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viernes, 11 de noviembre de 2011

Storie Scellerate - Sergio Citti (1973)


TITULO Storie Scellerate
AÑO 1973
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DIRECCION Sergio Citti
GUION Sergio Citti e Pier paolo Pasolini
PRODUCCION Alberto Grimaldi
FOTOGRAFIA Tonino Delli Colli
MUSICA Francesco De Masi
MONTAJE Nino Baragli
GENERO Comedia
REPARTO Ninetto Davoli, Silvano Gatti, Enzo Petriglia, Sebastiano Soldati, Santino Citti,
Giacomo Rizzo, Gianni Rizzo, Ennio Panosetti, Oscar Fochetti

SINOPSIS Bernardino e Mammone, si raccontano storie ambientate nella Roma papalina. Un parroco ha rapporti con una sposina il cui marito uccide lei e costringe lui a tagliarsi i genitali. La moglie del duca di Ronciglione si dà contemporaneamente a molti villici; il duca induce il confessore a farlo sedere nel confessionale dove ascolta i peccati della duchessa, poi si amputa i genitali in presenza di lei. Bernardino e Mammone uccidono per rapina un vecchio, e, condannati a morte, seguitano in carcere a raccontarsi storie. Un pastore abusa della moglie d'un altro pastore il quale gli amputa i genitali e lo appende nudo per i piedi. Un prete assume un giovane che prima gli procura donne a pagamento poi, travestito da donna, rapina e uccide il prete finendo sul patibolo. Peppe, ridotto in miseria, accetta di spartire la moglie col ricco Celestino poi, insieme, sorpresa la donna con un amante lo uccidono. La donna impazzisce e loro vengono giustiziati. Sul patibolo terminano anche le storie, mentre Bernardino e Mammone muoiono sghignazzando.



Il cinema randagio di Sergio Citti
di Livio Marchese

Per chi le borgate romane le ha sempre e solo viste sullo schermo o immaginate attraverso le pagine dei romanzi pasoliniani, fa una certa impressione passeggiare per le strade di Pietralata, Torpignattara o della Marranella. Significa toccare con mano gli effetti della mutazione antropologica e dell'omologazione degli strati sociali e degli ambienti urbani profetizzati da Pasolini sin dai lontani anni '50, poi sanciti dalla "lettera luterana" sulla prima televisiva di Accattone. Non mi aspettavo quindi di rinvenire intatti quegli ambienti e quei volti, ma produce inevitabilmente un effetto straniante trovarsi, nelle strade del suburbio romano, di fronte a negozi di computer e di telefonia mobile e poi, a distanza di pochi passi, presso vaste aree cespugliose dalle quali, sforzando la vista, emergono le ultime, ormai disabitate, baracche.
I Citti sono proprio come quelle baracche. Ultimi baluardi della resistenza alla massificazione della società, solide roccaforti sotto stato d'assedio della cultura sottoproletaria romana e, risalendo di qualche generazione, immarcescibili residui di una civiltà contadina consapevole ed orgogliosa della propria identità, che ostinatamente tarda ad adeguarsi e ad accettare il triste scorrere del tempo.
Qualche tempo fa, su "Fuori orario", è andato in onda un ciclo di proiezioni dedicato a Miklos Jancsò. Apriva la puntata un breve estratto dalla conferenza Per conoscere Pasolini (1978), nella quale il regista de I disperati di Sandòr, visibilmente commosso e dopo essersi scusato per il suo italiano zoppicante, ricordava il massimo intellettuale italiano del secondo dopoguerra con delle splendide, traballanti, parole che volavano dritte al cuore. Se Pasolini, stando all'ateo Jancsò, è stato uno dei pochi figli di Dio che la Storia ha generato, Sergio Citti, che in quell'occasione spalleggiava il regista ungherese, è stato l'apostolo che ha sì saputo proseguire sulla strada tracciata dal Maestro, ma in piena autonomia e indipendenza, e coltivando un'idea di cinema assolutamente unica e irripetibile perché fortemente intrisa fino al midollo delle proprie uniche e irripetibili esperienze personali.
Non si vogliono mettere qui a confronto due esperienze così diverse. È evidente che Sergio Citti, da un paragone sul piano culturale o ideologico con Pasolini, ne esce schiacciato (bisognerebbe, in ogni caso, chiarire su quale metro vada misurato il concetto di "cultura", a quali canoni risponda). Ma è anche vero che studiandone a fondo l'opera, si nota come i prestiti corrano in entrambe le direzioni e che non è assolutamente vero che Sergio Citti è un "prodotto" pasoliniano. Per certi versi, anzi, vale il contrario. Oggi non è più un mistero che la materia "bruta" di Ragazzi di vita e Una vita violenta, ma soprattutto di Accattone sia da attribuire al Pittoretto della Maranella. Che poi si tratti di opere pienamente pasoliniane, questo è fuor di dubbio, ma ciò che importa è che l'ispirazione che a loro soggiace è per buona parte cittiana.
Nei tardi anni '60, Sergio Citti riuscirà finalmente a mettersi in proprio ma, dagli esordi fino alle ultime prove, il suo cinema sarà bersagliato da una serie di pregiudizi che lo porranno in una situazione di marginalità obbligata, tanto che, al giorno d'oggi, a oltre trent'anni dal debutto, non esiste in commercio una sola monografia che affronti sistematicamente la sua opera. Di pregiudizi si diceva. Ma anche di ignoranza e di razzismo. Quando Pasolini era ancora in vita, si spacciavano addirittura per suoi, film ai quali l'intellettuale bolognese aveva contribuito esclusivamente in fase di scrittura. Nel 1970, all'epoca della prima comparsa nelle sale, Ostia dovette soccombere a razzistiche e spietate logiche di mercato: si escogitò addirittura un espediente grafico, sulla locandina, affinché il film apparisse agli occhi del pubblico come un nuovo parto pasoliniano. In realtà, di pasoliniano Ostia ha ben poco. Alla semplice lettura della sceneggiatura, la mano dell'amico intellettuale si intravede con una certa facilità, con quelle descrizioni liricheggianti e quei continui riferimenti alla pittura medievale e rinascimentale, ma il suo contributo si ferma lì. D'altra parte anche in futuro Citti si servirà spesso dell'apporto degli amici -Pasolini prima, Vincenzo Cerami e David Grieco poi - in sede di sceneggiatura. Nel caso di Ostia si era trattato di un aiuto in fase di scrittura (anche tecnico: Citti non sa scrivere a macchina), del resto prestato dalla persona più indicata proprio perché era l'unica a conoscere davvero a fondo la personalità del regista. La prova che spazza definitivamente via ogni dubbio sulla paternità dell'opera è il fatto che nella fase precedente la realizzazione, Pasolini era impegnato nella post-produzione di Porcile, mentre, nel corso delle riprese, egli non poteva essere presente sul set, trovandosi in Turchia per Medea.

Ritengo siano rari i casi in cui, negli ultimi trentacinque anni di cinema italiano, si possa parlare di "film d'autore" in senso stretto. Se con l'espressione "film d'autore" s'intende un'opera che affondi profondamente nelle viscere del suo creatore, mettendone a nudo i lati più oscuri della personalità, che si faccia carico delle esperienze di vita più intime, riuscendo a sublimarle in forma poetica, Ostia è certamente del gruppo. Per Citti sarà il film della vita, il capolavoro tante altre volte inseguito e, forse, mai più raggiunto. Pasolini stesso lo definisce "un'affabulazione nata da esperienze profonde e atroci dell'autore". Eppure, nonostante ciò, Citti veniva considerato un epigono pasoliniano fuori tempo massimo, l'inutile cantore di un mondo ormai scomparso. Quello che sfuggiva ai critici dell'epoca, distratti nel migliore dei casi, insopportabilmente snob nel peggiore, è che, come scriveva Pasolini, "l'amore di due fratelli, insidiato dal diavolo, è un fatto poetico che poteva svolgersi benissimo anche nella Milano bene". Per intenderci, Ostia è molto più vicino a una tragedia greca che ad Accattone. Uno stupro, un incesto, un parricidio, un fratricidio: non ci vuole molto per capire che a muovere Citti non è certamente l'intento sociologico-linguistico che animava Pasolini, ma la volontà di rendere in maniera poetica, sublimare e trasporre ad un livello metafisico la propria filosofia "di vita" e le esperienze più intime, dal rapporto simbiotico col fratello Franco, a quello tormentato, fatto nello stesso tempo di attrazione e repulsione per il sesso femminile, all'amicizia pura e disinteressata fra individui dello stesso sesso, alla convinzione che il destino dell'uomo è già segnato ed è impossibile cambiarlo.
A parte pochi illuminati, la maggior parte della critica italiana storceva il naso, considerando il Nostro, al più, un naïf, senza accorgersi che dietro il film c'era un problema estetico rilevante quale la conversione delle tecniche del racconto orale nel linguaggio delle immagini. Da sempre Citti ha un innato talento nell'arte del racconto - è proprio quello che colpì Pasolini ai tempi del loro primo incontro - ed è capace di esercitarla indifferentemente con gli amici pescatori, così come col pubblico borghese e intellettuale. Il problema che il regista si poneva agli albori della sua carriera era quello di sopperire alla presenza invasiva della macchina da presa. Nel corso degli anni avrebbe ribadito più volte il sogno della sua vita: affittare una sala cinematografica e intrattenere gli spettatori servendosi esclusivamente della propria capacità affabulatoria, come un moderno cantastorie. Sin dai tempi di Ostia, Citti è quindi riuscito a trovare un compromesso fra l'uso di una forma espressiva che non lo ha mai convinto in pieno - il cinema mostra delle immagini prestabilite e toglie spazio alla fantasia dello spettatore - e la ricerca di uno stile che possa ovviare a questo inconveniente, facendo avvertire il meno possibile la presenza "castrante" della macchina da presa. Dai suoi film sono banditi movimenti di macchina sinuosi o lunghi ed elaborati piani-sequenza. Le inquadrature sono sempre brevi, quasi fulminee e generalmente a macchina fissa. Non si creda però che uno stile così sobrio ed essenziale sia sinonimo di sciatteria: ci sarebbe parecchio da scrivere sulla sensibilità "pittorica" e sullo straordinario gusto nella composizione dell'immagine (valgano per tutti gli interni caravaggeschi di Ostia).

Nel '73 Citti torna dietro la macchina da presa per Storie scellerate. Il film venne sbrigativamente inserito nel calderone delle filiazioni degeneri del Decameron, quando in realtà esso aveva poco da spartire anche col fratello maggiore pasoliniano. Storie scellerate è un oggetto alieno nel panorama cinematografico nazionale: è il parto di un regista sottoproletario ma di ascendenza contadina che si propone di fare i conti con il mondo da cui proviene. Per Citti rappresenta un notevole sforzo culturale dal momento che, per trarre ispirazione, gli fu consigliata la lettura del Bandello e dei novellieri del '500. Ma se il progetto originario era quello di rendere cinematograficamente alcune novelle dei suddetti autori affiancandole a due episodi già girati da Pasolini per il Decameron, poi rimasti fuori dal montaggio definitivo, Citti, come sempre, fa di testa sua. Tralascia il materiale già pronto ed elabora una struttura composita, quattro racconti più uno come cornice. È uno schema con cui dimostra di trovarsi parecchio a suo agio e che gli permette di sfruttare al meglio le proprie doti di affabulatore. In Storie scellerate il legame con la tradizione tipicamente popolare del racconto orale è fortissimo: le storie non sono altro che racconti dei protagonisti della cornice e alcune di esse, il regista, da piccolo, le aveva ascoltate nelle osterie delle borgate romane.
Abbandonata l'ambientazione cinquecentesca, Citti colloca le proprie storie ai primi dell'Ottocento, nella Roma papalina dei sonetti belliani. Le cinque novelle presentano nel loro svolgimento delle costanti. I protagonisti, siano essi pastori, aristocratici, papi o popolane, sono mossi esclusivamente dagli appetiti più bassi - sesso e fame in primo luogo - che Er Mozzone filma senza quei falsi pudori che potrebbe mostrare un regista borghese alle prese con una materia così "sconveniente". Al di sopra di tutti gli eventi narrati si colloca la morte, la vera protagonista. Di fronte ad essa Citti mostra un atteggiamento ambiguo. Nelle quattro storie raccontate dai due picari la morte è nient'altro che il normale corso degli eventi, un momento transitorio del processo ciclico di distruzione-rigenerazione del corpo-cosmo che il regista imperturbabile contempla con stoico distacco. La rappresentazione della morte convive quindi con quella del sesso o del banchetto senza che il regista adoperi un registro diverso per l'una o per gli altri. Nel finale, con l'impiccagione dei due picari, emerge l'altra faccia della filosofia "di vita" cittiana, l'epicureismo. Bernardino e Mammone sono due "morti de fame" che dalla vita non hanno ottenuto niente, ma che non hanno esitato a spassarsela quel poco che è stato loro concesso. E possono quindi morire col sorriso sulle labbra, proprio come il gaudente Piuccio che nell'ultima storia scellerata era stato destinato al Paradiso da un Padreterno rozzo e contadino.
Storie scellerate è l'ultimo film che Citti gira potendo contare sull'apporto pasoliniano. La notte del 2 novembre 1975, all'Idroscalo di Ostia, l'Italietta clerico-fascista post-mutazione antropologica si purga della propria cattiva coscienza. Da allora in poi il regista dovrà vedersela da solo con un mondo in cui non si riconosce più. Le opere successive, Casotto e Due pezzi di pane, saranno quindi fortemente imbevute delle riflessioni pasoliniane sul "genocidio" e sulla "scomparsa della lucciole". La prima di esse, Casotto, nasce più per necessità produttive che per esigenze artistiche, ma conferma Citti regista dalla mano sicura, capace di far funzionare come un orologio svizzero un cast ben poco omogeneo. Scambiato sbadatamente per l'ennesimo film sull'Italietta alla spiaggia, Casotto radicalizzava la peculiare lotta dei sessi tipicamente cittiana e metteva in scena un'umanità ormai incapace di dare sfogo agli impulsi primari. Se il film si apriva con una panoramica a 360° gradi sullo spazio arioso delimitato dal mare e dalla spiaggia, alla quale faceva seguito, dopo qualche inquadratura, un identico movimento di macchina, ma questa volta all'interno del casotto vuoto, era proprio perché la natura selvaggia, il mondo incontaminato-spazio vitale per lo spiritello Ninetto Davoli, si è imbastardito ed è degenerato nello spazio chiuso-repressivo del casotto-prigione. I protagonisti del film non sono altro che i discendenti dei personaggi di Storie scellerate, ma antropologicamente mutati e spogliati del flatus vitae necessario per concretizzare le proprie pulsioni. Geniale, poi, l'idea di girare l'intero film all'interno di una cabina balneare, il palcoscenico sul quale l'umana commedia si mette a nudo, letteralmente e metaforicamente. Due pezzi di pane (1979) affronta gli stessi argomenti, ma con un tono più lieve e una messinscena a metà strada fra la favola surreale e il musical popolare. Protagonisti del film sono due suonatori ambulanti, Pippo e Peppe, in cui si ritrovano condensate tutte le componenti dell'ideale etico cittiano: l'amicizia-solidarietà fra esseri dello stesso sesso, la purezza dei sentimenti, l'anarchia e la filosofia del "sapersela gode". Citti seguiva la loro vicenda dai felici e sognanti anni '50 agli squallidi e disumanizzati anni '70. Chiudeva il film, ancora una volta, il binomio morte-risata, ma mentre in Storie scellerate si trattava del riso beffardo di chi muore soddisfatto per aver succhiato fino al midollo quel poco che la vita gli ha concesso, in Due pezzi di pane l'estremo atto di Pippo e Peppe assume l'aspetto inquietante dell'ultima risata del mondo, amara e disincantata come prodotta da chi possiede ormai la consapevolezza che si è giunti al capolinea. Due pezzi di pane è un film profondamente pessimista sul futuro dell'esistenza umana, ma in esso la muta tragedia di Ostia e il ghigno beffardo di Storie scellerate si stemperano in un'atmosfera nostalgica e incantata. La degradazione dell'umanità non è urlata, ma malinconicamente rappresentata tramite i delicati ricordi del bel tempo che fu e la dolorosa constatazione dell'irreversibile precipitare degli eventi verso il baratro.


Sorvolando sulle traversie produttive che da allora in poi intralceranno puntualmente il cammino del Pittoretto della Maranella, è da rilevare come con il film successivo, Il minestrone (1981), Citti realizzi il suo antico sogno di incentrare un film su un tema - la fame - che un regista tradizionale fuggirebbe come la peste. Fra i film cittiani è certamente uno dei più "filosofici" e il termine non è da prendere con le pinze, perché quella che il regista propone è, nel suo piccolo, una "visione del mondo", una lettura delle cose. Certo non organica e sistematica, ma estremamente coerente e pregna di esperienze personali che affondano in secoli e secoli di sofferenza, povertà, miserie e privazioni. Editato in due diverse versioni (quella destinata alle sale, decurtata di un'ora, sarà disconosciuta dallo stesso regista), Il minestrone racconta le surreali peripezie di una comitiva di "morti de fame" attraverso un mondo sempre più ostile, alla ricerca dell'impossibile soddisfazione dell'impulso primario dell'essere umano. Si è già visto come l'amicizia fraterna e la solidarietà siano i sentimenti "forti" dell'etica cittiana. Ne Il minestrone, film di deriva antropologica, esse conservano la loro validità solo in quanto dettate da necessità e da calcolo opportunistico. È efficacissimo il modo in cui Citti rende cinematograficamente questo senso di solidarietà per necessità. Se in Due pezzi di pane Pippo e Peppe, in cella, potevano ancora entrare in immediata sintonia con i "coinquilini" semplicemente unendosi al loro canto, ne Il minestrone questo non è più possibile. Francesco e Giovannino, in carcere, fanno conoscenza col Maestro, ma ciascuno cantando la propria canzone. Questo accorgimento ritorna più volte nel film, man mano che la compagnia dei morti di fame si ingrossa, finché si giunge alla situazione paradossale di una gran folla di gente che marcia in fila indiana, ciascuno impegnato in una canzone diversa da quella degli altri. Il risultato è un'assordante e cacofonica sovrapposizione di voci individuali, culminante nell'unico grido distinguibile: "C'ho faaame!!!". Questo perché dal momento in cui gli uomini hanno rotto il patto di solidarietà originario, alcuni di essi hanno sopravanzato gli altri. Sono così nate le differenze di classe - che per Citti si riducono a "padroni-affamatori" (chi mangia e caca) e "sfruttati-affamati" (chi non mangia e non caca) - e il mondo è degenerato, trasformandosi in un "cesso". Che il mondo sia diventato un cesso, Citti lo rende cinematograficamente in maniera manifesta estremizzando le soluzioni paesaggistiche già accennate nella seconda parte - il "post-mutazione" - di Due pezzi di pane. Si può leggere Il minestrone anche solo prestando attenzione al puro e semplice scorrere dei paesaggi sullo schermo che offrono un significativo contrappunto alle avventure dei protagonisti. Il film si apre dipingendo uno scenario di tipico degrado urbano - al cielo, deturpato da enormi e squallidi palazzoni, fa da contrappunto la terra, insozzata da cumuli di immondizia - e si chiude sulle immense distese gelate, prive di qualsiasi forma di vita, delle Alpi. Fra questi due estremi, i morti di fame, residui antropologici alla deriva, si trovano ad attraversare luoghi che risentono fortemente del contrasto fra "natura" e "modernità". Nella filosofia cittiana non c'è posto per la speranza. Per questo il film ha una struttura circolare e chiusa in se stessa. Il personaggio a cui dovrebbe essere affidata la salvezza, Lui, è una sorta di Messia in vestaglia da ospedale e armato di flebo invece che di pastorale. Lui guida con fare profetico la processione dei morti di fame, attraverso territori sempre più aspri e brulli, dicendo che "bisogna andare di là, all'estero!". Ma "di là" non c'è nulla - la comitiva di affamati ne incontra una analoga che procede in senso inverso -, solo freddo, neve ed una surreale banda di ottoni che intona una marcia funebre.
Nel 1985, dopo anni di difficoltà e incomprensioni di ogni sorta, Citti può finalmente tornare dietro la mdp per Sogni e bisogni, film-fiume televisivo di circa 6 ore, organizzato in undici racconti e una cornice. Sogni e bisogni è il compendio della filosofia "di vita" cittiana. Per certi versi si tratta di un film "sperimentale", ma il termine è da intendere non in riferimento al linguaggio cinematografico, bensì in relazione alla materia narrativa, al puro e semplice gusto per l'intreccio, per le situazioni paradossali, per i colpi di coda inaspettati. Con Sogni e bisogni Citti può finalmente dare pieno sfogo al suo estro di contastorie. Gli undici episodi sono come altrettante tessere di un mosaico che, insieme, compongono la peculiare visione del mondo del regista romano. Il viaggio dei personaggi-guida - il Destino, il Padreterno e il Diavolo - alla ricerca del "libricino" sul quale sono scritti il passato, il presente e il futuro di tutti gli uomini, diventa quindi il pretesto per inanellare una serie di storie dalle tematiche e dai toni più disparati. Forse non tutte ugualmente riuscite, ma ciascuna, a suo modo, rappresentativa del modo cittiano di guardare la realtà. Si va quindi da Amore cieco a Cuore nero, fisicamente e contenutisticamente agli antipodi, attraverso una serie di casi umani osservati sempre con stoico distacco.
Mortacci (1989) è l'ennesima zampata cittiana. Pressoché interamente girato in un credibilissimo cimitero costruito a Cinecittà, il film è ancora una volta una raccolta di novelle con cornice: l'arrivo al cimitero del soldato costretto ad "allontanarsi" dal paesino in cui è tornato dopo quattro anni di assenza, apre le danze ad uno show in cui i morti, a turno, raccontano la storia della propria dipartita. Una piccola Spoon River nostrana quindi, in cui i racconti dei morti sono le uniche occasioni per la macchina da presa di varcare le soglie del palcoscenico principale. Nella cornice si narra invece della vita quotidiana nel piccolo cimitero, del custode Domenico, rapace predatore di cadaveri, di Edmondo, l'attore cane che ogni notte scavalca le mura per recitare sulla tomba della propria amata, di grotteschi commerci di scheletri ed ossa, delle ipocrite visite di parenti, amici e congiunti. Citti rovescia il tema della fama produttrice di immortalità che tanto successo ha avuto nella poesia cimiteriale pre-romantica: la gloria, gli onori, il successo, che per i vivi rappresentano la speranza dell'immortalità, per i morti sono solo una palla al piede che li costringe a "vivere" in questa sorta di limbo dantesco. Geniale la conclusione: morto il custode, il cimitero viene preso d'assalto dai vivi che tentano di introdurvisi per continuare a onorare ipocritamente i loro defunti. Dietro il cancello, quindi, i vivi, con i loro affanni quotidiani, le loro miserie e le loro meschinità; davanti a loro, i morti guardano sornionamente il teatrino della vita e, con un ghigno beffardo, si accingono a deporre una spiga di grano sui loro cari che non hanno ancora oltrepassato la soglia. Non bisogna aver paura della morte, ci dice Citti, perché la morte non è altro che un passaggio da una morte - la vita con tutti i suoi inutili affanni - ad un'altra, e in fin dei conti ci può essere più vita nella seconda che nella prima. "Mortacci nostri!!!", sogghignano in conclusione i morti e lo schermo, gradualmente, si ricopre di spighe di grano, simbolo evangelico-paolino della rigenerazione.
Nei primi anni '90 si diffonde la notizia che Sergio Citti sta per mettere mano al Porno-teo-kolossal pasoliniano, ma il film che ne ricaverà, I Magi randagi, erediterà dal soggetto originario soltanto l'idea narrativa di fondo - il viaggio dei Magi al seguito della cometa - e il tono del racconto, fra il comico e il surreale. Nessuna traccia delle implicazioni ideologiche che appesantivano il progetto del Maestro: se per Pasolini la Cometa rappresentava la falsità delle ideologie, per Citti essa diventa il bisogno strettamente radicato nell'essere umano di credere in qualcosa. I Magi randagi (1996) racconta le peripezie di tre artisti di un circo scalcinato incaricati dal Padreterno in persona di annunciare all'umanità allo sbando la venuta del nuovo Messia per la redenzione. Operando un'interessante contaminazione fra sacro e profano, Citti cala i tre disgraziati in situazioni sempre più paradossali, alle prese con un mondo che ha reciso ogni legame con l'"etica umana". Alla fine di questa peregrinazione i re Magi non troveranno il nuovo Figlio di Dio, ma acquisteranno una coscienza e scopriranno che ogni bambino che nasce, forse, è il nuovo Redentore. Insieme a Ostia e a Il minestrone, I Magi randagi è uno dei vertici di tutto il cinema cittiano. Alla sua visione si piange, si ride, ci si stupisce, ci si indigna e ci si commuove come da troppo tempo non capitava per un film italiano. Tullio Kezich, per trovare dei precedenti nella cinematografia italiana che fossero vagamente accostabili alle atmosfere de I Magi randagi, faceva riferimento a Francesco giullare di Dio di Rossellini e a La strada di Fellini. Il Padreterno definisce i Magi come "tre scemi", ma Citti riesce a scolpirli nell'immaginario cinematografico nazionale caricandoli della purezza sacrale del Francesco rosselliniano e dell'ingenuità salvifica della Gelsomina felliniana. Con un occhio di riguardo, ovviamente, all'umorismo stralunato dei Totò e Ninetto pasoliniani.

Due anni dopo, con Cartoni animati, il rapporto del regista col pubblico delle sale tocca il suo punto più basso, visto che al film non viene neanche concessa l'opportunità di un riscontro in tal senso. Accreditato alla "regia di Franco Citti con la fraterna collaborazione di Sergio Citti", Cartoni animati, a conti fatti, non aggiunge nulla di nuovo alla filosofia cittiana. Libere variazioni sulle solite ossessioni, è vero, ma con Citti non ci si annoia mai. E non è poco in tempi in cui nel cinema italiano pare sia in corso un preoccupantissimo fenomeno di omologazione. Lo spunto narrativo deriva da uno dei film più amati dal regista, Miracolo a Milano. Il protagonista del film di De Sica, Totò, era un ingenuo, un puro di cuore innamorato della vita che grazie al buonumore e alla capacità di sognare riusciva a salvare un'intera comunità di diseredati dalle ingerenze di un perfido imprenditore. Cartoni animati racconta una situazione molto simile. Il nipote di Totò, Salvatore, è un allegro ragazzone che circola sul suo sidecar regalando sogni alla povera gente accampata in una fabbrica dismessa. Con Cartoni animati Citti ci dice che l'unica possibilità per l'uomo di sollevarsi dalle miserie, dalla tragedia del vivere quotidiano, risiede nella capacità di sognare. Ancora una volta un suo film si regge sulle antinomie: da una parte il destino, la necessità, i "bisogni" della vita quotidiana, dall'altra i "sogni", uniche possibili vie di fuga. Ma i due piani si confondono. Dove sta la vera vita? Negli affanni e nelle necessità di ogni giorno o nella libertà, nella felicità, ma anche nell'inafferrabilità del sogno? Quando un'impresa giapponese acquisterà il terreno sul quale sorge la fabbrica per raderla al suolo e costruire al suo posto degli impianti nuovi di zecca, al povero Salvatore non resterà altro da fare che assistere coi propri occhi al trasferimento degli ex-occupanti in un anonimo palazzone e alla conseguente rottura dell'armonia che fino ad allora aveva regolato la vita della piccola comunità. Il progresso causa perversa della degradazione umana: è questa l'attualizzazione cittiana del modello desichiano. Come Il minestrone, anche Cartoni animati è un film di deriva antropologica. Entrambi terminano con finali aperti e quelli che avrebbero dovuto rappresentare i personaggi salvifici - Lui ne Il minestrone, Salvatore in Cartoni animati -, hanno ben poco da opporre a questo irreversibile processo di degradazione. Identica la domanda degli adepti: "Dove ci porti?", simili le risposte dei rispettivi profeti: "Che cazzo ne so!", diceva Lui; "A quel paese!", risponde Salvatore.

Nonostante lo sfortunato esito di Cartoni animati e il grave stato di salute del fratello Franco, Sergio non si perde d'animo e si rimette al lavoro. Vipera è ancora una volta la storia di una tragedia familiare. In un paesino siciliano, negli anni della seconda guerra mondiale, la piccola Rosetta vive con il padre perennemente sbronzo dopo l'abbandono della moglie. Rosetta è una delle figure più poetiche create da Citti: abbandonata dalla madre, violentata e messa incinta dal federale Guastamacchia, la ragazzina assisterà impotente alla morte del padre e perderà il frutto del suo grembo, rinchiuso in orfanotrofio a causa delle infondate dicerie di incesto messe in giro dal fascista-stupratore. Peccato che a delle premesse così stimolanti non faccia da appendice un seguito all'altezza, tant'è vero che la seconda parte del film, che stranamente non rispetta il soggetto originario, appare decisamente disorganica. Vipera avrebbe dovuto essere, dopo Ostia, l'opera cittiana più marcatamente autobiografica. Purtroppo le cose andranno diversamente e quello che avrebbe potuto essere, con Ostia, il film della sua vita, diventerà, paradossalmente, l'episodio meno riuscito. Da sublimazione di atroci esperienze personali, il film si trasforma in una riflessione sulla natura femminile e sul tema della maternità. Rosetta e Vipera, la figlia e la madre, non sono altro che due facce della stessa medaglia. Se Rosetta è la Santa, la vittima apparentemente destinata al martirio ma che alla fine troverà la felicità rincontrandosi col figlioletto prematuramente strappatole, Vipera è la Puttana, la mangiatrice di uomini che non può soddisfare in pieno la prerogativa del femminile perché la maternità rappresenta la maturità, l'incombere della vecchiaia, il timore di non risultare più appetibile all'altro sesso e di non potere esercitare più su di esso il suo potere prevaricatore. Dopo Vipera Citti gira ancora un altro film, Fratella sorello, ma a causa dei soliti problemi di distribuzione, il film è rimasto a tutt'oggi nel cassetto.
Sergio Citti, da più di un anno, si trova in condizioni di salute decisamente preoccupanti. Chiacchierando con Roberto Simmi, oste a Trastevere, amico d'infanzia di Sergio e interprete di alcuni suoi film, ci siamo trovati d'accordo sul fatto che, probabilmente, la grandezza di questo regista, ingiustamente bistrattato, verrà apprezzata solamente post mortem. I detrattori hanno spesso insistito sulla scarsa attinenza del cinema cittiano alla realtà sociale, politica ed economica del nostro Paese. Niente di più sbagliato. Perché ciò che non lo interessa a livello sociale o ideologico, Citti, osservatore attento, lo "sente" a livello personale. Tant'è vero che la sua filmografia registra in filigrana tutto il dramma che la società italiana ha attraversato dal boom economico dei primi anni '60 ai giorni nostri, in maniera probabilmente ben più efficace di quei film che se lo ponevano come obiettivo primario.
Forse per Sergio è un bene che la sua opera sia praticamente sconosciuta (se è vero che il ricordo dei vivi impedisce a chi ha oltrepassato la soglia di godere in santa pace della vera morte), ma è anche vero che in quest'inferno che è la vita odierna c'è ancora un bisogno viscerale delle sue storie. Perché quando Sergio Citti, l'ultimo dei custodi della Terra, tornerà polvere come lo scheletro de Il minestrone, per chi resta saranno davvero guai.
http://www.effettonotteonline.com/enol/archivi/articoli/focus-on/200504/200504fo00.htm

4 comentarios:

  1. There is a problem with the 5th file: seems it doesn't start the download.

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  2. ESTA ES OTRA PELI QUE "SE ME ESCAPO..." ME GUSTARIA VERLA. POR FAVOR. SUBI LOSLINKS, GRACIAS, UN ABRAZO, MARIO

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