TITULO ORIGINAL La città dolente
AÑO 1949
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 80 min.
DIRECCION Mario Bonnard
GUION Mario Bonnard, Anton Giulio Majano, Aldo De Benedetti, Federico Fellini
REPARTO Luigi Tosi, Barbara Costanova, Gianni Rizzo, Elio Steiner, Gustavo Serena, Fedora Ratti, Raimondo Van Riel, Milly Vitale, Felice Minotti, Pina Piovani, Ivo Karavany, Attilio Dottesio, Constance Dowling, Anita Farra, Aristide Garbini
FOTOGRAFIA Tonino Delli Colli
MONTAJE Giulia Fontana
MUSICA Giulio Bonnard
PRODUCCION Istria, Scalera Film
GENERO Drama
SINOPSIS Nel 1947 l'antica città costiera istriana di Pola (oggi Pula), già colonia romana e poi veneziana, passata all'Austria nel 1797 e all'Italia nel 1918, fu assegnata alla Jugoslavia (Croazia), provocando l'esodo di migliaia di abitanti italiani. Attirato dall'idea di diventare padrone dell'officina dove lavora, l'operaio Berto decide di rimanere, ma i macchinari sono confiscati dal governo. Grazie a una funzionaria del partito comunista riesce a far partire per Trieste la moglie e il figlio che ha bisogno di cure. Diventato amante della commissaria, Berto è inviato in un campo di concentramento come dissidente. Evade, raggiunge la costa, rema verso l'Italia, muore, colpito da una raffica di mitragliatrice. Scritto dal regista con Anton Giulio Majano, Aldo De Benedetti e F. Fellini, il dramma appartiene a un gruppo di film patriottici, quasi tutti mediocri, che nel dopoguerra toccarono temi scabrosi e difficili sui quali calarono le censure di parte e le rimozioni politiche della sinistra. Prodotto da Istria e Scalera Film, è un'opera inerte, "non ha ritmo, convinzione, tensione, la parte romana è pseudoneorealista e didascalico-cattolica e non ha il coraggio di nominare mai la parola tabù: ‘comunisti’" (Goffredo Fofi). C. Dowling (1923-69), sorella minore di Doris D. (1921), ebbe una tormentata relazione con Cesare Pavese. Distribuito negli USA come City of Pain nel 1951. (Il Morandini)
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Dopo l'attribuzione di Pola alla Jugoslavia, tutta la popolazione lascia la città; mentre gli emissari jugoslavi, cercano, con lusinghe, di trattenere quanti più cittadini è possibile. Uno dei pochi ad accogliere l'invito è Berto, un giovane operaio, malgrado le preghiere della moglie, preoccupata per l'avvenire del loro figlioletto: sceglie di restare in Jugoslavia, sedotto dall'idea di diventare il padrone dell'officina dove lavora. Ma ben presto si pente della decisione presa: i macchinari vengono confiscati dal governo e la città, ormai semideserta, non offre possibilità di guadagno. Grazie all'intervento di una funzionaria del partito comunista, Berto riesce a far partire per Trieste la moglie col bimbo, che ha bisogno di cure. La donna jugoslava vorrebbe fare di Berto un propagandista del partito e intanto cerca di sedurlo. Ma dopo la passione iniziale, l'uomo si scaglia contro il governo, e viene arrestato e inviato in un campo di concentramento. Con l'aiuto di un sorvegliante, Berto riesce a fuggire. Dopo aver vagato per la campagna, raggiunge la costa, e trovata una barca, si mette a vogare di buona lena, dirigendosi verso la costa italiana; ma la raffica di un mitragliatrice jugoslava lo uccide.
http://www.federicofellini.it/node/563
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Così Federico Fellini raccontò La città dolente. Il regista fu tra gli scenggiatori dell'unico film su Pola e sugli esuli. Venne girato nel 1948.
E’ la storia di Berto, un operaio italiano di Pola che, convinto da un amico, nonostante la partenza della stragrande maggioranza dei suoi concittadini e anche di sua moglie e del figlioletto, decide di restare. Ma, poco tempo dopo, si ritrova disilluso, amareggiato, senza lavoro. Per aver manifestato apertamente il suo dissenso nei confronti del nuovo sistema, viene arrestato e inviato in un campo di concentramento per essere “rieducato”.
E’ la storia di Berto, un operaio italiano di Pola che, convinto da un amico, nonostante la partenza della stragrande maggioranza dei suoi concittadini e anche di sua moglie e del figlioletto, decide di restare. Ma, poco tempo dopo, si ritrova disilluso, amareggiato, senza lavoro. Per aver manifestato apertamente il suo dissenso nei confronti del nuovo sistema, viene arrestato e inviato in un campo di concentramento per essere “rieducato”.
La città dolente è realizzato nell’autunno del 1948, quindi è un film quasi contemporaneo a quegli storici avvenimenti, e viene distribuito nel marzo del 1949. E’ la storia di Berto, un operaio italiano di Pola che, convinto da un amico, nonostante la partenza della stragrande maggioranza dei suoi concittadini e anche di sua moglie e del figlioletto, decide di restare. Ma, poco tempo dopo, si ritrova disilluso, amareggiato, senza lavoro. Per aver manifestato apertamente il suo dissenso nei confronti del nuovo sistema, viene arrestato e inviato in un campo di concentramento per essere “rieducato”. Riesce a fuggire e a raggiungere la costa. Trovata una barca, cerca di dirigersi verso l’Italia, ma le guardie di frontiera lo uccidono con una raffica di mitragliatrice.
Il film è diretto da Mario Bonnard, prolifico regista, attivo sin dai tempi del muto. La sceneggiatura è di tre nomi famosi: Federico Fellini, Anton Giulio Majano e Aldo De Benedetti. Se scarsamente noti appaiono oggi i nomi degli interpreti, Luigi Tosi, Gianni Rizzo, Barbara Costanova, interessante è la presenza nel cast dell’attrice americana Constance Dowling, nel ruolo di Lubitza, la funzionaria del partito comunista jugoslavo che, diventata l’amante di Berto, cerca di fare di lui un propagandista del partito. Constance Dowling e sua sorella Doris, attrici già abbastanza note nel cinema hollywoodiano, erano venute in Italia nel 1947, come parecchi altri attori americani, allora molto richiesti per ragioni di richiamo divistico e di distribuzione commerciale. Quanto a Doris, il suo ruolo più famoso è quello di mondina, a fianco di Silvana Mangano e Vittorio Gassman, in Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis. Constance, che interpretò anche Addio Mimì (1947) di Carmine Gallone e Miss Italia (1950) di Duilio Coletti, con Gina Lollobrigida, è rimasta soprattutto famosa per la sua relazione amorosa con Cesare Pavese. Lo scrittore conobbe le sorelle Dowling a Roma alla fine del 1949 e rimase subito folgorato da Constance. L’attrice però, dopo pochi mesi, lo lasciò senza alcuna spiegazione. Ciò fu per Pavese motivo di profondo sconforto. In un cassetto dello scrittoio della camera d’albergo di Torino in cui si suicidò il 27 agosto 1950 vennero trovate le sue ultime poesie dedicate proprio a Constance Dowling, che furono pubblicate l’anno successivo con il titolo Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. A lei Casare Pavese dedicò anche il famoso romanzo La luna e i falò (1950).
La città dolente si avvale della fotografia dell’allora giovanissimo Tonino Delli Colli, alle cui scene ricostruite in studio o girate in esterni vengono efficacemente collegate e inframezzate in sede di montaggio parti documentaristiche relative all’esodo da Pola filmate da Enrico Moretti e dall’operatore cinematografico triestino Gianni Alberto Vitrotti, in particolare brani dei documentari Pola, una città che muore e Addio, mia cara Pola, tra cui le immagini, diventate famose, dell’imbarco dei profughi con le loro masserizie sulla motonave “Toscana”, che, messa a disposizione dal Comitato esodo del governo italiano, compie dodici viaggi tra Pola e Venezia e Pola e Ancona tra il 3 febbraio e il 20 marzo 1947. Anche l’incipit di La città dolente, secondo uno stile molto in voga nel cinema italiano dell’epoca, è di tipo apertamente documentaristico. Dopo la scritta “Alla Madre che sempre conosce ed accetta lo spirito di sacrificio”, un’ampia magnifica panoramica, partendo dall’arena, mostra il golfo di Pola, con la voce fuori campo che illustra: “Questa è Pola, adagiata su sette colli, a somiglianza di Roma... l’anfiteatro, uno dei più grandiosi della latinità, costruito durante l’impero di Augusto, tutto in pietra d’Istria chiara e purissima. Tutto è tipicamente italiano... alle voci della latinità si uniscono i segni di Venezia...”. Dopo le immagini del glorioso passato, ecco sintetizzato, sempre con materiale documentario, il drammatico presente: “Alle 11 del 10 febbraio 1947 a Parigi la fine di Pola era suggellata... la tragedia è nell’aria... lo sgombero è già cominciato... è un’intera città che muore...” Nello stretto intreccio tra dramma privato e tragedia storica costruito dalla sceneggiatura viene inserito anche un riferimento a un fatto famoso di quel giorno: l’attentato di Maria Pasquinelli nei confronti del comandante della guarnigione britannica di Pola.
Prodotto dalla Istria-Scalera Film, La città dolente in una prima fase è distribuito dalla Scalera. Ha poi una seconda uscita nel circuito parrocchiale tramite la San Paolo Film. Nel 1985, quando questa cessa la sua attività di distribuzione di pellicole per dedicarsi all’attività distributiva di videocassette, diventanto San Paolo Audiovisivi, i materiali in pellicola vengono acquisiti dall’Istituto Luce. Il film, comunque, grazie a qualche passaggio televisivo negli anni successivi, non viene dimenticato. Riconosciutone il valore documentario, la pellicola nel 2008 è stata restaurata dall’Istituto Luce, in collaborazione con la Cineteca Nazionale e la Cineteca del Friuli, ed è ritornata all’attenzione di storici del cinema, critici e pubblico all’ultima Mostra del Cinema di Venezia all’interno di una rassegna dedicata alla “Storia segreta del cinema italiano” curata da Sergio Toffetti e Tatti Sanguineti. (Messaggero Veneto, 6 febbraio 2009).
http://cinemascuola.blogspot.com.ar/2011/01/la-citta-dolente.html
Il film è diretto da Mario Bonnard, prolifico regista, attivo sin dai tempi del muto. La sceneggiatura è di tre nomi famosi: Federico Fellini, Anton Giulio Majano e Aldo De Benedetti. Se scarsamente noti appaiono oggi i nomi degli interpreti, Luigi Tosi, Gianni Rizzo, Barbara Costanova, interessante è la presenza nel cast dell’attrice americana Constance Dowling, nel ruolo di Lubitza, la funzionaria del partito comunista jugoslavo che, diventata l’amante di Berto, cerca di fare di lui un propagandista del partito. Constance Dowling e sua sorella Doris, attrici già abbastanza note nel cinema hollywoodiano, erano venute in Italia nel 1947, come parecchi altri attori americani, allora molto richiesti per ragioni di richiamo divistico e di distribuzione commerciale. Quanto a Doris, il suo ruolo più famoso è quello di mondina, a fianco di Silvana Mangano e Vittorio Gassman, in Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis. Constance, che interpretò anche Addio Mimì (1947) di Carmine Gallone e Miss Italia (1950) di Duilio Coletti, con Gina Lollobrigida, è rimasta soprattutto famosa per la sua relazione amorosa con Cesare Pavese. Lo scrittore conobbe le sorelle Dowling a Roma alla fine del 1949 e rimase subito folgorato da Constance. L’attrice però, dopo pochi mesi, lo lasciò senza alcuna spiegazione. Ciò fu per Pavese motivo di profondo sconforto. In un cassetto dello scrittoio della camera d’albergo di Torino in cui si suicidò il 27 agosto 1950 vennero trovate le sue ultime poesie dedicate proprio a Constance Dowling, che furono pubblicate l’anno successivo con il titolo Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. A lei Casare Pavese dedicò anche il famoso romanzo La luna e i falò (1950).
La città dolente si avvale della fotografia dell’allora giovanissimo Tonino Delli Colli, alle cui scene ricostruite in studio o girate in esterni vengono efficacemente collegate e inframezzate in sede di montaggio parti documentaristiche relative all’esodo da Pola filmate da Enrico Moretti e dall’operatore cinematografico triestino Gianni Alberto Vitrotti, in particolare brani dei documentari Pola, una città che muore e Addio, mia cara Pola, tra cui le immagini, diventate famose, dell’imbarco dei profughi con le loro masserizie sulla motonave “Toscana”, che, messa a disposizione dal Comitato esodo del governo italiano, compie dodici viaggi tra Pola e Venezia e Pola e Ancona tra il 3 febbraio e il 20 marzo 1947. Anche l’incipit di La città dolente, secondo uno stile molto in voga nel cinema italiano dell’epoca, è di tipo apertamente documentaristico. Dopo la scritta “Alla Madre che sempre conosce ed accetta lo spirito di sacrificio”, un’ampia magnifica panoramica, partendo dall’arena, mostra il golfo di Pola, con la voce fuori campo che illustra: “Questa è Pola, adagiata su sette colli, a somiglianza di Roma... l’anfiteatro, uno dei più grandiosi della latinità, costruito durante l’impero di Augusto, tutto in pietra d’Istria chiara e purissima. Tutto è tipicamente italiano... alle voci della latinità si uniscono i segni di Venezia...”. Dopo le immagini del glorioso passato, ecco sintetizzato, sempre con materiale documentario, il drammatico presente: “Alle 11 del 10 febbraio 1947 a Parigi la fine di Pola era suggellata... la tragedia è nell’aria... lo sgombero è già cominciato... è un’intera città che muore...” Nello stretto intreccio tra dramma privato e tragedia storica costruito dalla sceneggiatura viene inserito anche un riferimento a un fatto famoso di quel giorno: l’attentato di Maria Pasquinelli nei confronti del comandante della guarnigione britannica di Pola.
Prodotto dalla Istria-Scalera Film, La città dolente in una prima fase è distribuito dalla Scalera. Ha poi una seconda uscita nel circuito parrocchiale tramite la San Paolo Film. Nel 1985, quando questa cessa la sua attività di distribuzione di pellicole per dedicarsi all’attività distributiva di videocassette, diventanto San Paolo Audiovisivi, i materiali in pellicola vengono acquisiti dall’Istituto Luce. Il film, comunque, grazie a qualche passaggio televisivo negli anni successivi, non viene dimenticato. Riconosciutone il valore documentario, la pellicola nel 2008 è stata restaurata dall’Istituto Luce, in collaborazione con la Cineteca Nazionale e la Cineteca del Friuli, ed è ritornata all’attenzione di storici del cinema, critici e pubblico all’ultima Mostra del Cinema di Venezia all’interno di una rassegna dedicata alla “Storia segreta del cinema italiano” curata da Sergio Toffetti e Tatti Sanguineti. (Messaggero Veneto, 6 febbraio 2009).
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La città dolente: requiem per Pola (1949)
“Non è pensabile che gli italiani di Pola - non essendo il martirio un’aspirazione di massa - possano rimanere sotto il regime di Tito”
console Justo Giusti del Giardino (1947)
“La pellicola è ferma, morta; puzza di cadavere”
L’Avanti, 30 marzo 1949
Il 10 febbraio 1947 le autorità alleate consegnano a Tito il governo della enclave italiana di Pola. Fino all’ultimo i 35000 abitanti della città istriana avevano sperato di salvarsi in quanto la città faceva parte della zona A ed era interamente italiana. Purtroppo le forze politiche romane sono deboli e incapaci di fronteggiare la difficile situazione. La DC di De Gasperi teme anche solo di utilizzare termini come patria e confini nazionali, termini che vengono subito strumentalmente tacciati come “rigurgiti fascisti” dalle miopi forze di sinistra le quali, largamente finanziate da uno Stalin ancora alleato di Tito, sono assolutamente favorevoli al passaggio dell’Istria alla sfera orientale. Si tratta pur sempre dell’approdo al “paradiso” comunista (perfino gli azionisti, in genere più critici, tacciono), un “paradiso” dal quale tuttavia viene in fretta e furia organizzato un esodo biblico: pressoché l’intera popolazione di Pola fa armi e bagagli finché può. La questione è innanzitutto etnica: slavi e italiani non si tollerano e, dopo il cruento conflitto, sono divisi da rancori profondi e insanabili. Ciononostante, anche senza le ferite aperte della guerra, gli italiani averebbero comunque lasciato una terra nella quale avrebbero dovuto accettare un ruolo emarginato all’interno di un sistema oppressivo e totalitario.
In Italia invece la “rappresentazione” comunista è già in corso da alcuni anni e durerà fino al 1991 (caduta del PCUS e fine dei connessi finanziamenti). Popolo furbo e abile di stupendi commedianti (inventore del cattolicesimo e del melodramma), dopo avere recitato il dramma fascista, ora si immedesima nella sceneggiata (quasi una farsa per la verità, se non fosse per i gulag e gli anni di piombo) comunista: a parole quasi metà degli italiani si è convinta del verbo staliniano e batte cassa: il PCI e il PSI contano sui finanziamenti del PCUS, ovvero una consistente somma che varia dal 30 al 50 per cento del totale erogato nel periodo 1945-1991 da Mosca per i partiti satelliti. Così il popolo comunista della penisola può vivere comodamente in un paese che garantisce tutte le libertà, conta su capitali di varia provenienza e al tempo stesso fruisce anche di incentivi da parte di un’economia miserabile come quella russa, dove la povera gente deve fare interminabili code per merci di prima necessità.
L’Italia rimane solo per poco tempo “un paese povero” come dice, in una celebre, implorante frase, l’ambasciatore Tarchiani (luglio 1945) in un memorandum per Truman; l’Italia è un paese scaltro che, di lì a poco, può contare sugli aiuti USA alla DC, sulle immense ricchezze del Vaticano e infine anche su ingenti denari provenienti da Mosca (che la DC, con benevolenza e sendo dell’opportunità, lascia entrare in patria, senza fare troppe storie; lo racconta tra gli altri Francesco Cossiga).
La guerra è stata indubbiamente persa (nonostante la retorica della “liberazione”) e qualcuno deve pagare il conto. La nazione perde tutte le colonie, ma sopporta la privazione senza eccessivi lamenti: i prolungamenti africani (giustamente) non erano mai stati assimilati in profondità dalla nazione; riguardavano semmai l’orgoglio di una nomenclatura altoborghese che non voleva essere da meno rispetto a Gran Bretagna e Francia. Discorso del tutto differente implica invece la perdita dell’Istria e delle zone costiere della Dalmazia, territori veneziani da secoli in cui l’amputazione a favore del mondo slavo causa un massiccio esodo (nel dopoguerra almeno 200000 persone nel complesso abbandonarono quelle zone), conseguenza ineluttabile della criminale e velleitaria politica bellica di un fascismo parolaio e inefficiente.
Come detto, di fronte al dramma dei profughi, l’Italia politica reagisce con imbarazzo, censure e silenzi quando non con atteggiamenti di vergognosa ostilità: parte del popolo comunista, convertitosi di recente al nuovo vangelo nel modo ultrazelante tipico dei neofiti (e degli italiani), guarda con ostilità a questi compatrioti che fuggono dal paradiso promesso, infangando così la purezza e la credibilità del mito stesso. Tale atteggiamento antisolidaristico, abbastanza insolito per una popolazione “emotiva” e dotata complessivamente di buon senso come quella italiana, viene consacrato in modo definitivo dallo spietato Togliatti il quale, sull’Unità del 2 febbraio 1947, scrive l’ipocrita articolo “Perché evacuare Pola?”, lanciando il proprio anatema contro quelle disgraziate popolazioni di confine. Di contro, a un incerto De Gasperi, che ancora non osa dire a chiare lettere che bisogna lasciare Pola e non si decide a mettere a disposizione le motonavi necessarie, il vescovo della città istriana, monsignor Radossi, telegrafa: “Inutile, anzi doveroso non attendere. Comprendetelo una buona volta e credeteci, altrimenti venite Voi qui e noi partiremo”.
In Italia invece la “rappresentazione” comunista è già in corso da alcuni anni e durerà fino al 1991 (caduta del PCUS e fine dei connessi finanziamenti). Popolo furbo e abile di stupendi commedianti (inventore del cattolicesimo e del melodramma), dopo avere recitato il dramma fascista, ora si immedesima nella sceneggiata (quasi una farsa per la verità, se non fosse per i gulag e gli anni di piombo) comunista: a parole quasi metà degli italiani si è convinta del verbo staliniano e batte cassa: il PCI e il PSI contano sui finanziamenti del PCUS, ovvero una consistente somma che varia dal 30 al 50 per cento del totale erogato nel periodo 1945-1991 da Mosca per i partiti satelliti. Così il popolo comunista della penisola può vivere comodamente in un paese che garantisce tutte le libertà, conta su capitali di varia provenienza e al tempo stesso fruisce anche di incentivi da parte di un’economia miserabile come quella russa, dove la povera gente deve fare interminabili code per merci di prima necessità.
L’Italia rimane solo per poco tempo “un paese povero” come dice, in una celebre, implorante frase, l’ambasciatore Tarchiani (luglio 1945) in un memorandum per Truman; l’Italia è un paese scaltro che, di lì a poco, può contare sugli aiuti USA alla DC, sulle immense ricchezze del Vaticano e infine anche su ingenti denari provenienti da Mosca (che la DC, con benevolenza e sendo dell’opportunità, lascia entrare in patria, senza fare troppe storie; lo racconta tra gli altri Francesco Cossiga).
La guerra è stata indubbiamente persa (nonostante la retorica della “liberazione”) e qualcuno deve pagare il conto. La nazione perde tutte le colonie, ma sopporta la privazione senza eccessivi lamenti: i prolungamenti africani (giustamente) non erano mai stati assimilati in profondità dalla nazione; riguardavano semmai l’orgoglio di una nomenclatura altoborghese che non voleva essere da meno rispetto a Gran Bretagna e Francia. Discorso del tutto differente implica invece la perdita dell’Istria e delle zone costiere della Dalmazia, territori veneziani da secoli in cui l’amputazione a favore del mondo slavo causa un massiccio esodo (nel dopoguerra almeno 200000 persone nel complesso abbandonarono quelle zone), conseguenza ineluttabile della criminale e velleitaria politica bellica di un fascismo parolaio e inefficiente.
Come detto, di fronte al dramma dei profughi, l’Italia politica reagisce con imbarazzo, censure e silenzi quando non con atteggiamenti di vergognosa ostilità: parte del popolo comunista, convertitosi di recente al nuovo vangelo nel modo ultrazelante tipico dei neofiti (e degli italiani), guarda con ostilità a questi compatrioti che fuggono dal paradiso promesso, infangando così la purezza e la credibilità del mito stesso. Tale atteggiamento antisolidaristico, abbastanza insolito per una popolazione “emotiva” e dotata complessivamente di buon senso come quella italiana, viene consacrato in modo definitivo dallo spietato Togliatti il quale, sull’Unità del 2 febbraio 1947, scrive l’ipocrita articolo “Perché evacuare Pola?”, lanciando il proprio anatema contro quelle disgraziate popolazioni di confine. Di contro, a un incerto De Gasperi, che ancora non osa dire a chiare lettere che bisogna lasciare Pola e non si decide a mettere a disposizione le motonavi necessarie, il vescovo della città istriana, monsignor Radossi, telegrafa: “Inutile, anzi doveroso non attendere. Comprendetelo una buona volta e credeteci, altrimenti venite Voi qui e noi partiremo”.
I “neorealisti”, tanto sensibili alle problematiche sociali, attenti alle biciclette rubate e ai pescatori in difficoltà, “stranamente” non si accorgono del gigantesco dramma in atto ai confini orientali della nazione. Il silenzio è d’obbligo in questi casi. Solo il meritevole Mario Bonnard, già autore di pregevoli pellicole quali Rossini (1942), Campo de’ fiori (1943) e Il ratto delle Sabine (1945; vedi), osa infrangere il muro del silenzio con un film che verrà da tutti boicottato (incasserà pochissimo) ossia La città dolente (febbraio 1949; 92 min.), sceneggiato con l’aiuto di Anton Giulio Majano, Aldo De Benedetti e Federico Fellini e ottimamente musicato dal Giulio Bonnard. Nella parte iniziale l’autore mischia in modo abile immagini di repertorio e fiction, raccontando le vicende della famiglia di Berto (Luigi Tosi) poste sul fondale dell’esodo (febbraio 1947). Tutti lasciano Pola ma Berto, convinto dall’amico Sergio (Gianni Rizzo), un comunista illuso e sciocco, decide di rimanere, nonostante l’opposizione della moglie Silvana (Barbara Costanova), preoccupata soprattutto per il futuro della loro bimba. La città viene ripopolata dagli slavi i quali trattano con la prevedibile durezza e diffidenza i pochi italiani rimasti, al di là delle affinità ideologiche. La miseria e le difficoltà fanno presto ricredere Berto che capisce il proprio errore e ottiene di mandare in Italia moglie e figlia per delle cure. Egli si ripromette di raggiungerle poco dopo, ma le cose precipitano. L’uomo è sempre più irritato dai modi autoritari e “padronali” dei compagni titini e reagisce in maniera istintivo e imprudente (e per la verità completamente inverosimile; è questa la parte certamente più debole e artificiosa della pellicola). Di conseguenza finisce, con Sergio, in un gulag a spaccar pietre (formalmente per essere “rieducato”) dal quale riesce a fuggire e, attraverso una lunga odissea, a raggiungere il mare dove però una raffica di mitra lo uccide; l’amico invece viene ammazzato nel lager.
Il film dunque ha il coraggio di rompere il muro di omertà e di raccontare che il sistema comunista, sovietico o titino, è una realtà tenebrosa che non possiede il minimo rispetto per l’individuo, una realtà certamente peggiore del fascismo nostrano, dove quanto meno ci si limitava a spedire i pochi oppositori al confino. Tra l’altro la vicenda raccontata da Bonnard e soci allude a una sconcertante, successiva tragedia in corso (forse in modo inconsapevole): le peripezie ipotizzate per gli italiani comunisti in Istria (numerosi ci andarono a lavorare, su indicazione del PCI, proprio nel 1947, al fine di aiutare i compagni slavi in difficoltà con i macchinari requisiti) si riveleranno tragicamente esatte: dopo la drastica rottura di Tito e Stalin (marzo 1948) quegli ingenui lavoratori che si sono fidati delle rassicurazioni dell’apparato comunista, si ritrovano senza protezioni in terra straniera, in balia di un sistema che ora li sospetta di spionaggio. Vengono in larga parte rinchiusi in campi di lavoro e verranno liberati, un po’ alla volta, intorno alla metà degli anni cinquanta. Alcuni riusciranno a fuggire e a raccontare la verità, senza venire (come al solito) troppo ascoltati dai mezzi di informazione, in larga parte sempre “innamorati” dell’utopia comunista. Il film di Bonnard, girato nell’autunno 1948, registra già le prime avvisaglie di questa nuova, kafkiana situazione.
Inutile dire che le poche, sbrigative recensioni di parte socialcomunista mostrano la prevedibile dose di astio insolente e ribadiscono in modo inequivoco e desolante la sostanziale dipendenza della cultura dal potere politico (la qual cosa supera la questione comunista e si ritrova in ogni ambito storico e geografico). Sull’Avanti del 30 marzo 1949 si legge pertanto: “Il dramma di Pola, l’esodo di quella popolazione, è argomento delicato; poteva offrire materiale al cinema qualora avesse trovato un regista d’ingegno. Ha trovato purtroppo un uomo per il quale il facchinaggio non dovrebbe avere misteri a giudicare dalla delicatezza, dagli argomenti di cui si è servito per intonare un inno al nazionalismo più deteriore. La raccolta dei luoghi comuni e della retorica fascista (e degasperiana) è completa. Non manca nulla. E non mancano le falsità più indisponenti. Questo il contenuto. E la regia? Inesistente. La pellicola è ferma, morta; puzza di cadavere. I tentativi qua e là di raggiungere una certa calligrafia sono traditi dagli errori di grammatica. Gli attori, tranne la Dowling, non meritano citazione”.
La pellicola di Bonnard adotta stilemi da cinema noir per raccontare la progressiva discesa agli inferi di Berto. La fotografia è fortemente contrastata; prevalgono interni bui e claustrofobici mentre il taglio dell’inquadratura possiede quasi sempre una propria austera bellezza. La solenne e operistica colonna sonora di Giulio Bonnard sottolinea i passaggi tragici e distingue nettamente il mondo italiano da quello slavo attraverso un abile utilzzo dei rispettivi patrimoni musicali. Così i polesi, finalmente imbarcati sulla motonave diretta verso la patria, intonano il celebre, nostalgico coro “O Signore dal tetto natio” (Verdi, I Lombardi alla prima crociata, 1844) mentre la grande festa da ballo degli occupanti la “nuova” Pola viene commentata da musiche slave ispirate al folclore russo e al teatro lirico di Musorgski e Ciaikovski.
Le figure umane sono stilizzate e tuttavia abbastanza credibili: la povera gente che lascia tutto e si avvia verso l’ignoto è dipinta con sincera commozione; l’addolorato sacerdote che tutti ascolta e consiglia, invitando alla rassegnazione, è un ulteriore personaggio di notevole spessore; l’intellettuale comunista amico di Berto che finalmente crede di potere diventare “qualcuno” dopo avere dovuto servire a lungo un padrone è una figura antipatica il cui furore astratto è però veritiero e comprensibile come pure nel prosieguo la dolente presa di coscienza del proprio grave errore (l’essersi schierato contro la sua gente, in nome del comunismo), fino al punto di decidere di sacrificare la vita per aiutare Berto.
L’apice è costituito della parte finale, quando i due amici vengono inviati nel lager: solo allora il sistema totalitario mostra tutto il proprio orrore astratto, la propria devozione all’Idea in spregio alle esigenze umane dei singoli. Da quel mondo abietto Berto trova la forza di fuggire e le vicende successive si svolgono in un crescendo di tensione che trova la propria catarsi solo nelle ultime immagini.
Bonnard avvisa gli italiani che se due totalitarismo sono stati debellati, un altro sopravvive e si trova alle porte di casa nostra ed anzi minaccia anche l’Italia dove opera il più potente partito comunista d’Europa. Gli intellettuali, organici e non, fanno finta di niente: la commedia è cominciata, ha trovato un preciso punto di equilibrio nel contesto cattolico italiano e comincia a dare i suoi frutti (posti di potere e di prestigio, affari Import - Export, ricchi finanziamenti, feste popolari ecc.); nessuno pertanto deve disturbare. Gli italiani oltre che scettici e astuti, sono anche indolenti: canteranno per decenni la loro finta rivoluzione e tacceranno di “reazionario” e “fascista” chiunque si permetterà di infastidirli, ponendo loro serie questioni riguardanti il mancato rispetto delle libertà individuali, d’iniziativa, d’espressione, di culto e di movimento nei sistemi orientali. A Bettino Craxi, il politico più coraggioso in tale direzione (l’unico che osa rompere l’incantesimo e sganciare il PSI dall’orbita comunista), verrà fatto pagare il conto più salato: morirà in esilio.
http://www.giusepperausa.it/la_citta_dolente.html
Il film dunque ha il coraggio di rompere il muro di omertà e di raccontare che il sistema comunista, sovietico o titino, è una realtà tenebrosa che non possiede il minimo rispetto per l’individuo, una realtà certamente peggiore del fascismo nostrano, dove quanto meno ci si limitava a spedire i pochi oppositori al confino. Tra l’altro la vicenda raccontata da Bonnard e soci allude a una sconcertante, successiva tragedia in corso (forse in modo inconsapevole): le peripezie ipotizzate per gli italiani comunisti in Istria (numerosi ci andarono a lavorare, su indicazione del PCI, proprio nel 1947, al fine di aiutare i compagni slavi in difficoltà con i macchinari requisiti) si riveleranno tragicamente esatte: dopo la drastica rottura di Tito e Stalin (marzo 1948) quegli ingenui lavoratori che si sono fidati delle rassicurazioni dell’apparato comunista, si ritrovano senza protezioni in terra straniera, in balia di un sistema che ora li sospetta di spionaggio. Vengono in larga parte rinchiusi in campi di lavoro e verranno liberati, un po’ alla volta, intorno alla metà degli anni cinquanta. Alcuni riusciranno a fuggire e a raccontare la verità, senza venire (come al solito) troppo ascoltati dai mezzi di informazione, in larga parte sempre “innamorati” dell’utopia comunista. Il film di Bonnard, girato nell’autunno 1948, registra già le prime avvisaglie di questa nuova, kafkiana situazione.
Inutile dire che le poche, sbrigative recensioni di parte socialcomunista mostrano la prevedibile dose di astio insolente e ribadiscono in modo inequivoco e desolante la sostanziale dipendenza della cultura dal potere politico (la qual cosa supera la questione comunista e si ritrova in ogni ambito storico e geografico). Sull’Avanti del 30 marzo 1949 si legge pertanto: “Il dramma di Pola, l’esodo di quella popolazione, è argomento delicato; poteva offrire materiale al cinema qualora avesse trovato un regista d’ingegno. Ha trovato purtroppo un uomo per il quale il facchinaggio non dovrebbe avere misteri a giudicare dalla delicatezza, dagli argomenti di cui si è servito per intonare un inno al nazionalismo più deteriore. La raccolta dei luoghi comuni e della retorica fascista (e degasperiana) è completa. Non manca nulla. E non mancano le falsità più indisponenti. Questo il contenuto. E la regia? Inesistente. La pellicola è ferma, morta; puzza di cadavere. I tentativi qua e là di raggiungere una certa calligrafia sono traditi dagli errori di grammatica. Gli attori, tranne la Dowling, non meritano citazione”.
La pellicola di Bonnard adotta stilemi da cinema noir per raccontare la progressiva discesa agli inferi di Berto. La fotografia è fortemente contrastata; prevalgono interni bui e claustrofobici mentre il taglio dell’inquadratura possiede quasi sempre una propria austera bellezza. La solenne e operistica colonna sonora di Giulio Bonnard sottolinea i passaggi tragici e distingue nettamente il mondo italiano da quello slavo attraverso un abile utilzzo dei rispettivi patrimoni musicali. Così i polesi, finalmente imbarcati sulla motonave diretta verso la patria, intonano il celebre, nostalgico coro “O Signore dal tetto natio” (Verdi, I Lombardi alla prima crociata, 1844) mentre la grande festa da ballo degli occupanti la “nuova” Pola viene commentata da musiche slave ispirate al folclore russo e al teatro lirico di Musorgski e Ciaikovski.
Le figure umane sono stilizzate e tuttavia abbastanza credibili: la povera gente che lascia tutto e si avvia verso l’ignoto è dipinta con sincera commozione; l’addolorato sacerdote che tutti ascolta e consiglia, invitando alla rassegnazione, è un ulteriore personaggio di notevole spessore; l’intellettuale comunista amico di Berto che finalmente crede di potere diventare “qualcuno” dopo avere dovuto servire a lungo un padrone è una figura antipatica il cui furore astratto è però veritiero e comprensibile come pure nel prosieguo la dolente presa di coscienza del proprio grave errore (l’essersi schierato contro la sua gente, in nome del comunismo), fino al punto di decidere di sacrificare la vita per aiutare Berto.
L’apice è costituito della parte finale, quando i due amici vengono inviati nel lager: solo allora il sistema totalitario mostra tutto il proprio orrore astratto, la propria devozione all’Idea in spregio alle esigenze umane dei singoli. Da quel mondo abietto Berto trova la forza di fuggire e le vicende successive si svolgono in un crescendo di tensione che trova la propria catarsi solo nelle ultime immagini.
Bonnard avvisa gli italiani che se due totalitarismo sono stati debellati, un altro sopravvive e si trova alle porte di casa nostra ed anzi minaccia anche l’Italia dove opera il più potente partito comunista d’Europa. Gli intellettuali, organici e non, fanno finta di niente: la commedia è cominciata, ha trovato un preciso punto di equilibrio nel contesto cattolico italiano e comincia a dare i suoi frutti (posti di potere e di prestigio, affari Import - Export, ricchi finanziamenti, feste popolari ecc.); nessuno pertanto deve disturbare. Gli italiani oltre che scettici e astuti, sono anche indolenti: canteranno per decenni la loro finta rivoluzione e tacceranno di “reazionario” e “fascista” chiunque si permetterà di infastidirli, ponendo loro serie questioni riguardanti il mancato rispetto delle libertà individuali, d’iniziativa, d’espressione, di culto e di movimento nei sistemi orientali. A Bettino Craxi, il politico più coraggioso in tale direzione (l’unico che osa rompere l’incantesimo e sganciare il PSI dall’orbita comunista), verrà fatto pagare il conto più salato: morirà in esilio.
http://www.giusepperausa.it/la_citta_dolente.html
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Realizzato in bianco e nero, questo lavoro contiene alcune scene documentarie sull’esodo istriano, girate da cineoperatori proprio in quei giorni in cui la riscrittura dei confini italiani orientali verso Trieste, spinse decine di migliaia di persone a lasciare Pola. Immagini che vennero dunque restituite alla visione pubblica dopo essere state recuperate negli archivi dell’Istituto Luce e restaurate dalla Cineteca del Friuli.
Le scene documentarie si inseriscono in quelle di finzione che raccontano la vicenda di Berto, meccanico che in quei giorni decide di restare a Pola, fiducioso nel socialismo di Tito. I fatti lo smentiranno, moglie e figlio riusciranno a partire verso Venezia grazie all’aiuto di una ispettrice comunista. La stessa che poi manderà Berto in un campo di lavori forzati perché venga “rieducato”.
La sceneggiatura è frutto di un lavoro di squadra tra lo stesso regista Bonnard e Federico Fellini, Aldo De Benedetti e Anton Giulio Majano. La fotografia fu affidata al grande Tonino Delli Colli. Il critico Paolo Mereghetti ha definito questo film “strano, anomalo, dove la propaganda si mescola al documentario, il melodramma alla ricostruzione storica”.
La sequenza che più resta impressa sempre secondo Mereghetti è “quella della dissepoltura delle casse da morto dai cimiteri, per portarsi in Italia anche i resti dei propri cari. […] Altrettanto drammatiche sono le lunghe file di profughi che spingono mobili e materassi ammassati su carretti di fortuna, o i volti senza gioia dei bambini che si imbarcano sulla nave Toscana, che fa la spola tra l’Istria e Venezia. Immagini che l’allora giovanissimo Tonino Delli Colli (era il suo ottavo film come direttore della fotografia) riesce a fondere perfettamente con il resto del film, girato in parte negli stabilimenti Scalera di Roma in parte in esterni”.
Il film “Una città dolente”, unico film girato su questo soggetto, pone moltissime domande che restano ancora da percorrere, come il fallimento delle minoranze italiane rimaste in Istria, l’oppressione titina, i campi di concentramento, la violenta propaganda anticomunista che in quel periodo attraversava l’Italia. “Forse l’esodo da Pola e più in generale il ridisegnamento dei confini orientali del nostro Paese – conclude Mereghetti – era un argomento su cui quasi nessuno si sentiva di speculare: troppe le sofferenze subite, troppi da una parte e dall’altra gli scheletri da tener nascosti negli armadi”.
Alessandro Piccinini
http://www.senigallianotizie.it/1297176980/ricordo-delle-foibe-alla-fenice-il-film-la-citt-dolente-di-mario-bonnard
Le scene documentarie si inseriscono in quelle di finzione che raccontano la vicenda di Berto, meccanico che in quei giorni decide di restare a Pola, fiducioso nel socialismo di Tito. I fatti lo smentiranno, moglie e figlio riusciranno a partire verso Venezia grazie all’aiuto di una ispettrice comunista. La stessa che poi manderà Berto in un campo di lavori forzati perché venga “rieducato”.
La sceneggiatura è frutto di un lavoro di squadra tra lo stesso regista Bonnard e Federico Fellini, Aldo De Benedetti e Anton Giulio Majano. La fotografia fu affidata al grande Tonino Delli Colli. Il critico Paolo Mereghetti ha definito questo film “strano, anomalo, dove la propaganda si mescola al documentario, il melodramma alla ricostruzione storica”.
La sequenza che più resta impressa sempre secondo Mereghetti è “quella della dissepoltura delle casse da morto dai cimiteri, per portarsi in Italia anche i resti dei propri cari. […] Altrettanto drammatiche sono le lunghe file di profughi che spingono mobili e materassi ammassati su carretti di fortuna, o i volti senza gioia dei bambini che si imbarcano sulla nave Toscana, che fa la spola tra l’Istria e Venezia. Immagini che l’allora giovanissimo Tonino Delli Colli (era il suo ottavo film come direttore della fotografia) riesce a fondere perfettamente con il resto del film, girato in parte negli stabilimenti Scalera di Roma in parte in esterni”.
Il film “Una città dolente”, unico film girato su questo soggetto, pone moltissime domande che restano ancora da percorrere, come il fallimento delle minoranze italiane rimaste in Istria, l’oppressione titina, i campi di concentramento, la violenta propaganda anticomunista che in quel periodo attraversava l’Italia. “Forse l’esodo da Pola e più in generale il ridisegnamento dei confini orientali del nostro Paese – conclude Mereghetti – era un argomento su cui quasi nessuno si sentiva di speculare: troppe le sofferenze subite, troppi da una parte e dall’altra gli scheletri da tener nascosti negli armadi”.
Alessandro Piccinini
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