TÍTULO ORIGINAL Il villaggio di cartone
AÑO 2011
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 87 min.
DIRECTOR Ermanno Olmi
GUIÓN Ermanno Olmi
MÚSICA Sofia Gubaidulina
FOTOGRAFÍA Fabio Olmi
REPARTO John Geroson, Rutger Hauer, Massimo De Francovich, Alessandro Haber, Souleymane Sow
PRODUCTORA Cinemaundici / Rai Cinema / Edison
GÉNERO Drama
SINOPSIS Un sacerdote (Michael Lonsdale) asiste impotente a la descongregación de su parroquia, cerrada para siempre al público. La misma tarde, un grupo de inmigrantes clandestinos se refugia en el establecimiento. El sacerdote decide concederles asilo y protegerlos lo mejor que puede. Totalmente dedicado a una nueva misión de solidaridad cristiana, el cura se entregará a los indigentes hasta el sacrificio supremo. Su vida, que reposaba hasta entonces en la palabra de Dios, toma una nueva dirección con el acto santo de la caridad. (FILMAFFINITY)
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Subtítulos (Español)
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Il villaggio di cartone - Incontro con il regista Ermanno Olmi
Non era ancora il tempo di lasciare il cinema per Ermanno Olmi che, dopo Centochiodi, aveva comunicato l’intenzione di non dirigere più film di finzione, per dedicarsi al documentario.
Nell’incontro di presentazione de Il villaggio di cartone, tenutosi a Roma, il regista ci ha spiegato perché fosse arrivato il momento per un’altra avventura, dietro la macchina da presa. Scritto con la collaborazione di due grandi amici, come il saggista Claudio Magris e monsignor Gianfranco Ravasi (Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura), e presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, il film uscirà venerdì 7 ottobre.
Tenace e sorridente, ancora desideroso di raccontare all’Italia la propria visione di questi nostri giorni, il regista bergamasco, quando parla di sé e del suo cinema, sembra sempre profondamente ispirato.
Il villaggio di cartone nasce da un’idea complessa, quanto ambiziosa, venuta al regista durante un periodo di forzata immobilità a letto.
“Precedentemente stavo pensando a un progetto itinerante, che fosse un viaggio lungo tutte le coste del mediterraneo e che mostrasse cosa resta delle nostre antiche civiltà. Credo che il cristianesimo sia la più grande ricchezza della nostra storia, lo diceva anche Indro Montanelli. Ho ritenuto ci fosse bisogno di trovare le nostre origini, quello che resta vivo e praticato della nostra antica cultura. Ho dovuto accantonare quell’idea, certo non potevo viaggiare, con il computer sulle ginocchia è il mondo che è entrato nella mia stanza. Un appuntamento tra culture diverse in un unico ambiente, quello del film”.
Ne Il villaggio di cartone, il “crocevia” che fa da teatro a questo incontro, è una piccola canonica, in un luogo senza nome, che, sotto gli occhi stanchi di chi la anima da anni, il vecchio parroco (interpretato da Michel Lonsdale), viene chiusa al culto, spogliata dei suoi elementi fondanti, svuotata di fedeli sempre meno partecipi. E’ questo l’approdo perfetto per “il nuovo grande esodo”, come lo definisce il regista: “l’esodo che viene dal sud del mondo, ma in senso più ampio, un esodo globale, che sarà la premessa per una nuova era.”
Nella chiesa abbandonata infatti, si stabilisce un gruppo di profughi africani, composto da personaggi profondamente diversi l’un dall’altro, che danno vita al controcanto spirituale e culturale su cui si basa il film. Da questo, nasce il confronto profondo tra diversi credi, quello auspicato dal regista, primo passo, purtroppo sempre rimandato, verso “l’abolizione di tutte le diverse chiese, religiose, laiche, e politiche che siano”.
Non avere chiesa vuole dire non avere protezione, significa essere soli, continua il regista: “ la solitudine è la tassa morale, il prezzo da pagare per la libertà. Anche il cinema di Roma è stato, a suo tempo e a suo modo, una chiesa” e ancora “Io non ero né comunista né democristiano, e le cose non erano affatto facili, si restava molto isolati”.
Il film è un apologo di forte impianto teatrale. “E’ ricco di simboli, come ogni racconto allegorico”, ci spiega pazientemente Olmi, “questo lo avrete sicuramente capito! La realtà è assolutamente scenografica, non c’è alcuna pretesa di realismo. Non è un film realistico, è un film con cui si cerca di comunicare la sublimazione di un’idea, e questo si ha da sempre con il simbolo”.
Centro del film è anche la solidarietà, quella che va oltre la carità, che è amicizia e annullamento delle differenze, della solitudine. E questo signore ottantenne, che ha ancora lo sguardo teso verso un futuro lontano, si augura l’arrivo di un cambiamento: “ La storia deve cambiare, prima che essa cambi noi, l’uomo ha disatteso i propri doveri verso il prossimo, non si può continuare così”.
Scegliere di raccontare categorie sociali principalmente disagiate, in tanti anni di cinema, è voler raccontare la realtà che si conosce meglio, l’agio non è mai stato familiare a Olmi. “Vengo da una famiglia di contadini, adesso sì, non nego la mia condizione privilegiata, ma con moderazione. La ricchezza esagerata, è un crimine, perché toglie risorse agli altri”.
Elisa Salvadori
http://www.comingsoon.it/News_Articoli/Interviste/Page/?Key=9202
Nell’incontro di presentazione de Il villaggio di cartone, tenutosi a Roma, il regista ci ha spiegato perché fosse arrivato il momento per un’altra avventura, dietro la macchina da presa. Scritto con la collaborazione di due grandi amici, come il saggista Claudio Magris e monsignor Gianfranco Ravasi (Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura), e presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, il film uscirà venerdì 7 ottobre.
Tenace e sorridente, ancora desideroso di raccontare all’Italia la propria visione di questi nostri giorni, il regista bergamasco, quando parla di sé e del suo cinema, sembra sempre profondamente ispirato.
Il villaggio di cartone nasce da un’idea complessa, quanto ambiziosa, venuta al regista durante un periodo di forzata immobilità a letto.
“Precedentemente stavo pensando a un progetto itinerante, che fosse un viaggio lungo tutte le coste del mediterraneo e che mostrasse cosa resta delle nostre antiche civiltà. Credo che il cristianesimo sia la più grande ricchezza della nostra storia, lo diceva anche Indro Montanelli. Ho ritenuto ci fosse bisogno di trovare le nostre origini, quello che resta vivo e praticato della nostra antica cultura. Ho dovuto accantonare quell’idea, certo non potevo viaggiare, con il computer sulle ginocchia è il mondo che è entrato nella mia stanza. Un appuntamento tra culture diverse in un unico ambiente, quello del film”.
Ne Il villaggio di cartone, il “crocevia” che fa da teatro a questo incontro, è una piccola canonica, in un luogo senza nome, che, sotto gli occhi stanchi di chi la anima da anni, il vecchio parroco (interpretato da Michel Lonsdale), viene chiusa al culto, spogliata dei suoi elementi fondanti, svuotata di fedeli sempre meno partecipi. E’ questo l’approdo perfetto per “il nuovo grande esodo”, come lo definisce il regista: “l’esodo che viene dal sud del mondo, ma in senso più ampio, un esodo globale, che sarà la premessa per una nuova era.”
Nella chiesa abbandonata infatti, si stabilisce un gruppo di profughi africani, composto da personaggi profondamente diversi l’un dall’altro, che danno vita al controcanto spirituale e culturale su cui si basa il film. Da questo, nasce il confronto profondo tra diversi credi, quello auspicato dal regista, primo passo, purtroppo sempre rimandato, verso “l’abolizione di tutte le diverse chiese, religiose, laiche, e politiche che siano”.
Non avere chiesa vuole dire non avere protezione, significa essere soli, continua il regista: “ la solitudine è la tassa morale, il prezzo da pagare per la libertà. Anche il cinema di Roma è stato, a suo tempo e a suo modo, una chiesa” e ancora “Io non ero né comunista né democristiano, e le cose non erano affatto facili, si restava molto isolati”.
Il film è un apologo di forte impianto teatrale. “E’ ricco di simboli, come ogni racconto allegorico”, ci spiega pazientemente Olmi, “questo lo avrete sicuramente capito! La realtà è assolutamente scenografica, non c’è alcuna pretesa di realismo. Non è un film realistico, è un film con cui si cerca di comunicare la sublimazione di un’idea, e questo si ha da sempre con il simbolo”.
Centro del film è anche la solidarietà, quella che va oltre la carità, che è amicizia e annullamento delle differenze, della solitudine. E questo signore ottantenne, che ha ancora lo sguardo teso verso un futuro lontano, si augura l’arrivo di un cambiamento: “ La storia deve cambiare, prima che essa cambi noi, l’uomo ha disatteso i propri doveri verso il prossimo, non si può continuare così”.
Scegliere di raccontare categorie sociali principalmente disagiate, in tanti anni di cinema, è voler raccontare la realtà che si conosce meglio, l’agio non è mai stato familiare a Olmi. “Vengo da una famiglia di contadini, adesso sì, non nego la mia condizione privilegiata, ma con moderazione. La ricchezza esagerata, è un crimine, perché toglie risorse agli altri”.
Elisa Salvadori
http://www.comingsoon.it/News_Articoli/Interviste/Page/?Key=9202
La prova d'orchestra di Ermanno
Dramma dedicato al tema dell'immigrazione, che vede protagonista un prete a contatto con gli immigrati clandestini.
Dramma dedicato al tema dell'immigrazione, che vede protagonista un prete a contatto con gli immigrati clandestini.
Nel rifiuto del realismo e nell’assunzione del linguaggio dei simboli che caratterizza l’ultimo cinema di Ermanno Olmi - e che probabilmente ne Il villaggio di cartone trova il suo punto di arrivo - non c’è semplicemente la deviazione di un percorso stilistico o, peggio ancora, il distacco dello sguardo del regista bergamasco da ciò che lo circonda. Tutt’altro. C’è anzi la prova di una vocazione e la testimonianza di un’impossibilità. La vocazione di un autore che vuole continuare a parlare del reale, ma che non può più farlo utilizzando una forma diretta di rappresentazione come è appunto il realismo. Il ricorso a un simbolismo didascalico dunque, più che mutare l’atteggiamento di Olmi nei confronti della Realtà, lo muta nei confronti della sua rappresentazione. Dicendoci anche molto sulla sua rappresentabilità nell’Italia contemporanea. Facendo trapelare, tra le righe, che la rappresentazione del Reale non è più possibile direttamente, che bisogna mediarla, trasfigurarla nel simbolo. Almeno non ora e non (più) qui. Il villaggio di cartone insomma è contemporaneamente l’affermazione di una necessità (quella dell’autore che vuole continuare a esprimersi, nonostante tutto) e la verifica di una sconfitta (quella del linguaggio del reale). Un film il cui merito più grande, sovrarappresentativo, sta nell’esprimere i disagi estetici – oltre quelli etici - dell’Italia di oggi.
Tutta la vicenda si svolge in un unico ambiente, lo spazio chiuso di una chiesa in via di dismissione da cui la macchina da presa non esce mai. Uno spazio impermeabile alle sollecitazioni dell’esterno, accogliente, e che dunque non diventa mai claustrofobico. Qui la vicenda di un anziano sacerdote e del suo sacrestano s’incrocia con quella di un gruppo di extracomunitari africani in fuga, che trova rifugio nella chiesa dismessa di cui l’uomo è stato parroco. Un gruppo di clandestini disperati e braccati, che in questo spazio diventano semplicemente ospiti, come sottolinea il vecchio prete. Prima di ricordare come “proprio quando la carità è a rischio, quello è il momento della carità”. È così che viene loro concesso di ripararsi dalla aggressioni dell’esterno, permettendogli di costruire all’interno della chiesa un piccolo “villaggio”, realizzato sbrigativamente con vecchi cartelloni e drappi consumati, prima che un’irruzione della polizia lo abbatta definitivamente. Due storie che s’incrociano dunque, ma che sono fatalmente destinate a dividersi ancora. E uno spazio che si arricchisce di nuova luce, che si rinnova, che si pone in antitesi al mondo esterno da cui arrivano solo aggressioni. Quella de Il villaggio di cartone è una storia semplice da raccontare. Una storia antica.
Forse per questo tutto sembra costruito come un apologo in cui a ogni simbolo non può che succederne un altro. Un crocifisso tirato via dal braccio meccanico di una ruspa, la chiesa dismessa come rifugio, i muri denudati dagli orpelli che riprendono Vita, una donna con bambino alla maniera di Giovanni Bellini o di Antonello da Messina, la delazione di un novello Giuda, l’irruzione della polizia come gli emissari di Erode. Al di là dei riferimenti biblici più o meno espliciti (narrativi e iconografici), quella de Il villaggio di cartone è però la storia di un incontro. Non tanto (e non solo) quello tra culture e religioni diverse, quanto quello tra le persone e la loro indecifrabilità, che è poi la bellezza dell’esistenza, il suo intimo segreto (come ricorda l’anziano sacerdote “Il segreto del Mondo è la persona umana”). Una riflessione su ciò che è (diventata) l’Italia di oggi attraverso una proposta universale, senza tempo. Che faccia riemergere l’antica radice della carità, che rinnovi una dimensione sacrale disfatta, che sia capace di andare oltre la Fede. Perché “per fare il bene non serve la fede. Il Bene è più della fede”.
Tutto ciò potrebbe apparire come una statica operazione senile, se non fosse che sono proprie le scelte di messinscena operate da Olmi a dinamizzare il discorso. Al quale è funzionale la tensione dialettica tra lo spazio della rappresentazione e il fuori campo, tra l’immagine il suono. Il rapporto tra l’interno e l’esterno infatti è sempre allusivo: i suoni che penetrano nello spazio sono quelle delle sirene, degli spari, delle esplosioni; le (uniche) immagini quelle di una barca naufragata trasmesse dalla tv oppure quelle delle torce o dei fari dei cellulari della polizia che assediano la chiesa. Una costruzione che ricorda, mutatis mutandis, quella del Fellini di Prova d’orchestra. Laddove però la pellicola del 1979 era una “sonorità senza sacralità” (De Vincenti), quella del regista bergamasco diventa una sonorità che genera sacralità, che fa riemergere l’antica concezione del “sacro”, proprio a cominciare dal recupero della sua etimologia.
Unico titolo italiano presentato nella selezione ufficiale di Venezia 68 capace di ergersi sopra l’aurea mediocritas della produzione nostrana, Il villaggio di cartone è il film di un grande vecchio. Di uno straordinario “direttore d’orchestra” che non vuole arrendersi, che vuole continuare a esprimersi con il linguaggio che sa utilizzare al meglio: quello delle immagini e dei suoni. Consapevole che, come recita il cartello che chiude il film, “O noi cambiamo il corso impresso dalla Storia, o sarà la Storia a cambiare noi”. Consapevole che, proprio per questo motivo, l’orchestra deve continuare a provare, trovare nuove armonie. E coprire così le sonorità disturbanti. Lasciandole fuori.
Francesco Crispino (Venezia, 10-09-2011)
http://www.cineclandestino.it/articolo.asp?sez=21&art=8107
Francesco Crispino (Venezia, 10-09-2011)
http://www.cineclandestino.it/articolo.asp?sez=21&art=8107
Parece que los enlaces de esta pelicula estan mal.
ResponderEliminarPor otra parte, gracias por proporcionarnos tanto cine y tan bueno.
sí, dan problema... no podrías subirlos a rapidshare?
ResponderEliminarAmarcord: no funcionan los links de esta peli y de Morte al lavoro, todos colocados en www.12zippyshare. Saludos
ResponderEliminarUps me quede a la mitad, pero pinta extraordinaria, espero que la puedan resubir, me quede a la mitad, y gracias por seguir con su pagina
ResponderEliminarEstoy tratando de averiguar que pasó.
ResponderEliminarLos links figuran activos en Zippyshare.
...veremos...
Cierto, yo tampoco pude subirla, aprovecho para agradecerle por tan buenas películas.
ResponderEliminar1/7
ResponderEliminarHo scaricato i primi 6 file il giorno che li hai pubblicati, ma dopo
ogni mio tentativo di terminare e´stato inutile. Colgo l´occasione per farti i complimenti per questo tuo splendido blog che ho scoperto per caso e che ha superato tutte le mie aspettative.
I links sono tornati a funzionare
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