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martes, 31 de enero de 2012

Primo amore - Matteo Garrone (2004)


TÍTULO ORIGINAL Primo amore
AÑO 2004
DURACIÓN 100 min.
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS En inglès (Separados)
DIRECTOR Matteo Garrone
GUIÓN Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Vitaliano Trevisan (Libro: Carlo Mariolini)
MÚSICA Banda Osiris
FOTOGRAFÍA Marco Onorato
REPARTO Vitaliano Trevisan, Michela Cescon, Elvezia Allari, Paolo Capoduro, Roberto Comacchio, Paolo Cumerlato, Claudio Manuzzato, Marco Manzardo, Antonella Mazzuccato, Gianluca Moretto, Alberto Re, Pierpaolo Speggiorin, Antonio Viero, Deni Viero
PRODUCTORA Medusa Film
PREMIOS
2004: Festival de Berlín: Oso de Plata - Mejor banda sonora
2003: Premios David di Donatello: Mejor música. 5 nominaciones
GÉNERO Drama

SINOPSIS Vittorio (Vitaliano Trevisan) está buscando a su mujer perfecta. Sabe perfectamente lo que quiere y eso hace imposible para él encontrarlo. Un día conoce a Sonia (Michela Cescon). Ella es guapa, joven, encantadora... sin embargo no cumple al cien por cien las expectativas de Vittorio. Las dudas le asaltan pero de todas formas decide empezar una relación con ella. Sonia debe enfrentarse con el lado más oscuro de Vittorio que comienza a influenciar peligrosamente en ella poniéndola al borde de un peligroso precipicio sin vuelta atrás. Esta es la historia de un hombre que víctima de sus obsesiones pierde el control de su propia vida. También es la historia de una mujer que no puede escapar de las proyecciones de su amado. (FILMAFFINITY)


Vittorio, piccolo imprenditore del vicentino nell'ambito della produzione orafa, incontra Sonia attraverso un annuncio per cuori solitari. I due incominciano a conoscersi e a frequentarsi con alcuni dubbi sulla possibilità di riuscita del loro rapporto.
Vittorio in realtà è in analisi perché è ossessionato da giovani magre, anzi magrissime, fino all'eccesso. La storia continua anche perché Sonia accetta di diminuire il suo peso ma lo fa come un atto di amore, ignorando la psicopatia di Vittorio.
All'inizio quella di Sonia sembra una sua scelta arbitraria, ma a lungo andare la sua scelta si trasforma in un incubo anche perché i due scelgono di vivere insieme. Vittorio cade spesso negli eccessi, diventa sospettoso verso Sonia immaginando che lei mangi di nascosto, evita che possa nutrirsi di carboidrati e di grassi e le consente solo verdure e insalate.

Anche questo film di Garrone sfida il principio di causalità. Le cose accadono e, per quanto improbili possano essere, non è dato sapere il perchè accadano, quali siano le dinamiche sottese dagli eventi. Così come è stato per il precedente L'imbalsamatore. Molte sono le contiguità con il precedente lavoro. Anche qui viene osservata la relazione psicotica che viene a instaurarsi tra il dato prevalente del proprio reale, il lavoro, e i propri desideri, sessuali.
Se ne L'imbalsamatore la dialettica era tra vita e morte, bellezza e deformità, qui la dialettica è istaurata tra valore intrinseco e valore esterno. Qual è il valore dell'oro? Davvero risiede esclusivamente nel suo elevato peso specifico? E come spiegare la linearità del valore, per cui a maggior peso corrisponde maggior valore, secondo una legge certa e prevedibile. Ma questo non ne svilisce un valore interno, percepibile solo da chi, lavorandolo, traendone sostentamento, ne coglie il suo valore intimo e ultimo? Qui il protagonista è un orafo, ossessionato dai corpi femminili anoressici. Solo nella privazione di materia ritrova valore. Psicoticamente ritrova assolutamente disgiunta la mente dal corpo e solo la smaterializzazione del corpo gli permette di amare.
Garrone sceglie attori perlopiù sconosciuti e li lascia recitare in dialetto. Questo fa parte di un suo percorso di ricerca di verità e semplicità, così come la scelta di basare la sceneggiatura su episodi realmente accaduti o la presa diretta dell'audio. Non sempre questo percorso è armonico: un certo realismo si scontra con la ricerca di atmosfere e ambientazioni, la vicenda reale non risulta credibile di per sè e la presa diretta non è tecnicamente curata. Anche questa volta Garrone conferma un grande intuito che lo porta a creare suggestioni che non riesce pienamente a gestire nel film che appare in equilibrio incerto.
Pasquale D'Aiello
http://www.storiadeifilm.it/Primo_Amore_di_Matteo_Garrone_(Fandango,_2004).p0-r900

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“Primo amore” non è un film facile da metabolizzare. E sarebbe un errore farsi ingannare dal titolo, ispirato ad un verso di Beckett: di amore non ce n’è molto. Non quello che siamo abituati a vedere sullo schermo, almeno: forse, c’è l’altra faccia dell’amore, quella dell’ossessione, del possesso, dell’annichilimento di sé, della solitudine.
Vittorio - un personaggio antipatico come pochi, interpretato dallo scrittore Vitaliano Trevisan - è alla ricerca di una donna, o, come dice lui, di un corpo e di una testa, nell’ordine. Trova invece in Sonia prima la testa, e poi il corpo. Approssimativamente tra i 55 e i 57 kg. Troppi. Il film racconta la loro storia, il loro incontro e poi la loro difficile convivenza. Vittorio vuole modellare a suo piacimento il corpo della compagna: la sua è una vera e propria ossessione. Solo quando avrà perso almeno 10 kg potranno cominciare a vivere. Come un fiore senz’acqua, pian piano la ragazza appassisce. La bilancia segna un’inesorabile perdita di peso. L’unica traccia d’amore forse è proprio lo slancio di Sonia: annienta se stessa e i propri bisogni elementari per fare spazio ai desideri di quell’uomo che a malapena conosce, si autoinfligge pranzi e cene a base di carotine e insalata per realizzare i sogni (le manie) di Vittorio. E renderlo un po’ meno triste.
Ma può una relazione basarsi sull’annientamento di sé, sulla prepotenza, sul sogno di perfezione, di un corpo che rispecchi un ideale?
La risposta sta nel finale, inevitabile. E indecifrabile: happy end o tragedia? Dipende solo e soltanto dal punto di vista.
“Primo amore” è un film sulla perdita, senza fronzoli e senza pretese di spettacolarità.
Lasciarsi tutto alle spalle, perdere ogni contatto con il passato. E quando sembra non sia rimasto più niente, continuare a scavare, togliere lo strato di catrame che riveste la superficie delle cose, e bruciare tutto nel fuoco. Quello che resta è la cosa più importante.
E’ un po’ attorno a questa filosofia che ruota questo secondo film del giovane regista romano Matteo Garrone, già autore dell’applaudito “L’imbalsamatore”.
Il ritmo è pacato, la storia fa frullare in testa pensieri strani e disturbanti sulla violenza di cui si può nutrire l’amore. La voce off del protagonista strascica le parole, infastidisce. L’accento veneto non corretto immerge i personaggi in un ambiente reale. Insomma, non è solo il corpo della protagonista - interpretata da Michela Cescon, che durante le riprese è dimagrita davvero - a venire spogliato, ma la stessa idea di cinema viene messa a nudo: niente più vestiti sgargianti, niente pettinature raffinate o gioielli ad impreziosire il film.
Cosa resta allora? Restano le ossa, resta lo scheletro portante, resta il potere e la forza della pura immagine, l’essenza del cinema. L’inquadratura è sempre ricercata, ma la macchina da presa alla fine viene sempre calamitata sui corpi di Sonia e Vittorio. A volte l’occhio si avvicina così tanto alla loro pelle da sfocare. Sono dettagli che non consentono una visione d’insieme del corpo, e che quindi, in un certo senso, nascondono.
In un’epoca sempre più tecnologica e virtuale, farcita di effetti speciali e organismi cibernetici, “Primo amore” è un film che cerca di bruciare tutto il superfluo e di recuperare l’essenziale: l’immagine e il corpo. Operazione interessante, ma per ogni scelta c’è un prezzo da pagare. E “Primo amore” paga il suo intellettualismo perdendo un altro ingrediente fondamentale del cinema: la spontaneità dell’emozione.
Stefano Borgo
http://www.centraldocinema.it/recensioni/feb04/primo_amore_di_matteo_garrone.htm


Primo amore. Psicologia e(’) alchimia
[Anom(al)ie del titolo: volatilità residuale del segno grafico dell’accentazione che non si lascia catturare dalle parentesi. Occorre trasformare alchemicamente la grammatica così come la materia].
Cinema della differenza, sulla differenza, fondamentalmente quello di Garrone. Figure della difformità che si muovono faticosamente in uno spazio sempre troppo piccolo per contenerne la debordanza, sempre troppo ampio per percepirne i movimenti. Cinema che assume come paradigma estetico il discorso sullo spazio, sui luoghi, affrontato dai vari Amelio, Mazzacurati, Soldini, ma prima ancora Pasolini, Antonioni, e principalmente Rossellini, come punti di riferimento eminenti per approfondire la relazione cinematografica che lega il (presunto) soggetto allo spazio (dis)abitato, che ne coglie gli impercettibili spostamenti come modificazioni interiori, psicologiche (le esistenze imbalsamate nella più apolide delle napoletanità di L’imbalsamatore, tanto per abbandonarsi agli esempi). La m.d.p. di Garrone (è quasi sempre lui l’operatore alla macchina) è scrupolosamente attenta al gioco di avvicinamenti e distanziamenti dei/dai corpi, dai volti. Non c’è soggetto nel cinema di Garrone se non l’implacabilità del suo sguardo scostante/spostante, ora freddo ora accesisssimo. Un occhio che scruta più che osservare, autoptico, brackhageiano, (disperatamente), la messa in opera di un’ossessione entomologica più che voyeuristica, di un procedimento tassidermico che scava dentro i corpi per sviscerarne i loro segreti (/secreti), la loro interiorità, per poi alla fine ricucirli attribuendogli o, meglio, insufflandogli l’illusione di un’esistenza imbalsamata (questa è la riflessione del cinema di Garrone sul soggetto, sui soggetti).
Primo amore, che non è (solo) un film sull’anoressia e sull’equivocità dell’amore, mette in scena sublimemente il delirio dell’alchimista ovvero il delirio di colui che è ossessionato dal mito filosofico-esoterico dell’armonia micro-macrocosmica, del rapporto intrinseco tra res cogitans e res extensa, tra psyche e soma, tra pensiero e materia. Al corpo puro corrisponde una mente pura. Vittorio è ossessionato dall’opus alchemico fino a inscenare nel teatro delle sue psicosi il sogno/delirio dell’alchimista che deve trovare la quintessenza, la pietra filosofale, che deve trasformare la merda in oro, cioè in oro filosofico, ossia purezza interiore. La purificazione è un processo fisico di “toglimento”, l’alchimista (e Vittorio lo è) deve, michelangiolescamente, neo-platonicamente, togliere via tutte le impurità della materia per raggiungere la bellezza assoluta, che corrisponde alla perfezione etico-estetica. Bisogna insegnare alla testa per istruire il corpo, questa è la falsa convinzione degli alchimisti i quali hanno sempre ignorato che anche il cervello è un corpo, e anche gli organi sono cervello (sic docet David Cronenberg) e che forse l’essere umano rimane imprigionato ineluttabilmente nella sua inevadibile condizione di “opera al nero”, di “nigredo” (interessanti, come sempre, le iperboli cromatiche della fotografia di Marco Onorato atte ad  esemplarizzare i vari stadi dell’opus: il rosso del fuoco, i marroni della terra e del corpo umano, i verdi delle luci fredde, il nero delle ombre, della notturnità, come assenza di colore e di esistenza). Vittorio è fin troppo intrappolato nel suo delirio catartico (in senso etimologico) che sul delirio dell’alchimista proietta anche il delirio del demiurgo golemico che vuole dare vita e forma alla sua creatura, non accorgendosi che il corpo di Sonia è un corpo che muore (splendida l’imago mortis della ragazza nell’Accademia, e degli sfiguramenti schieleiani del suo corpo smagrito, devitalizzato, scarnificato). Sonia d’altra parte è ciò che i greci chiamavano hyle, la materia virginale da plasmare che assume su di sé l’ossessione ammantata di psicopatologia amorosa di Vittorio, è la santa anoressica che anela misticamente all’annullamento di se stessa. Straordinaria, pur nel suo didascalismo connotativo, la sequenza del prolungato sfocamento delle figure di Vittorio e Sonia al lago sulla barca, il loro svanire/svenire incorporeo, spettrale. Il delirio di Vittorio dovrebbe idealmente pretendere l’evanescenza del corpo fino a restituirne il suo più ultimo (anche in senso escatologico) residuo: l’anima, il ciò che resta del corpo, che è quello che conta. I “21 grammi” di Iñarritu, altro grande film sulla residualità, sullo scarto letteralmente esistenziale, sulla indefinibile permanenza del qualcosa piuttosto che il nulla. Altro film materico, pima ed oltre che cerebrale, ovviamente “incompreso” perché visto con i soliti occhi troppo mentali, troppo poco umorvitrei del critico.
Mauro F. Giorgio
http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=1824

5 comentarios:

  1. La pelicula, al unirla con el HJSplit, esta "corrupta", solo se puede ver usando el VLC y dejando que la repare. En un reproductor DVD no se ve.
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    1. KaZac
      Te comento los pasos que seguí:
      1.- La bajé con MiPony
      2.- La uní con 7-Zip
      3.- La ví con Media Player Classic
      4.- La grabé en DVD con ConvertXtoDvd
      5.- La ví con un reproductor de dvd
      No encontré problemas.
      Saludos y espero que puedas solucionar el inconveniente.

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  2. gracias por tu trabajo y por tu paciencia. es posible que subas los links de esta peli a zippyshare. buenas ondas. mario

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