Ma fortemente coinvolto dalla passione, mai indulgente, che traversa tutto il libro di Veltroni, ho cominciato a documentarmi e sono partito per i sopralluoghi.
L’Africa mi ha preso e macinato.
E cominciando a vedere e a vivere i luoghi e le situazioni, ho cominciato anche a pensare che il compito del film non fosse quello di dare giudizi, ma solo di stare tra la gente e raccontare, dare voce alle loro storie. Tante storie, di miseria e di amore, di sofferenza e di rabbia, storie di vita contestualizzate al loro ambiente. Niente pietismo, niente sensazionalismo. E dare voce solo a loro, ai protagonisti veri, ai nati lì.
Un taglio da cinema-verità e al tempo stesso da cinema di “poesia” (e non nel senso certo del sentimentalismo).
Ma quando mi sono trovato di fronte agli occhi del bambino abbandonato dalla madre che si gonfiano di pianto (avevo io la camera in mano, stavo per gettarla via e nel film se ne intuisce il gesto in una rapido scarto della panoramica) o quando abbiamo incontrato i ragazzi accusati di stregoneria in Angola, o le donne sieropositive dei Memory Books in Uganda, ancora una volta mi sono domandato sgomento: cosa ci faccio qui? che diritto ho? a cosa serve? E allora mi sono forzato a ripetere, a ripetermi: sto girando un film, 90 minuti di film che devono solamente servire a far vedere proprio quello che sto vedendo e non vorrei vedere. Un film sull'Africa Sub-Sahariana. Sono qui per unirmi al grido di allarme di molti. Non sono qui a parlare di soluzioni o di speranza. La speranza mi sembra che qui assuma un significato diverso: è come posporre il presente in un futuro che forse non ci sarà. Questi bambini, queste donne non sperano, "desiderano", desiderano essere vivi, desiderano cibo, desiderano certo un'altra vita, ma subito, qui, ora. Ma è solo facendo vedere immagini come queste che le cifre crude e terribili del disastro acquistano improvvisa corporeità. E' dopo aver parlato con Ignacio, il bambino di 10 anni che nella discarica di Maputo raccoglie ferro e che non sorride mai e che ci ha mostrato, senza alcuna giocosità, il suo gioco dell'andare a piedi nudi sui trampoli fatti con due barattoli arrugginiti, che le cifre della miseria, della violenza, dell'Aids acquistano un senso.
"Forse Dio è malato" è stato detto da un prete di fronte a tanto orrore. E' il titolo che Veltroni ha voluto dare al suo diario di viaggio africano a cui questo film con grande libertà si ispira, ma a cui senz’altro lo accomuna lo spirito che lo traversa e che per me si condensa in ciò che è scritto quasi alla fine: "In Africa l'obiettivo non è essere felici, ma sopravvivere. Ma è una guerra. E l'Africa può perderla, per sempre”.
Ho pensato dunque ad un film che guardi strettamente al presente e non si arrampichi sugli specchi di un futuro a tutti sconosciuto, un film a suo modo didascalico, ma dotato di una cadenza drammaturgica e poetica – quella dell’alternanza tra storie e testimonianze, tra documentario e ricostruzione filmica – scandita nelle canzoni che “poeticamente”, appunto, interpuntano e amalgamano la diversa e cruda materia narrativa.
Avevamo pensato all’inizio di usare diverse cantanti donne, rappresentative dei vari paesi toccati, che cantassero alcune delle pur bellissime canzoni locali, ma alla fine ci è sembrato che ne potesse sortire un’operazione un po’ troppo “etno” e allora abbiamo reputato che era meglio ridurre il tutto ad un linguaggio unico e comporre una musica apposita che combinasse il sentire occidentale a quello africano. E poiché avevo scelto di abolire qualsiasi tipo di voice over che si sovrapponesse alla significanza esplicita delle immagini, abbiamo pensato che la forma “canzone narrante” fosse la più adatta a dare continuità a questo tipo di storia in cui, pur di ottenere l’impressione del grande affresco corale, si passa da un paese all’altro senza neppure specificare dove si è. E così io ho scritto i versi, ispirandomi ai modi di alcune loro ballate popolari. Giuliano Taviani e Carmelo Travia hanno composto magnificamente la musica; il senegalese Badara Seck l’ha arricchita di vocalità e sonorità nere. Infine la giovanissima cantante sudafricana Siya Makuzeni, grande rivelazione, ha adattato il tutto alla sua sensibilità e alla sua lingua sonante. Siamo arrivati così ad un risultato che mi rende veramente felice e ogni volta ancora mi emoziona.
Spero dunque, in questi 90 minuti di cinema, di essere riuscito a portare l’Africa, questa tragica Africa dell’oggi, alla soglia delle nostre coscienze alle quali il film si rivolgerà con le voci di dentro, quelle che vivono e raccontano la tragedia, e che - ad ascoltarle bene - non sono poi così straniere, né così lontane dalle nostre.



Presentato all’European Film Market della Berlinale, dal 29 febbraio è nelle sale italiane di sei città (Roma, Milano, Torino, Firenze, Bologna e Napoli) Forse Dio è malato, ispirato al bestseller omonimo di Walter Veltroni -ma la tempistica di uscita non è sospetta, visto che la distribuzione era in calendario da settimane, par condicio o no -, che segna il ritorno dietro la macchina da presa di Franco Brogi Taviani, a diciassette anni dal tv movie Modì (1990). Girato in sei paesi dell’Africa subsahariana, dal Sudafrica al Senegal, passando per Angola, Mozambico, Uganda e Camerun, il film è un road movie del dolore, costellato di incontri e interviste, e tenuto insieme dal carisma vocale di Siya Mazukeni, giovane cantante e trombonista jazz sudafricana, per la quale il compositore Giuliano Taviani ha scritto appositamente delle canzoni in inglese, orchestrate ed eseguite dal gruppo del musicista senegalese Badarà Seck.
Povertà. Superstizioni. Malattie. Emigrazione. Si parte con il Sudafrica di Thabo Mbeki, con le sue città divise tra grattacieli e township, per entrare in un centro sugli abusi contro i minori, dove si proteggono le piccole vittime di un barbaro costume dettato da una superstizione moderna, che spinge i malati di Aids a stuprare bambini con l’aspettativa di essere guariti dal virus. Poi in Angola, attraversando immense discariche, dove intere famiglie scommettono sulla propria sopravvivenza, e le strade di Luanda, piene di ragazzi orfani o magari scacciati perché accusati di aver portato in casa il feitiço. Ancora un’arcaica paura, che ong locali combattono, proteggendo i piccoli emarginati e reintegrandoli con una cerimonia nel villaggio che li aveva espulsi; e giovani attori di teatro civile esorcizzano, mettendo in scena storie di esclusione e recupero, che provano in uno stabile coloniale in rovina.
Credenze e malattie sono difficili da curare, ma forse meno delle piaghe interiori che si portano dentro gli ex-bambini soldato ugandesi ospiti dei centri di recupero, di cui ascoltiamo i racconti, mentre raccolgono l’energia interiore necessaria a riaffrontare il loro villaggio dove, come gli accusati di feitiço, verranno reintegrati con un rito di accoglienza. Con dinamiche di esclusione e recupero non meno dolorose devono fare i conti le giovani donne ugandesi sieropositive intervistate, impegnate a conservare un rapporto vitale con la famiglia attraverso i memory book. In Africa si studia, ma in scuole senza sedie. Si dorme, ma senza acqua né elettricità, come nel fatiscente ex-Grand Hotel mozambicano, che ospita 370 famiglie. Ci si diverte, magari davanti a Miracolo a Milano di De Sica, proiettato in un villaggio sperduto del Mozambico dagli operatori del progetto Cinemarena, che approfittano della magia del cinema per mettere in scena brevi performance teatrali di sensibilizzazione contro la lotta all’Aids.
In Africa si sogna di venire in occidente, come Bouna Wade, che tutti i giovani senegalesi considerano come un martire della globalizzazione, perché nel 1999 è morto in Costa d’Avorio, ritrovato nel vano carrello di un aereo. Aveva già tentato tre volte di raggiungere in questo modo Lione, sfidando l’assideramento, e una volta c’era persino riuscito: in Francia l’hanno curato per bene e poi l’hanno rispedito a Dakar. Entriamo nella casa del vecchio padre, e ascoltiamo i progetti di fuga di alcuni ragazzi come Bouna. Quando accettano di confidarsi, perché la paura del fallimento o della malasorte impediscono ai più di parlarne. Storie, luoghi, volti di una cartografia della disperazione, che le impennate patetiche dello score, accostate ad agghiaccianti immagini in trasparente digitale della Mazukeni, gonfiano di un lirismo da spot Cei otto per mille.
A disturbare, in questa discesa agli inferi africani, oltre all’andamento da catalogo degli orrori, che purtroppo ricorda talvolta il gusto per le curiosità etnografiche da mondo movie, è inoltre l’esibito disinteresse per un’interpretazione dei contesti – vista l’assenza di cartelli esplicativi su luoghi e circostanze delle interviste – e la rinuncia all’assunzione di un punto di vista etico sostenibile: i siparietti che rivelano la presenza della troupe sono imbarazzanti saggi di umorismo italiota.

Trama:
Piccole storie che aprono spiragli e visioni sulla grande storia: un viaggio nell’Africa martoriata dalla guerra, la fame e l’Aids, attraverso il Mozambico, l'Angola, l'Uganda, il Senegal, il Cameroun ed il Sud Africa. Storie di bambini soldato e di bambini accusati di stregoneria. Di uomini e donne, soprattutto donne, che lottano contro la malattia, la miseria, la diaspora dell'emigrazione. Storie documentarie e di fiction che si intrecciano senza soluzione di continuità, amalgamate dalla colonna sonora che, attraverso le canzoni scritte appositamente per il film e cantate da una grande cantante sudafricana, si fa struttura narrante. Musica vitale e fantastica che si alterna al realismo spietato e tragico con cui si deve fare i conti. L’intento è quello di narrare la tragedia e la speranza di un grande continente. Tutti sanno che l’Africa è un continente in crisi, ma nessuno pare voglia rendersi conto quanto questa crisi possa coinvolgere il pianeta intero. “Tutto si è fatto globale, tranne le coscienze, specialmente quelle occidentali”. Il film da voce ai protagonisti, quelli veri, quelli nati lì, quelli per cui, spesso, l’orizzonte del futuro è limitato all’arco di una giornata. Voci e visioni che arrivano direttamente alla coscienza.
http://filmup.leonardo.it/sc_forsedioemalato.htm

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Il punto di partenza è il libro “Forse Dio è malato” (frase pronunciata da un prete) di Walter Veltroni: da quel libro, l’idea di dare forma visiva ai problemi e alle sofferenze di una nazione, oggi più che mai lontana da quello che può essere considerato ‘Primo Mondo’.  “Forse Dio è malato” non è la versione cinematografica del libro: Franco Brogi Taviani ha cercato di raccontare le stesse storie, di focalizzarsi sugli stessi problemi affrontati da Veltroni; la sua non è una ricostruzione, una messa in scena di un copione ‘vecchio’, ma è la constatazione che guardando di persona si ritrovano, purtroppo, le stesse, identiche situazioni descritte nel libro.
Perché farlo, è la domanda che si è posto Taviani così come fa bene a porsela chiunque si trovi di fronte al prodotto finito: per mostrare, per gridare, senza riuscire a proporre soluzioni, a parlare di speranza.
“Non voglio più sperare” è la prima frase del film. E dice tutto. Il grido è una richiesta d’aiuto, ma anche un atto d’accusa: l’Europa lascia milioni di uomini ai margini del progresso. L’Europa non sa rispondere alla richiesta d’aiuto, la speranza – se ce n’è una – è che si renda conto delle accuse.
Taviani mostra di rendersi conto bene che lo scopo – la forma solo a tratti – del film è documentaristico; spesso la narrazione esce dalla diegesi per mostrare se stessa, il cameraman di fronte ai bambini, le interviste in macchina, le scelte di regia. Anche la brutta  sovraimpressione di Siya Mazukeni (la giovane cantante sudafricana che funge da commento off), togliendo intensità in alcuni momenti ‘a rischio’, permette di non perdersi nella fiction. Ma alla fiction Tavani non resiste del tutto: la sovrapposizione di rumori tra due scene, ad anticipare il contenuto della successiva sulle immagini della precedente, così come l’indugiare della macchina da presa sugli occhi di un bambino che piange, fanno sconfinare quella che poteva essere un’operazione di denuncia nel pietismo, nel tentativo di commuovere attraverso il mezzo cinematografico quando le immagini, le parole, i fatti dovevano bastare.
E allora, fiction sia: e come fiction, “Forse Dio è malato”, non è un gran ché. Rimane l’intento, che non può non essere apprezzato e premiato; rimane il libro, slegato dal film pur con le forti somiglianze – a tratti coincidenze. E soprattutto rimane, invariato, il problema-Africa.
Glauco Almonte
http://www.cinemadelsilenzio.it/index.php?id=8677&mod=film

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