TITULO ORIGINAL A cavallo della tigre
AÑO 2002
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 98 min.
DIRECCION Carlo Mazzacurati
GUION Carlo Mazzacurati, Franco Bernini
MUSICA Ivano Fossati
FOTOGRAFIA Alessandro Pesci, Roberto Cimatti
REPARTO Fabrizio Bentivoglio, Tuncel Kurtiz, Paola Cortellesi, Rafik Boubker, Roberto Citran, Marco Messeri, Manrico Gammarota, Marco Paolini
PREMIOS Y FESTIVALES
2004 RASSEGNA DEL NUOVO CINEMA ITALIANO IN VENEZUELA 2004: Panorama
2003 FESTIVAL DEL CINEMA ITALIANO DI TOKYO 2003: Panorama
PRODUCTORA Rai Cinemafiction / Rodeo Drive
GENERO Comedia | Remake
SINOPSIS Guido es un simpático cuarentón que vive en Milán. Se dedica a trabajos de poca monta y está lleno de deudas. Para resolver su precaria situación económica, planea un atraco en el que involucra a su novia Antonella, una azafata de televisión. Remake del original homónimo de Luigi Comencini. (FILMAFFINITY)
Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
Guido, guardia giurata oppressa dai debiti, tenta di risollevare la propria sorte simulando la rapina dell'incasso del supermercato milanese per cui lavora, con la complicità della compagna Antonella. Arrestato, viene coinvolto, a pochi giorni dalla fine della pena, nell'evasione dell'anziano turco Fatih e del marocchino Hamid. A Torino quest’ultimo abbandona i compagni; Guido e Fatih raggiungono a piedi Genova per trovarvi uno Antonella e l’altro una nave per raggiungere la Turchia. Guido, braccato dai poliziotti, viene aiutato da Antonella nella fuga.
Dichiarazioni
«Mi viene naturale pensare a questo tipo di film come unico mezzo per poter parlare della società senza fare film di denuncia o documentari» (C. Mazzacurati, “Notizie d'Essai” n. 54, 31.10.2002).
«Bentivoglio riesce a variare impercettibilmente fra l'inizio e la fine della storia, dando veramente un grande esempio di come un attore possa far suonare il suo corpo come uno strumento complesso. La Cortellesi ha un talento spaventoso, può fare quasi tutto quello che vuole: cantare, ballare, commuovere, far ridere» (C. Mazzacurati, in G. Pignatelli, E. Lucherini, “Ciak” n. 8, agosto 2003).
«Mazzacurati voleva raccontare questa storia e nella storia c'era questo personaggio che volevo fare da anni, una specie di piccolo malavitoso da bar milanese, che vive al di sopra delle sue possibilità e usa la vita come una slot-machine, un po' figlio delle canzoni di Gaber o Jannacci e dei racconti di Beppe Viola, che amo molto» (F. Bentivoglio, “Ciak” n. 11, novembre 2002).
“Una signora cinese [...] mi diceva sempre che bisogna imparare a trasformare la paura in coraggio, l'energia negativa in forza buona. Lei diceva che [...] tutto questo si chiama cavalcare la tigre”. Così inizia A cavallo della tigre, con le parole di Deborah, figlia di Antonella, che, citando una frase della colf cinese, inquadra la vicenda e l'ottica che sottende la narrazione. “Questa è la storia di Guido e di mamma e di come ebbero il coraggio di saltare ”, dirà la bambina, quasi in chiusura del film.
«A cavallo della tigre. Ciò che significa è Deborah, la bambina, a spiegarlo: in certi momenti – le ha rivelato una colf cinese – bisogna saper trasformare la paura in coraggio. Così faranno Guido e Antonella che, tallonati dalla polizia, debbono lanciarsi da una rupe per trovare un'improbabile, miracolosa salvezza. Una giusta salvezza, vorrei aggiungere, perché nella visione dell'autore il destino dei poveri diavoli accumula meriti dalle piccole azioni, da una dignità invisibile secondo la quale, spesso, il fallimento è lo specchio dell'onesta differenza degli ultimi […] L’Italia che traspare dal caos febbricitante nel quale si dibattono i suoi personaggi è un paese ormai illeggibile con il fin troppo usato filtro post-moderno; un paese che, smarrendo la propria memoria, inventa ogni giorno nuove e”sofisticate” forme di degrado. A cavallo della tigre si chiude nel clima di un'impossibile speranza, è vero, ma sembra evidente che il recupero è tutto interno alla “regola” fantastica e alla sua scanzonata funzione provocatoria. [...] Ecco infine l’apoteosi, cioè l'happening di un pauroso salto nel vuoto che provoca una surreale levitazione di oggetti, come se il cielo fosse una tela o lo spazio una scatola gigante dentro la quale vien meno la legge di gravità» (T. Masoni, “Cineforum” n. 1/421, gennaio 2003).
Guido, Antonella e Deborah si imbarcano per la Turchia, emigranti al contrario, per forza, seguendo le ultime parole di Fatih morente: “Vai, vai tu [...] Guido”. “Non abbiamo né soldi, né vestiti, ma non dobbiamo preoccuparci, adesso siamo di nuovo tutti e tre insieme” dice la bambina. “Ci hanno detto che, dove andiamo, [...] c'è una legge che dice che non possono metterli in prigione e riportarli in Italia se loro proprio non vogliono”. È ricostituita la situazione iniziale, l’equilibrio a tre che, forse, farà avverare le parole di Guido, poco prima della rapina: “e poi la ruota gira [...] è il calcolo delle probabilità, il calcolo dei grandi numeri, no? È matematica”. Perché, conclude Deborah, “certe volte si ha paura di tutto, ma basta fare un respiro profondo e passa”.
«Remake molto libero di un film bello e sfortunato girato da Comencini nel '61, A cavallo della tigre è un racconto ondivago, che incrocia alla rinfusa genere, tempi e stilemi, girando, vagando e deambulando quasi sempre a vuoto. Come critica a un “Paese senza”, il film è inerte e non colpisce, perfino Fabrizio Bentivoglio non sembra crederci granché e la Cortellesi ha poco da dire. È una specie di gita esistenziale in cui si mescolano gangster, film carcerario, un po' di sentimenti e l'epica virile del galeotto sepolto in mare». (M. Porro, “Corriere della Sera”, 9.11.2002).
«Mazzacurati non cerca di aggiornare i meccanismi narrativi della commedia all'italiana (come fanno con risultati interessanti Cristiana Comencini e Paolo Virzì). Piuttosto cerca di dare una risposta all'interrogativo dell'evaso Manfredi: ma chi ha detto che il mondo fuori dalla prigione sia meglio di quello dentro? Sono passato più di quarant'anni dal primo film e la risposta è, se possibile, ancora più cupa». (P. Mereghetti, “Io Donna”, 23.11.2002).
«A cavallo della tigre riporta sullo schermo i personaggi minori di Carlo Mazzacurati, i suoi perdenti sempre in fuga da Padova, come da Torino o da Genova, in cerca dell'amore, come di una casa o di una patria. Gli umili di Mazzacurati fuggono sempre per ritornare. La loro corsa è mossa da un desiderio che è il grande protagonista di questa storia come di quelle che l'hanno preceduta: la nostalgia. Si sono persi, un giorno, per caso, i suoi eroi senza conoscerne, forse, neanche le ragioni, ma sanno che per ritrovarsi devono ritornare alle radici, a quei sentimenti che più di altri permettono di sentire ancora di appartenere. Appartenere a una donna, a un uomo, a una patria, a una nazione, poco importa. II luogo a cui apparteniamo e dove solo siamo appagati non è necessariamente un luogo fisico o geografico; è il luogo in cui smettiamo di sentire freddo, in cui sentiamo di essere finalmente arrivati. […] Ed è bravo ancora una volta l'autore a raccontarci i cortocircuiti della mente, quelli generati dai grandi dolori e da cui troppo spesso dimentichiamo di riaverci, restando forse in attesa di un segnale o di una parola, che ce ne affranchi definitivamente. Allora gioca con le immagini e con la musica sempre più illuminata e illuminante di Ivano Fossati; i ricordi si mischiano, corrono avanti e ritornano indietro, per ricomporsi nella memoria del suo attore feticcio, Fabrizio Bentivoglio, che è tutt'altro che simulacro vuoto, pieno com'è della tristezza dei suoi illustri antenati, di cui ripropone il trucco e la maschera amara» (M. Gandolfi, “Film” n. 60, novembre-dicembre 2002).
«La fuga, principale topos del cinema di Carlo Mazzacurati, è simbolo di scoperta, di trauma e risveglio, d'apparente normalità alla quale si contrappone un'eccezionalità unica, proprio perché generata da una coscienza, da un'essenza liberata dall'insopportabile cappa della vita quotidiana. Persino il rapporto fra vittima (Guido) e carnefice (Faith, uno degli ergastolani che lo costringerà a scappare) mostra tutta la sua umanità, nata questa volta dal semplice ascolto. II visivo si trasforma a poco a poco nel sonoro, perde il suo presunto valore oggettivo per accarezzare quelle corde intrise di dolore e rancore che hanno bisogno di essere pizzicate. Attenzione, in A cavallo della tigre non ci troviamo di fronte ad un confetto rosa dal sapore dolciastro, ricco di buoni sentimenti e dalla morale fin troppo scontata. Il regista riesce ad elaborare una precisa commistione fra ciò che si vive, si potrebbe vivere e si vivrà, in un futuro da creare totalmente, partendo da quegli enormi massi dove siedono i due innamorati e la bambina, mentre fluttuano in un mare apparentemente calmo. Quella tappa non è un regalo è una conquista, è un imprecisato punto nello spazio-tempo che non è possibile individuare in nessuna carta geografica, troppo piccola perché lo contenga, troppo calcolata perché lo rappresenti. Lui è dentro, aldilà e oltre quel tiepido fotogramma che vuole raccontare, che ha bisogno di un appoggio. Non si trova nei soldi rubati, nella promessa d'eterno amore, in quel dente estratto con violenza e inconsapevole amicizia da Guido. È li e questo è sufficiente per catapultare i nostri personaggi dove è giusto che vadano, seguendo un istinto rigeneratore, un sorriso dal sapore di fiele» (D. Zanza, “Segnocinema” n. 119, gennaio-febbraio 2003).
«Con i due film gemelli La lingua del santo (2000) e A cavallo della tigre (2002), virando più esplicitamente verso la commedia dai toni picareschi e dalle conclusioni vagamente edificanti, Mazzacurati imprime uno scarto ai suoi attraversamenti paesaggistici del Nord Italia. Il pattern del film è sostanzialmente lo stesso: una coppia di spiantati che - costretta insieme dal caso e dalla sorte - attraversa a piedi la pianura carica di ferite post-industriali, di tralicci, di relitti arrugginiti, taglia i boschi sospesi nel tempo dei colli Euganei ma anche si ferma di fronte alla placida e rassicurante laguna o alle scogliere scoscese a picco sul mare, scoprendo sulla strada che il paesaggio protegge, nasconde, ingloba per poi restituire chi vi si è immerso alla propria realtà ma avendogli conferito maggiore consapevolezza. È questa infatti che consente a Guido (Fabrizio Bentivoglio) e Antonella (Paola Cortellesi) di saltare dalla scogliera […]. Lo sguardo di Mazzacurati su questi ultimi paesaggi del Nord diventa ancora più mobile, quasi incapace di fermarsi (anche grazie alla maggiore disponibilità di mezzi) in uno slittare con dolly e sky cam che resta comunque attento a coglierne l'identità profonda. Un paesaggio altrimenti relegato nella marginalità anonima del visibile cinematografico, si ammanta così di una patina rappresentativa che finisce per potenziare la sua specificità figurale spettacolarizzandola» (C. Borroni, “Quaderni del CSCI” n. 6, 2010).
http://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=903&stile=large
Tratto dall’omonimo film di Luigi Comencini girato nel 1961, A cavallo della tigre di Carlo Mazzacurati vuole essere a detta del regista “un atto d’amore per le persone semplici che vivono con difficoltà il nostro tempo”. Nonostante non si possa negare una certa attenzione affettuosa riservata dal regista ai suoi due protagonisti che altro non sono che dei diseredati dei nostri tempi, il film non comunica la stessa coerenza delle note di regia di Mazzacurati, il quale termina dicendo che gli sarebbe piaciuto imparare lo sguardo sulla realtà da Comencini. Questo purtroppo non avviene. In parte per il fatto che mentre Comencini si avvaleva della recitazione di Nino Manfredi (alla sua prima interpretazione drammatica), di Mario Adorf, Gian Maria Volonté e Valeria Moriconi, Mazzacurati ha Tuncel Kurtiz e Paola Cortellesi (un’ottima comica alle prese con un ruolo drammatico). L’unico che cerca in tutti i modi di tenere in piedi il film è il protagonista Fabrizio Bentivoglio coadiuvato da Roberto Citran. Il regista sembra però remargli contro già a partire dalla sceneggiatura in cui vediamo due evasi non notare che stanno pulendo il lunotto anteriore di un’auto della polizia penitenziaria. La Cortellesi, attualmente sugli schermi televisivi con Morandi, si impegna moltissimo nei primi piani ma appena la si vede a figura intera la sua vis comica prende il sopravvento con una serie di movimenti tanto stereotipi quanto superflui. Il tatuaggio del turco che si anima è quanto di più allucinante si possa immaginare insieme alle sue capacità di accendere lampadine come lo zio Fester della famiglia Addams. Oltre tutto il film viene aperto e chiuso da un personaggio che nella storia non ha alcuna rilevanza. A condire il tutto delle sovraimpressioni delle quali non si comprende la necessità. Se in passato la Rai produceva film come La strategia del ragno di Bernardo Bertolucci, oggi la Rai produce A cavallo della tigre di Carlo Mazzacurati che sarà nelle sale a partire dall’8 novembre.
Fabio Sajeva
http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=833
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Guido fa la guardia giurata a Milano, ha quarant'anni e quella sbruffoneria cialtrona che lo rende umanamente simpatico. Pieno di debiti, progetta una rapina nella quale coinvolge la sua compagna Antonella, più giovane di lui: il colpo va male ed egli finisce in carcere, ma non fa il nome della donna. Due anni e mezzo più tardi, quando gli manca poco per uscir di galera, viene obbligato a scappare da due ergastolani: Fatih, un settantenne di origine turca, ed Hamid, un marocchino di trent'anni. Una volta fuori di prigione, involatosi il più giovane degli evasi, Guido stringe una bella amicizia con l'anziano Fatih e decide di aiutarlo a fuggire in Turchia. Prende contatti con Antonella, che ha tutto il bottino: ma scopre che ella non possiede più un soldo, e vive inoltre con un'altra persona...
Rifacimento sui generis di una commedia tra le più nere e cattive che si ricordino, girata da Luigi Comencini nel ‘61, l'odierno “A cavallo della tigre” diluisce di molto i succhi acri dell'originale: il pur bravo Mazzacurati sceglie il registro ibrido - tra sentimentale ed ilare - già proprio del precedente “La lingua del santo”, con risultati che non graffiano né divertono. Truccato come il Giannini delle commedie wertmulleriane, Bentivoglio pare a disagio nei panni di un personaggio mal scritto e peggio definito; la Cortellesi funziona poco su grande schermo, e qui ne fornisce un'ulteriore riprova; Kurtiz è alle prese con il solito stereotipo dello slavo dal fondo buono. Tra battute fiacche e scontate ironie sulla televisione, ci si trascina stancamente verso un finale, per buona misura, malamente poetizzante: la commozione non scatta, com'è ovvio, e stridore s'assomma a stridore.
Francesco Troiano
http://www.italica.rai.it/scheda.php?scheda=cavallo
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Carlo Mazzacurati rifà un film di Comencini del 1961. E questa non è certamente una buona idea perché significa consegnarsi a un paragone diretto molto pericoloso: la qualità di "quel" cinema e di "quel" regista è troppo diversa dalla qualità di "questo" cinema e di "questo" regista". E' la storia di una guarda giurata, Guido (Bentivoglio), molle e senza impennate, ma con una bella fidanzata, che cerca di dare una svolta alla propria vita con un'impennata esagerata, una rapina. Viene preso e tradito dalla donna, in carcere conosce un vecchio marocchino buono e un turco violento. Fuggono tutti insieme. Guido vorrebbe raggiungere la Liguria per trovare l'ex complice. Tutto si complica e il fuggiasco dovrà anche prendersi cura del vecchio compagno di fuga. Una serie di luoghi comuni con qualche sprazzo che si deve a Bentivoglio, al quale il film sta davvero troppo stretto.
Pino Farinotti
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=34226
Il desiderio di un’altra vita in un film a corrente alternata. Bravissimo Bentivoglio
Carlo Mazzacurati è un finissimo osservatore dei cuori semplici e delle teste frastornate dai ritmi, dalle mitologie, dai disvalori del presente. Con il cosceneggiatore Franco Bernini ha guardato a una commedia agra, anomala e originale degli anni Sessanta diretta da Luigi Comencini (che porta lo stesso titolo) e l’ha adattata, l’ha passata al setaccio della sua sensibilità, della sua vocazione ad esplorare il desiderio, non programmato, accidentale, confuso per “un’altra vita”, e della sua attenzione per i paesaggi interiori ed esterni dei personaggi.
Come ne “La lingua del Santo”, il furto è il mezzo che giustifica l'uscita dalle disgrazie. Fabrizio Bentivoglio (in una delle migliori interpretazioni della sua carriera) è Guido, un uomo dai troppi debiti e dalle mani bucate sicuro, grazie al calcolo delle probabilità, di dimostrare ad Antonella (Paola Cortellesi) che, senza sapere come e quando, tutto cambierà. Una rapina fallita lo porterà in carcere e poi in fuga, nei giorni e nelle notti italiane, con un vecchio turco per campagne e città. Verso un altrove e un nuovo inizio. Visivamente ricco di suggestioni, il film è meno compatto e armonico di altri film del regista. Scossi da correnti alternate il copione e la messa in scena patiscono alcuni personaggi non modellati bene e alcuni nessi poco funzionali.
Enrico Magrelli
http://www.filmtv.it/film/24007/a-cavallo-della-tigre/
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