TITULO ORIGINAL La Morte al Lavoro
AÑO 1978
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 83 min.
DIRECCION Gianni Amelio
ARGUMENTO del cuento "Il ragno" de Hanns H. Ewers
GUION Gianni Amelio, Mimmo Rafele
FOTOGRAFIA Angelo Sciarra
MUSICA Bernard Herrmann
ESCENOGRAFIA Nicola Rubertelli
REPARTO Federico Pacifici (Alex), Eva Axen (Eva), Giovannella Grifeo (l'amica di Alex), Fausta Avelli (la bambina), Clara Colosimo (la custode). Produzione: RaiTv/Rete 2.
GENERO Drama
SINOPSIS Appena trasferitosi nell'appartamento lasciato libero da un attore morto suicida, Alex si trova sempre più coinvolto nell'atmosfera fantasmatica del luogo. L'ambiente è ancora zeppo di ricordi del precedente inquilino - oggetti teatrali, manifesti di film e di divi del passato - e il giovane riceve strane telefonate notturne. Poco alla volta esclude dalla sua vita la fidanzata, per instaurare un rapporto muto, a distanza, con una ragazza che abita in un appartamento al di là della strada. Trovati in un armadio a muro degli abiti e una pistola appartenuti all'attore, Alex giunge all'ultimo atto. Indossa i vestiti e finisce coll'uccidersi con l'arma da fuoco, non si sa fino a che punto consapevolmente.
Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
http://www42.zippyshare.com/v/54076221/file.html
http://www42.zippyshare.com/v/54076221/file.html
TRAMA
Un giovane si trasferisce in un appartamento dove un attore si è appena suicidato. C'è una stanza i cui armadi sono pieni di oggetti teatrali, di manifesti di vecchi film. Una bambina lo spia e nella casa di fronte una ragazza lo ossessiona. Lentamente l'atmosfera della casa sfuma nell'irrealtà: il giovane indossa gli abiti e il ruolo del precedente inquilino e si uccide. Prodotto da RAI2 e liberamente tratto dal racconto Il ragno di Hans H. Ewers, il 4° film di G. Amelio ha, come il successivo Effetti speciali (1978) e il precedente Bertolucci secondo il cinema (1976), per tema il cinema, la memoria del cinema, la visione, il rapporto tra realtà e finzione, il rifiuto della vita e il rifugio nella finzione. Titolo tolto da una frase di Jean Cocteau ("Il cinema è la morte al lavoro sugli attori"). Un esercizio di stile un po' asfittico che rischia di annegare nella propria cinefilia. Premio Fipresci a Locarno e 2 premi a Hyères 1978.
http://cinema-tv.corriere.it/film/la-morte-al-lavoro/01_54_78.shtml
http://cinema-tv.corriere.it/film/la-morte-al-lavoro/01_54_78.shtml
---
Il fascino di una storia e più che altro di un’atmosfera misteriosa, non si sa dove ci porta e dove il nostro pensiero approderà, perché il fascino consiste anche proprio in un finale non definito, concretamente. Tratto da una racconto di Hanns H. Ewers “Il ragno”, e da una serie che si basava su storie sul mondo dello spettacolo, Amelio sceneggia liberamente con Mimmo Farese , in formato film tv. Qui nelle riprese siamo dalle parti dello sceneggiato, l’ambientazione e la stessa recitazione ci porta da quelle parti. Tutto si svolge in un interno e con il ritrovamento da parte del protagonista di fotografie riguardanti i miti del cinema; l’apprendimento casuale, e negato, da parte della portinaia, della morte di un giovane attore, precedente ospite nell’appartamento, non fa effetto al nostro protagonista, che viene in possesso di cose appartenenti a lui, fra cui, appunto una ricchissima collezione di attori miti di ieri. E’ evidente il fatto significativo, e cioè che un attore vive dei suoi ruoli e dei suo miti, la sua vita è legata in stretto contatto con un mondo di fantasia in cui si annulla, con il rifiuto ben definito della realtà che sempre di più viene trascurata. Coinvolgente e conturbante l’immagine che appare alla finestra, che volontariamente rimarrà sempre distaccata e che il protagonista non riuscirà mai a toccare realmente, anche se la comunicazione senza parole sarà sempre chiara. L’immagine della finestra farà parte tanto del suo vivere, da coinvolgerlo in maniera drammatica, ma volontariamente accettata; l’attore vive dei suoi ruoli in maniera veritiera, e chi andrà a verificare chi c’è dentro la stanza, dove appariva nella finestra di fronte l’immagine che affascinava il giovane, non troverà che una scena spoglia, tipo un teatro di posa.
http://cinerepublic.film.tv.it/la-morte-al-lavoro-recensione-di-emmepi8/5890/
http://cinerepublic.film.tv.it/la-morte-al-lavoro-recensione-di-emmepi8/5890/
---
Il regista italiano Gianni Amelio nasce il 20 gennaio 1945 a San Pietro Magisano, in provincia di Catanzaro. Nel 1945 il padre lascia la famiglia poco dopo la sua nascita per trasferirsi in Argentina in cerca del proprio padre che non ha dato più notizie di sé. Gianni cresce con la nonna materna che curerà la sua educazione. Fin da giovane Amelio è un cinefilo, grande amante del cinema, fa parte di un mondo proletario, contraddistinto dalla necessità di lavorare per vivere, e questa sua umiltà ricorrerà spesso nei suoi film.
Frequenta prima il Centro Sperimentale poi consegue la laurea in Filosofia all'Università di Messina. Durante gli anni '60 lavora come operatore e poi come aiuto regista. Muove i primi passi come assistente di Vittorio De Seta nel film "Un uomo a metà" e per molto tempo ha continuato questa attività. Altre pellicole in cui partecipa sono quelle di Gianni Puccini ("Ballata da un miliardo", "Dove si spara di più", "I sette fratelli Cervi").
Gianni Amelio poi inizia a lavorare autonomamente per la televisione, a cui dedicherà gran parte della sua carriera. Debutta dietro la macchina da presa nel 1970 con "La fine del gioco", realizzato nell'ambito dei programmi sperimentali della RAI: è l'esercizio di un giovane autore che scopre la macchina da presa, dove il protagonista della pellicola è un bambino rinchiuso in un collegio.
Nel 1973 realizza "La città del sole", curiosa ed elaborata divagazione su Tommaso Campanella che ottiene il gran premio al Festival di Thonon dell'anno successivo. Tre anni dopo segue "Bertolucci secondo il cinema" (1976), un documentario sulla lavorazione di "Novecento".
Vengono poi l'atipico giallo - girato con telecamera, su ampex - "La morte al lavoro" (1978), vincitore del premio Fipresci al Festival di Locarno. Sempre nel 1978 Amelio realizza "Effetti speciali", originale thriller che vede protagonisti un anziano regista di film dell'orrore ed un giovane cinefilo.
Nel 1979 è la volta de "Il piccolo Archimede", suggestivo adattamento dell'omonimo romanzo di Aldous Huxley che frutta a Laura Betti il riconoscimento di miglior attrice al Festival di San Sebastian.
Poi nel 1983 arriva il primo lungometraggio per il cinema, che sarà anche il più importante dell'intera carriera del regista: si tratta di "Colpire al cuore" (con Laura Morante), un film sul terrorismo. Il periodo, l'inizio degli anni 80, è contraddistinto ancora dal vivo ricordo dei cosiddetti "anni di piombo". La capacità principale di Amelio è quella di non dare giudizi morali sulla vicenda, ma spostarla in un conflitto intimo, tra padre e figlio, riuscendo a mostrare le due anime in modo originale e per nulla retorico. Nota dominante delle opere di Amelio è proprio il rapporto adulto-bambino, affrontato in tutte le sue sfaccettature, mentre sono assenti le storie d'amore. Presentato alla Mostra di Venezia, il film riscuote ampi consensi sul fronte della critica.
Nel 1989 ottiene un nuovo successo di critica con "I ragazzi di via Panisperna", dove vengono raccontate le vicende del famoso gruppo di fisici capitanato, negli anni '30, da Fermi e Amaldi. Un anno dopo, ancor più riuscito risulta "Porte aperte" (1990, sulla pena di morte, dall'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia), che procura a Gianni Amelio una meritata nomination all'Oscar.
Le pellicole successive sono "Il ladro di bambini" (1992, storia del viaggio di un carabiniere che accompagna due fratellini destinati a un orfanotrofio), vincitore del gran premio speciale della giuria al Festival di Cannes, "Lamerica" (1994, con Michele Placido, sul miraggio italiano del popolo albanese), "Così ridevano" (1998, sulla difficile realtà dell'emigrazione, nella Torino Anni '50, analizzata attraverso il rapporto di due fratelli), vincitore di un Leone d'oro alla Mostra di Venezia, e consacrano Amelio a livello internazionale.
Il 2004 segna il ritorno di Amelio come regista e sceneggiatore con "Le chiavi di casa", liberamente ispirato al romanzo "Nati due volte" di Giuseppe Pontiggia. Il film, interpretato da Kim Rossi Stuart e Charlotte Rampling, è tra i protagonisti della 61ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia, alla quale Amelio concorre per il Leone d'Oro.
http://old.sipario.it/gianniamelio.htm
Frequenta prima il Centro Sperimentale poi consegue la laurea in Filosofia all'Università di Messina. Durante gli anni '60 lavora come operatore e poi come aiuto regista. Muove i primi passi come assistente di Vittorio De Seta nel film "Un uomo a metà" e per molto tempo ha continuato questa attività. Altre pellicole in cui partecipa sono quelle di Gianni Puccini ("Ballata da un miliardo", "Dove si spara di più", "I sette fratelli Cervi").
Gianni Amelio poi inizia a lavorare autonomamente per la televisione, a cui dedicherà gran parte della sua carriera. Debutta dietro la macchina da presa nel 1970 con "La fine del gioco", realizzato nell'ambito dei programmi sperimentali della RAI: è l'esercizio di un giovane autore che scopre la macchina da presa, dove il protagonista della pellicola è un bambino rinchiuso in un collegio.
Nel 1973 realizza "La città del sole", curiosa ed elaborata divagazione su Tommaso Campanella che ottiene il gran premio al Festival di Thonon dell'anno successivo. Tre anni dopo segue "Bertolucci secondo il cinema" (1976), un documentario sulla lavorazione di "Novecento".
Vengono poi l'atipico giallo - girato con telecamera, su ampex - "La morte al lavoro" (1978), vincitore del premio Fipresci al Festival di Locarno. Sempre nel 1978 Amelio realizza "Effetti speciali", originale thriller che vede protagonisti un anziano regista di film dell'orrore ed un giovane cinefilo.
Nel 1979 è la volta de "Il piccolo Archimede", suggestivo adattamento dell'omonimo romanzo di Aldous Huxley che frutta a Laura Betti il riconoscimento di miglior attrice al Festival di San Sebastian.
Poi nel 1983 arriva il primo lungometraggio per il cinema, che sarà anche il più importante dell'intera carriera del regista: si tratta di "Colpire al cuore" (con Laura Morante), un film sul terrorismo. Il periodo, l'inizio degli anni 80, è contraddistinto ancora dal vivo ricordo dei cosiddetti "anni di piombo". La capacità principale di Amelio è quella di non dare giudizi morali sulla vicenda, ma spostarla in un conflitto intimo, tra padre e figlio, riuscendo a mostrare le due anime in modo originale e per nulla retorico. Nota dominante delle opere di Amelio è proprio il rapporto adulto-bambino, affrontato in tutte le sue sfaccettature, mentre sono assenti le storie d'amore. Presentato alla Mostra di Venezia, il film riscuote ampi consensi sul fronte della critica.
Nel 1989 ottiene un nuovo successo di critica con "I ragazzi di via Panisperna", dove vengono raccontate le vicende del famoso gruppo di fisici capitanato, negli anni '30, da Fermi e Amaldi. Un anno dopo, ancor più riuscito risulta "Porte aperte" (1990, sulla pena di morte, dall'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia), che procura a Gianni Amelio una meritata nomination all'Oscar.
Le pellicole successive sono "Il ladro di bambini" (1992, storia del viaggio di un carabiniere che accompagna due fratellini destinati a un orfanotrofio), vincitore del gran premio speciale della giuria al Festival di Cannes, "Lamerica" (1994, con Michele Placido, sul miraggio italiano del popolo albanese), "Così ridevano" (1998, sulla difficile realtà dell'emigrazione, nella Torino Anni '50, analizzata attraverso il rapporto di due fratelli), vincitore di un Leone d'oro alla Mostra di Venezia, e consacrano Amelio a livello internazionale.
Il 2004 segna il ritorno di Amelio come regista e sceneggiatore con "Le chiavi di casa", liberamente ispirato al romanzo "Nati due volte" di Giuseppe Pontiggia. Il film, interpretato da Kim Rossi Stuart e Charlotte Rampling, è tra i protagonisti della 61ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia, alla quale Amelio concorre per il Leone d'Oro.
http://old.sipario.it/gianniamelio.htm
ABBIAMO INCONTRATO IL REGISTA NELCORSO DI UN INCONTRO-DIBATTITO TENUTOSI MERCOLEDI’ 12 DICEMBRE 2001 PRESSO L’UNIVERSITA’ DELLA CALABRIA.
Domanda: Lei è uno dei registi italiani più importanti degli ultimi anni è il suo è sicuramente un cinema d’autore, ma ha dichiarato che non ama il "concetto di autorialità", cosa vuol dire oggi fare del cinema d’Autore?
Risposta: Il cinema d’autore, per me è il cinema dove c’è una persona che si prende la briga di portare la croce. Io porto sempre l’esempio del cireneo, il cireneo è un signore che è costretto a portare la croce al posto di Gesù Cristo, il cireneo non centrava nulla però viene incaricato d’ufficio di portare la croce, e lui senza fiatare si prende addosso questo peso e lo porta.
Io dico che per ogni cosa che facciamo soprattutto per un film, ci vuole qualcuno che porti la croce. La croce la porta colui che si prende la responsabilità delle scelte.
E allora possiamo dire che l’autore è Dreyer, l’autore è Murnau, l’autore è Ejzenstejn ecc. Invece può essere uno che porta la croce un po’ più disinvoltamente e allora può essere Corbucci, può essere Vanzina oppure se vogliamo stare sul cinema alto e nobile e benedetto da tutto e da tutti Spielberg, perché non è autore Spielberg o perché non è un autore Lucas? Non è un autore solamente Altman. Autori sono anche quelli che lavoravano nelle grandi majors americane quando essere autori era una bestemmia.
Oggi vuol dire che se tu ti prendi la responsabilità sei tu l’autore, se la dai a chi fa la fotografia è lui l’autore, se la dai a chi fa la produzione diventa l’autore, se la dai all’attore protagonista è lui l’autore. Se ti levi le responsabilità smetti di essere autore di quello che fai. Non è la qualità del lavoro che fa l’autore, in senso attuale, in senso moderno, perché noi passiamo parlare all’infinito d’autorialità ma poi si vedono in giro registi intellettuali che vanno sul set e non riescono a fare niente. Non bisogna essere intellettualmente aperti, preparati e poi non sapere svolgere fino in fondo il proprio ruolo oppure delegare altri. E perché deve essere negata l’autorialità a qualcuno che dice, io faccio un film di genere horror perché capisco l’horror e perché quello è il mezzo di comunicazione che mi appartiene e faccio un bellissimo film horror.
Perché noi siamo viziati da vecchi stereotipi per cui tutto ciò che è contaminato in qualche modo cessa di essere arte. Nel cinema soprattutto i confini dell’arte sono estremamente permeabili.
Il cinema è una cosa molto bastarda ,bastarda anche quando si tratta della passione di Giovanna D’arco, Dreyer per esempio quando deve dirigere la Dragonetti deve usare dei mezzi che pochissimo hanno a che fare con i massimi sistemi del nostro intelletto, magari le deve dare un sonoro ceffone per farla piangere.
Il cinema non si può fare in punta di forchetta, non si può fare sedendosi e pensando, al cinema bisogna pensare molto prima e poi dopo fare agire le viscere fare agire lo stomaco. Io dico sempre che la regia è la parte nascosta dell’iceberg, qualcosa che tu non vedi ad occhio nudo, quello che vedi ad occhio nudo sono le riprese di un film, nelle riprese di un film non si vede la regia. Tutti possono imparare la tecnica.
Il problema della regia è un altro, poi se tu vuoi diventare autore è un altro ancora.
Io dico che per ogni cosa che facciamo soprattutto per un film, ci vuole qualcuno che porti la croce. La croce la porta colui che si prende la responsabilità delle scelte.
E allora possiamo dire che l’autore è Dreyer, l’autore è Murnau, l’autore è Ejzenstejn ecc. Invece può essere uno che porta la croce un po’ più disinvoltamente e allora può essere Corbucci, può essere Vanzina oppure se vogliamo stare sul cinema alto e nobile e benedetto da tutto e da tutti Spielberg, perché non è autore Spielberg o perché non è un autore Lucas? Non è un autore solamente Altman. Autori sono anche quelli che lavoravano nelle grandi majors americane quando essere autori era una bestemmia.
Oggi vuol dire che se tu ti prendi la responsabilità sei tu l’autore, se la dai a chi fa la fotografia è lui l’autore, se la dai a chi fa la produzione diventa l’autore, se la dai all’attore protagonista è lui l’autore. Se ti levi le responsabilità smetti di essere autore di quello che fai. Non è la qualità del lavoro che fa l’autore, in senso attuale, in senso moderno, perché noi passiamo parlare all’infinito d’autorialità ma poi si vedono in giro registi intellettuali che vanno sul set e non riescono a fare niente. Non bisogna essere intellettualmente aperti, preparati e poi non sapere svolgere fino in fondo il proprio ruolo oppure delegare altri. E perché deve essere negata l’autorialità a qualcuno che dice, io faccio un film di genere horror perché capisco l’horror e perché quello è il mezzo di comunicazione che mi appartiene e faccio un bellissimo film horror.
Perché noi siamo viziati da vecchi stereotipi per cui tutto ciò che è contaminato in qualche modo cessa di essere arte. Nel cinema soprattutto i confini dell’arte sono estremamente permeabili.
Il cinema è una cosa molto bastarda ,bastarda anche quando si tratta della passione di Giovanna D’arco, Dreyer per esempio quando deve dirigere la Dragonetti deve usare dei mezzi che pochissimo hanno a che fare con i massimi sistemi del nostro intelletto, magari le deve dare un sonoro ceffone per farla piangere.
Il cinema non si può fare in punta di forchetta, non si può fare sedendosi e pensando, al cinema bisogna pensare molto prima e poi dopo fare agire le viscere fare agire lo stomaco. Io dico sempre che la regia è la parte nascosta dell’iceberg, qualcosa che tu non vedi ad occhio nudo, quello che vedi ad occhio nudo sono le riprese di un film, nelle riprese di un film non si vede la regia. Tutti possono imparare la tecnica.
Il problema della regia è un altro, poi se tu vuoi diventare autore è un altro ancora.
D. Nei suoi film si ritrovano elementi neorealisti, che rapporto ha Gianni Amelio con il Neorealismo?
R. Io credo di essere lontanissimo dal Neorealismo, non sta a me poi giudicare.
Io mi sento con il cuore vicinissimo, ma non mi sembra di dare gli stessi risultati e mi sembra anche di essere storicamente dentro un abito lontanissimo da quello che ha prodotto il Neorealismo. Ci sono delle cose forse a livello di sguardo e sicuramente a livello di contenuto in alcune cose che possono ricordare De Sica, per esempio in Ladro di Bambini; forse c’è in un film come Lamerica qualcosa di rosselliniano ma a livello che Rossellini cercava di essere nei posti dove avvenivano le cose, che era un fatto tipico suo. Però, magari io avessi la capacità di aggiornare lo sguardo neorealistico, che andrebbe aggiornato non per un fatto di moda, ma per un fatto di coscienza dell’oggi. Magari io avessi maturato realmente gli insegnamenti del Neorealismo da fare un cinema che conservasse, ma nello stesso tempo riproponesse altre forme. Più semplicemente quello che io credo che manchi a me e al mio cinema è la forza di novità e la forza di rottura che il Neorealismo all’epoca aveva.
Io posso mettermi sulla scia di, ma non posso sentirmi erede. Perché se fossi erede realmente, allora sarei uno , non dico che rinnega ,ma che mentre ricorda trasforma.
Io mi sento con il cuore vicinissimo, ma non mi sembra di dare gli stessi risultati e mi sembra anche di essere storicamente dentro un abito lontanissimo da quello che ha prodotto il Neorealismo. Ci sono delle cose forse a livello di sguardo e sicuramente a livello di contenuto in alcune cose che possono ricordare De Sica, per esempio in Ladro di Bambini; forse c’è in un film come Lamerica qualcosa di rosselliniano ma a livello che Rossellini cercava di essere nei posti dove avvenivano le cose, che era un fatto tipico suo. Però, magari io avessi la capacità di aggiornare lo sguardo neorealistico, che andrebbe aggiornato non per un fatto di moda, ma per un fatto di coscienza dell’oggi. Magari io avessi maturato realmente gli insegnamenti del Neorealismo da fare un cinema che conservasse, ma nello stesso tempo riproponesse altre forme. Più semplicemente quello che io credo che manchi a me e al mio cinema è la forza di novità e la forza di rottura che il Neorealismo all’epoca aveva.
Io posso mettermi sulla scia di, ma non posso sentirmi erede. Perché se fossi erede realmente, allora sarei uno , non dico che rinnega ,ma che mentre ricorda trasforma.
D. Lei insegna alla Scuola Nazionale di Cinema a Roma, cosa vuol dire insegnare Cinema, ma soprattutto si può imparare a fare il Cinema?
R. Io posso essere disordinato e dire le cose che dico ogni anno il primo giorno ai miei studenti. Vedete ci sono il banco e la porta, al banco sedetevi il meno possibile la porta usatela per entrare ma soprattutto per uscire. Fuor di metafora, quello che voglio dire è che lo studente non deve sedersi e non deve pensare che essere studente sia un punto di arrivo, è un minuscolo punto di partenza.
Io dico che lo studente di Cinema debba essere un ladro di destrezza, non deve farsi accorgere di rubare ma deve rubare all’insegnante ciò che non gli viene detto.
Deve cercare di lavorare , ciascuno di noi deve cercare nel momento in cui un altro gli insegna di imparare anche contro l’insegnamento, non nel senso di opporsi in modo irragionevole, ma di non adagiarsi sull’insegnamento passivo.
Guai se io considero che una volta apprese determinate regole penso di diventare un grande regista. Una metafora che uso spesso è la differenza tra uno scrittore e un dattilografo, il dattilografo scrive a macchina benissimo però magari non ha niente da raccontare, uno scrittore è uno che forse ha delle cose da raccontare però digita magari molto lentamente.
Io dico che spesso la scuola di cinema forma dei grandissimi dattilografi ma non riesce a formare dei grandi scrittori.
Io dico che lo studente di Cinema debba essere un ladro di destrezza, non deve farsi accorgere di rubare ma deve rubare all’insegnante ciò che non gli viene detto.
Deve cercare di lavorare , ciascuno di noi deve cercare nel momento in cui un altro gli insegna di imparare anche contro l’insegnamento, non nel senso di opporsi in modo irragionevole, ma di non adagiarsi sull’insegnamento passivo.
Guai se io considero che una volta apprese determinate regole penso di diventare un grande regista. Una metafora che uso spesso è la differenza tra uno scrittore e un dattilografo, il dattilografo scrive a macchina benissimo però magari non ha niente da raccontare, uno scrittore è uno che forse ha delle cose da raccontare però digita magari molto lentamente.
Io dico che spesso la scuola di cinema forma dei grandissimi dattilografi ma non riesce a formare dei grandi scrittori.
D. Vorrei chiudere con un consiglio di Gianni Amelio a tutti coloro che vogliono fare Cinema.
R. Osservare, imparare ad osservare ad occhio nudo e poi allenarsi con una videocamera. Imparare ad usare lo sguardo e a trasformarlo in linguaggio che serva a trasmettere delle emozioni. Restituire delle emozioni è la cosa più difficile, io consiglio d’iniziare con dei documentari, tutto ciò che vi circonda può essere interessante se si riesce a rendere attraverso l’occhio della telecamera l’emozione che si può percepire ad occhio nudo. Allenarsi usando, se si presta, anche la sorella mentre studia, rendere l’immagine leggibile a livello di linguaggio e attraverso il linguaggio far capire i sentimenti. Riprendere anche le piccole azioni restituendole in tutta la loro grandezza, questo è Cinema.
MARILENA DATTIS
http://www.lastradaweb.it/article.php3?id_article=278
MARILENA DATTIS
http://www.lastradaweb.it/article.php3?id_article=278
the link it's expired. Please can you control?
ResponderEliminaris it possible a re-up?
ResponderEliminarthanks
thanks a lot!!
Eliminaryou are my sunshine!
somewhere there is a better version
Eliminarbut for now...
last film for television by Amelio
http://www.youtube.com/watch?v=E3uUtQdvPeE