TITULO ORIGINAL La notte dei serpenti
AÑO 1969
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 108 min.
DIRECCION Giulio Petroni
GUION Fulvio Gicca, Enzo Gicca Palli y Giulio Petroni
FOTOGRAFIA Silvio Fraschetti y Mario Vulpiani
MUSICA Riz Ortolani
MONTAJE Antonietta Zita
REPARTO Luke Askew, Chelo Alonso, Giancarlo Badessi, Franco Balducci, William Bogart, Bruno Boschetti, Luciano Casamonica, Clara Colosimo, Magda Konopka, Monica Miguel, Paola Natale, Luigi Pistilli, Liliana Pavlovic, Benito Stefanelli, Franco Valobra
PRODUCCION Gianni Minervini para MADISON CINEMATOGRAFICA, ASCOT CINERAID
GENERO Western
SINOPSIS Un killer, ingaggiato per uccidere un bambino della cui eredità loschi figuri vogliono impadronirsi, conosce e impara ad amare la piccola vittima designata e ne diviene il protettore. Gli altri fanno una fine miseranda.
Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
Si bien el título más reconocido de Giulio Petroni es la estupenda De hombre a hombre, seguramente su mejor intento, el más consistente y original es este La notte dei serpenti. La historia abisal de un americano varado en un México estilizado y casi abstracto que es contratado, ya que no tiene nada que perder, para asesinar a un desconocido. Todo cambia cuando descubre que la víctima es un niño.
Un film atípico dentro del contexto del spaghetti-western, tanto por su entraña casi existencialista, como por aplicar sobre la historia y los personajes una mirada muy cercana a la de ciertos autores norteamericanos y a la propia tradición ficcional de un país que ve ese territorio fronterizo como una especie de puerta al infierno, un camino de autodestrucción y/o de redención. Así, el tortuoso personaje inmejorablemente interpretado por el gran característico Luke Askew en su única aparición en el western all’italiana anticipa en su cualidad terminal de hombre “bajo el volcán” al desesperado definitivo que Sam Peckinpah y Warren Oates pusieron más o menos en pie en la insuperable obra maestra suicida de 1974, ¡Quiero la cabeza de Alfredo García!. Alcoholizado y moralmente finiquitado por el peso de la culpa (en unos horrorosos flashbacks que martillean al protagonista se muestra como este mató a su propio hijo en plena borrachera al disparar contra un vaso que el pequeño sostenía en la cabeza) el personaje de Askew encuentra una última oportunidad para hacerlo bien y así emprenderá un viaje interior que lo llevará a enfrentarse con sus antiguos compinches –espléndida su presentación siendo humillado por un trago de tequila y como el mismo se castigará teniendo siempre una botella cerca- y a las fuerzas vivas del pueblo, las serpientes del título, que pretenden hacerse con una herencia destinada al muchacho, un pobre huérfano protegido solo por la, bruja local (Magda “Satanik” Konopka). Nace entonces una asociación de outsiders contra lo establecido, representado finalmente en la propia ley corrupta, el policía que descubre el complot y pretende usarlo en su beneficio al que presta su torvo físico el imprescindible Luigi Pistili.
Visualmente menos elegante que De hombre a hombre, un tanto tocada por los vicios estéticos de la época, pero también mucho más libre de influencias leonenianas y conceptualmente mucho más densa. No olvida los necesarios apuntes sádicos (la tortura con un garrote vil), ni el sentido del humor y de la exageración tebeística siempre presente en el spaghetti-western y casi puede verse como variación italianizante sobre el clásico Raíces profundas (1953) de George Stevens. Más que curiosa en cualquier caso, con una fantástica banda sonora de Riz Ortolani (extraordinario el tema dedicado a Askew antes de su recuperación como hombre y el que subraya la misma) y una jugoso grupo de secundarios donde reluce como el vicio la racial Chelo Alonso, puta de mal corazón aquí e inolvidable fetiche erótico del peplum más despendolado y colorista.
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La notte dei serpenti rappresenta una tappa decisiva per il cinema di Petroni, non forse all’altezza di Da uomo a uomo e di Tepepa, ma utile per comprendere a pieno lo sforzo per tracciare un percorso personale (creando un segno) all’interno di un contesto, come quello dello “spaghetti western” – in quella fase – molto affollato.
Il giovane attore e cantante Luke Askew, interpreta un pistolero finito, in profonda crisi personale, sentendosi responsabile della morte del figlio, che viene assoldato da una banda di balordi, un sindaco, un oste, una prostituta e un sagrestano, per uccidere un orfano che sta per ereditare diecimila dollari.
Il killer inizialmente si prepara a ritornare sulla scena, riprendendo a sparare, riacquistando una forma fisica e una fiducia in sé ormai distrutte, per essere all’altezza della situazione.
Arrivato nel luogo dell’omicidio, scopre con orrore che la vittima predestinata è un bambino, risvegliandogli l’incubo del figlio morto per una sua bravata in un saloon.
Decide allora di non mettersi più a servizio del crimine e dell’avidità, ma di schierarsi con i più deboli ed indifesi, aiutando il bambino e la donna che lo accudisce a salvarsi dalle grinfie della banda.
Torna ancora una volta in Petroni, il tema subdolo e lacerante della vendetta postuma, del riscatto sociale ed umano che origina dal “pareggiare i conti”, dal “fare ciò che si doveva fare tanto tempo fa”, nel rimettere a posto le cose a modo proprio, senza sbagli né errori. Una sorta di ridefinizione del passato attraverso il presente, che è tipica in tutta l’epopea western, presente ad esempio in molti film di Sergio Leone, da Per un pugno di dollari e Per qualche dollaro in più a C’era una volta il west e per certi aspetti più interiori e psicologici in Giù la testa.
Se la violenza serve ad “entrar dentro le cose” in un mondo dominato dal più forte (o meglio, da chi si adatta meglio all’ambiente), l’uso smodato della violenza è l’unico mezzo per far trionfare la giustizia e portare a termine la tanto agognata vendetta.
Una vendetta – che come dimostra benissimo Tarantino – è anche e soprattutto contro di sé, un processo autocritico che investe innanzitutto il protagonista alle prese con i suoi incubi, con le sue lacerazioni e contraddizioni, dai ricordi e dalle ombre che circondano il suo passato (basti pensare al bandito messicano Ramon in Per qualche dollaro in più) e solo successivamente i suoi avversari, che anzi spesso, sembrano inspiegabilmente dispensati da ogni concreta responsabilità personale nei loro delitti, riflettendo una sorta di indifferenza coscienziale, rappresentando con ciò un irrimediabile male assoluto da estirpare a qualunque costo e con qualsiasi mezzo.
La complessa ed intricata trama riesce – in radi momenti – a tenere insieme azione e dramma, teoria visiva e prassi tecnica, ma ciò non la esime da risultare tronca, e come asseriva lo stesso Petroni, profondamente incompleta ed impersonale.
A voler entrare nel dettaglio, ci sembra che Petroni ceda troppo facilmente al fascino un po’ ingenuo e familiare dei ritmi classici della commedia dell’arte. Non la elabora progressivamente, andando al di là dei suoi stilemi tradizionali, declinando con ciò maschere e non personaggi attivi che concretizzino la loro messa in scena. Con la stessa inconsapevolezza, in Petroni agisce una sorta di necessaria ridefinizione classicistica del Western, un senso di razionalità narrativa nel definire compiutamente l’essenza radicale ed ineluttabile del linguaggio western. Mentre Leone si apre al western, Petroni ha bisogno di chiudersi nel western, per la paura che gli possa sfuggire di mano, nel non riuscire a fissare in tempo le sue tipiche caratterizzazioni, che lo fanno essere sempre riconoscibile agli occhi del pubblico.
Ed è precisamente da questa necessaria cristallizzazione caratteriale del mondo western, che deriva la sua stasi filmica. Una stasi – a dire il vero – che registra qualche momento di dinamismo, che nasce anzi da qualche istante dinamico, rimanendo però sempre e comunque immobilità riproduttiva, esigenza prettamente interiore di registrazione di un dato, di un evento, di un fatto, oltre che schiavitù simbolica nei confronti di una cifra, di uno stile, di una maniera condivisa ormai accettata e fatta propria, più che profonda ed onnicomprensiva riqualificazione tecnico-narrativa di un universo vitale.
Leone parte da una precisa e riconosciuta iconografia per sviluppare una personale lettura critica del western, tentando di elaborare delle tendenze originali, attraverso la formulazione collettiva di uno sguardo totalizzante e penetrante del mondo della frontiera (lontano dal mito astratto e meramente cinematografico dell’epopea), come mezzo (che non diventa mai fine) per riflettere sulle contraddizioni della società contemporanea.
Petroni viceversa non riesce in questo intento, proprio perché lotta (soprattutto contro se stesso) per affermare – cristallizzando – l’istituzione formale del western, non partendo dall’essere ma dal dover-essere del western, proponendone una visione metafisica, come se fosse una leggenda inviluppata, puramente circolare, succube senz’appello dei suoi miti, incapace ad offrirsi alla complessità del mondo, ridotta alle stigmatizzazioni attraverso cui si diffonde ideologicamente tra le masse, chiusa nelle sue generiche caratterizzazioni, nella sia auto-commiserazione estetico-comunicativa, delineando un western pour western, inabile a rappresentare un audace trampolino di lancio per alzare lo sguardo sul mondo.
Un western dunque “genuino”, tecnicamente assoluto (cioè privo di direzioni e sviluppi), puro nella sua radicale a-temporalità e a-storicità, avulso dal divenire dialettico degli eventi, appiattito più sulle sue esigenze sensoriali (e falsamente erotiche) che nell’elaborazione razionale di un vocabolario all’altezza dei tempi.
Claudio Vettraino
Producción italiana de 1969 filmada por Giulio Petroni, un director no tan conocido como Sergio Sollima o Sergio Corbucci ni con la reputación de éstos, y para mí a la altura del primero e, incluso, por encima del segundo. En su corta filmografía, apenas quince títulos, mostró predilección por el western, rodando cinco entre 1967 y 1972 que se caracterizaron (su último spaghetti “Ya le llaman Providencia” no lo he visto pero por lo que he leído es una comedia que según parece no merece mucho la pena) por su tono melancólico y por dar mayor importancia a los personajes (en sus westerns se lleva a cabo un estudio sobre la naturaleza humana) y a las relaciones entre ellos que a la acción mecánica. Así, sus cuatro spaghettis se van articular en torno a la estrecha relación, a cuyo nacimiento y evolución asistiremos, entre dos personajes: en “De hombre a hombre” (1967) los personajes interpretados por Lee Van Cleef y John Philip Law establecerán una relación maestro-alumno que se tornará paterno-filial; en “Por techo las estrellas” (1968) nos encontramos con la relación “profesional” y afectiva de dos pícaros con caracteres opuestos que ni tan siquiera tienen un hogar, de ahí el poético título, unidos con el objeto de poder subsistir; en “Tepepa” (1969) el revolucionario mejicano al que daba vida Tomas Milian y el doctor inmerso en la revolución aparecen vinculados por un hecho luctuoso del pasado que condicionará su presente a pesar del creciente respeto e, incluso, admiración del segundo por el primero; mientras que en el filme que nos ocupa el alcoholizado pistolero se convertirá en el protector y, por momentos, improvisado padre del niño al que, en principio, debía matar.
Película, esta última, extraordinaria, y cuyo guión fue escrito por el propio Petroni juntoa Lorenzo y Fulvio Gicca Palli, que creo confirma al primero como uno de los directores más interesantes de este subgénero tanto por lo que cuenta como por la forma de contarlo.
SINOPSIS: Luke, un alcoholizado pistolero que malvive junto a la banda de Pancaldo, es contratado para acabar con un individuo. Al acudir a la cita comprueba que la persona a asesinar es en realidad un niño y que él se convertiría posteriormente en el chivo expiatorio. A partir de ese momento pasará a ser el defensor del niño e intentará averiguar el porqué del encargo y quiénes están detrás de él, en un proceso que supondrá su rehabilitación física y moral.
El largometraje, cuya línea argumental sería retomada por Lucio Fulci en la recientemente comentada “Montura de plata” (1978), pivota en torno a varios temas relacionados con la condición humana:
En primer lugar nos encontramos con una historia, que hunde sus raíces en la moral cristiana, sobre el pecado, la culpa y la redención puesto que el protagonista es un individuo destrozado por haber matado accidentalmente a su hijo, cuyo único refugio y consuelo lo constituye el alcohol y que verá la posibilidad de exorcizar sus demonios y expiar sus culpas ayudando al niño y enfrentándose contra aquéllos que lo quieren ver muerto.
La segunda cuestión planteada es el de la codicia del ser humano, ya que el complot para asesinar a Manuel tiene por objeto adueñarse de su herencia consistente en 10.000 dólares. Además este tema le sirve a Petroni para llevar a cabo una crítica de la sociedad puesto que, conociendo su compromiso social y su condición de miembro del partido comunista italiano, no creo que sea casualidad que los personajes implicados sean el dueño de una cantina (representante de la burguesía y, por tanto, del poder económico), el alcalde (representante del poder civil), el sacerdote (representante del poder religioso) y el teniente de policía (representante del poder militar, ya que forma parte de un cuerpo militarizado) y a todos ellos, además, los iguala con la quinta implicada, una prostituta.
Además, nos presenta una sociedad en la que los militares ejercen su poder sobre el pueblo de forma despótica, casi absoluta, y sin ningún tipo de garantía, como lo prueba el hecho de que el teniente Hernández obligue al resto de los miembros del complot a seguir sus planes amenazándoles en caso contrario con la horca; así como, la escena en la que vemos a un campesino siendo azotado a la vista de sus vecinos en la plaza del pueblo o el plano en el cuartel en el que se lee la leyenda “Por la razón o por la fuerza”.
Por último tenemos un tercer asunto, la hipocresía. Así, nos retrata una sociedad profundamente falsa con escenas tan significativas como aquella en la que la mujer del alcalde llora falsamente su muerte cuando en otra anterior hemos conocido cuál era su verdadera relación o en la que el sacerdote pretende comprar, con el dinero robado de los cepillos, los servicios de Dolores, la prostituta, a la que en público increpa constantemente.
Pero, curiosamente, la mirada de Petroni hacia estos personajes abyectos es, salvo en el caso del teniente Hernández (un ser frío capaz de no detenerse ante nada para conseguir sus fines), en cierto modo piadosa, como si comprendiese sus debilidades, retratándolos como unos individuos patéticos y víctimas tanto de las circunstancias como de sus vicios. En este sentido son muy significativas distintas escenas como aquella en la que el alcalde intenta robarle a su mujer los 125 dólares necesarios para contratar al pistolero y evitar las amenazas de Hernández, la del cantinero intentando ahogar a Manuel en la que parece sufrir más que éste o la del sacerdote pretendiendo encamarse con Dolores.
Para encarnar a estos complejos personajes contó con un plantel de actores que desarrollaron su trabajo con gran eficacia. Luke Askew, un actor de carácter norteamericano al que hemos podido ver, para circunscribirnos sólo al ámbito del far-west, en la crepuscular “El más valiente entre mil” (Tom Gries, 1968) protagonizada por Charlton Heston, la para mí sobrevalorada “Sin ley ni esperanza” (Philip Kaufman, 1972) revisitación sobre la vida de los hermanos James y Younger, la innecesaria “El desafio de los siete magníficos” (1972) en la que cabalgó junto a Lee Van Cleef-Chris, la agónica “Pat Garret y Billy the Kidd (Sam Peckinpah, 1973) o la curiosa “Los justicieros del Oeste” dirigida e interpretada por Kirk Douglas en 1975, está estupendo en el rol del alcoholizado Luke, un personaje muy alejado del prototipo del pistolero spaghettero que, como le ocurría a Clay McCord en “Un minuto para rezar, un segundo para morir” (filme realizado un año antes y ya reseñado), se muestra como un individuo vulnerable; además de estar claramente influenciado por el personaje de Dude en la obra maestra de Howard Hawks “Rio Bravo” (1959), no sólo porque en los dos casos son seres que se han visto arrastrados a la bebida por un hecho ocurrido en el pasado, sino porque su presentación, en la que contemplamos su degradación moral, es muy similar: Dude, en una secuencia muda magistral no dudaba en recoger una moneda lanzada a una escupidera para pagarse un whisky, mientras que Luke se rebaja a limpiar las botas de un forajido para obtener su ración de tequila, en realidad orín; y porque en ambos casos su antiguo sombrero se convierte en símbolo de su rehabilitación. Nos encontramos, por tanto, ante un individuo profundamente herido, como señala Pancaldo a Hernández en el inicio del filme al comentarle que: “Tengo el hombre adecuado para ti. Lo suficientemente vivo como para matar a alguien y lo suficientemente muerto para que no le importe si le matan”; que, incluso, ha perdido su condición de hombre (el propio Pancaldo en esa misma escena vuelve a comentar refiriéndose a Luke: “Hace tiempo fue un gringo. Ahora no es mejor que un perro. Lo llamas con un silbido y camina con una patada”).
El habitual Luigi Pistilli, que ya había trabajado con Petroni en “De hombre a hombre” y en una de las mejores interpretaciones que le recuerdo, está sobresaliente, eclipsando al resto del notable reparto, como el teniente Hernández, un ser inmoral y corrupto que mantiene una especie de sociedad con Pancaldo, cuya única obsesión es hacerse con el dinero de la herencia caiga quien caiga.
Junto a ellos nos encontramos con un estupendo William Bogart, en realidad Gugliemo Spoletini, en el rol de Pancaldo, el típico revolucionario devenido en bandido con un peculiar sentido de la justicia. La ex bailarina cubana Chelo Alonso, inolvidable novia de Tomas Milian en la ya comentada “¡Corre Cuchillo, corre!”, perfecta, en su último papel para el cine, como la expansiva y descarada Dolores; mientras que el niño Luciano Casamonica, al igual que ocurría en la también comentada “Tepepa”, hace un gran trabajo en el papel de Manuel y Magda Konopka aporta su belleza a María, la bruja que ha recogido en su casa a aquél.
La película se redondea con la cuidada fotografía de Mario Vulpiani, una sobresaliente labor de ambientación y una gran y bellísima banda sonora de Riz Ortolani, en la que destaca un tema de corte clásico y melancólico e instrumentación minimalista, apenas se aprecia una guitarra acústica y algo de percusión, que me recordó a la canción principal compuesta por el gran Dimitri Tiomkin para “Solo ante el peligro”, con el que se identifica al protagonista y que se tornará más vivo con la utilización de guitarras eléctricas y una sección de vientos cuando éste se haya recuperado. También me parecieron muy adecuados uno de corte mejicano que orquesta las apariciones de Pancaldo y otro más propio de un filme de misterio o de terror que se escucha principalmente en la escena de atmósfera gótica en la que Luke llega por primera vez a casa de Manuel.
Por lo que respecta a los aspectos menos logrados, que para mí apenas empañan el resultado final, destacaría:
El abuso feista al recurso del zoom por parte de Petroni, en una película que, por lo demás, está impecablemente dirigida y a la que dota del ritmo pausado adecuado para la historia que cuenta. Pero ¡qué se le va a hacer si el dichoso zoom fue distintivo del spaghetti en particular y del cine realizado en esos años en general!
Los continuos, pesados y horrorosos flasbacks que, creo, proliferan en exceso durante la primera parte de la película.
La excesivamente rápida transformación del protagonista, aunque en caso contrario quizás se hubiese alargado en exceso el metraje.
El final un tanto forzado y contrario al tono sombrío y de profunda amargura del filme.
En definitiva un magnífico y profundo western que se aleja de la ligereza y la falta de connotaciones morales de la mayoría de las películas que constituyeron este subgénero, por lo que creo es de obligada visión para todo aficionado. Lástima que su adquisición sea realmente difícil.
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