TÍTULO ORIGINAL Gruppo di famiglia in un interno
AÑO 1974
IDIOMA Italiano, Alemán e Inglés (Tres pistas separadas)
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 120 min.
DIRECTOR Luchino Visconti
GUIÓN Suso Cecchi D'Amico, Enrico Medioli, Luchino Visconti
MÚSICA Franco Mannino
FOTOGRAFÍA Pasqualino De Santis
REPARTO Burt Lancaster, Silvana Mangano, Helmut Berger, Claudia Marsani, Stefano Patrizi, Elvira Cortese, Dominique Sanda, Claudia Cardinale
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Rusconi Films / Gaumont International
PREMIOS
1974: Premios David di Donatello: Mejor película y actor extranjero (Burt Lancaster)
1975: Festival de Valladolid - Seminci: Espiga de Oro: Mejor película
GÉNERO Drama
SINOPSIS Un profesor norteamericano jubilado vive una vida solitaria en su lujoso palacio de Roma. Tiene un enfrentamiento con una vulgar marquesa italiana y sus acompañantes: su amante, su hija y el novio de su hija, y se ve obligado a alquilarles el apartamento del ático del palacio. Su vida hasta entonces rutinaria se verá sumida en el caos por las maquinaciones de sus inquilinos (FILMAFFINITY)
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Subtítulos (Español)
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RETRATOS DE SOLEDAD CON INQUILINOS AL FONDO
Sin duda hay frases que reflejan a la perfección la personalidad intelectual de un artista. Luchino Visconti era un especialista en narrativa profunda y convertía, con sombría lucidez, la literatura más barroca en intensas imágenes de fuerte impacto emocional. Así fue en su penúltimo trabajo cinematográfico, Gruppo di famiglia in un interno, A.K.A. Confidencias, de la que cito textualmente: (El Profesor): “Los cuervos vuelan en bandada; el águila vuela sola”; (Konrad): “Pero en La Biblia está escrito, ¡Ay del que esté solo!, porque cuando caiga no habrá nadie dispuesto a prestarle ayuda”. Con estas significativas palabras el maestro encerraba gran parte de su filosofía, de su arrollador universo y de su lúgubre corazón al descubierto. Visconti vendría a contarnos el mortuorio camino de un lobo solitario, El Profesor (genial Burt Lancaster), y su difícil coexistencia con unos peculiares inquilinos, los cuales habitan en el piso de arriba, y que vendrán a importunar su pacifica y erudita vida como coleccionista de arte.
Formidable retrato humano el de una película exquisita, con el habitual gusto decorativo de Visconti. Melodrama inteligente, holgadamente ambiguo e intimista que vuelca un esforzado y profundo estudio del hombre en su inevitable paso hacia la muerte, ese trágico destino que aquí bien podría estar disfrazado de vida, representado en unos extraños vecinos que rozando la locura acabarán por comulgar en un mismo deseo de comprensión y entendimiento. Con el apoyo de unos intérpretes colosales, el gran duque italiano rueda uno de esos monumentales cuadros de sentimientos en donde todo, absolutamente todo, parece cristalizar en completa armonía. El oficio del cineasta sobresale incluso en las condiciones menos favorables (estaba gravemente enfermo), procreando de forma cuasi natural una meticulosa mirada reflexiva entre dos vasos comunicantes estupendamente perfilados. La relación padre-hijo/maestro-alumno de Helmut Berger y Burt Lancaster nos conmueve, nos imanta, nos transforma en bastante más que simples espectadores, somos cómplices voyeurs de corta distancia, claros participantes de una maraña piramidal donde flotan recuerdos, secretos y confidencias.
Grupo di famiglia in un interno sería, en cierto modo, una película autobiográfica, que presagiaba la inminente desaparición del autor de Muerte en Venecia. Trabajo penetrante, con amplísimo carácter testimonial, de apurado empaque fantasmagórico, fiel a las bases de un arte solo atribuible al talento desbordado de uno de los mayores y más honestos representantes que el cine, por suerte, ha sabido y deberá seguir teniendo como parte integrante de una cultura artística universal, inexcusable y académicamente imprescindible.
LO MEJOR: El papel llevado a cabo por un mesurado, adecuadísimo Burt Lancaster. La química entre el amoral Konrad y la aristocrática, refinada mente del profesor (del que nunca conoceremos su nombre, aspecto que subraya la poética presencia del protagonista, un enigma de pasado misterioso), ambos en simbiótica conexión. El detallado encuadre de Visconti, apoyado por la impresionante fotografía de Pasqualino De Santis y su realzada fuerza descriptiva como preámbulo del verdadero testimonio viscontiniano, la melodramática, y no menos dolorosa, El Inocente.
LO PEOR: Que en su momento, y quizás todavía hoy, no fuera del todo reivindicada poniendo mayor énfasis en sus pequeños defectos que en sus logradas virtudes, en las siempre inútiles y odiosas comparaciones con el resto de su mayestática filmografía.
deivi
http://www.filmaffinity.com/es/reviews/1/619384.html
deivi
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Mario Praz: Scene di conversazione di Alessandro Bencivenni
Il riferimento alle conversation pieces testimonia la familiarità di Visconti con un recente volume di Mario Praz: Scene di conversazione, e con l'intera opera di questo singolare saggista. Con la diabolica levità che gli è propria, Praz accenna più volte al sottile e morboso legame che intercorre tra l'Anima e il suo anagramma, Mania.
Il fascino delle sue opere consiste nel modo in cui risale lungo questo filo tortuoso e sconcertante, senza mai abbandonare l'abito insospettabile ed austero del professore all'antica. Dannunziano alla rovescia, indica l'erudizione nel delirio immaginifico, il metodo nella bizzarria. I suoi libri sono come una visita guidata nell'"inferno"del romanticismo, o come dice bene Arbasino - «il Catasto del Decadentismo».
Le Scene di conversazione sono scritte come uno studio erudito, ma si leggono come un romanzo. Praz insegue, con amorevole e minuziosa dedizione, le vicende delle generazioni ritratte in questo squisito genere di pittura borghese. Il suo interesse si sofferma con predilezione sugli episodi macabri e luttuosi, sicché il volume possiede il fascino perverso del vagheggiamento di un'epoca defunta.
Il Professore di Gruppo di famiglia in un interno non possiede certo i grandi tratti del "prazzesco", né la sua casa quelli del cenotafio neoclassico di casa Praz. Tuttavia certe affinità sono evidenti. «Oggi l'arte del porgere non esiste più» scrive Praz ne Il patto col serpente «il telefono ha pressoché abolito gli epistolari (...) e distrutto ogni possibilità di continuati e armoniosi discorsi»: un motivo questo che ricorre per tutto il film. Nelle stesse pagine troviamo quella che porrebbe essere la definizione dell'eloquio del Professore: «una serie di frasi ben tornite, sorvegliate da uno spirito brillante che si compiace d'ascoltar se stesso», contrapposto al «rozzo e sboccato parlar plebeo» esibito nel film dalla nuova borghesia in jeans.
Visconti si è insomma rifatto a quel certo gusto antiquato caro a Praz per mettere il suo Professore a confronto con un presente nel quale non riesce più a riconoscersi.
Lo scrittore stesso racconta ne La casa della vita di essersi trovato in una situazione simile a quella descritta in Gruppo di famiglia: «da un'ispirazione profetica doveva essere animato Luchino Visconti quando (a sua stessa confessione in interviste sui giornali) prendendo le mosse dalle mie Scene di conversazione pel suo film Ritratto di famiglia in un interno metteva a protagonista un vecchio professore assistito da un'anziana domestica (qui evidentemente alludeva a una situazione simile alla mia), ma anche immaginava che nello stesso casamento venisse ad abitare una banda di giovani drogati e dissoluti. Che è pressapoco quello che è accaduto, ma soltanto dopo la presentazione del film, nel palazzo dove abito. Il film, come potei constatare, è rispettoso verso il mio sosia, e forse esagera nei riguardi dei coinquilini, di cui dirò solo che, venendo richiesto dal più notorio di essi, della dedica di un mio libro, vi scrissi: "Per (seguiva il nome) vicino di casa, lontano d'idee"». Una dedica che sembra uscita dalla penna del Professore.
Ma il maggiore elemento di affinità tra Visconti e il saggio di Praz sta nella sensibilità di entrambi verso quella teatralità degli atteggiamenti, quella concezione della stessa vita come teatro, che è caratteristica delle conversation pieces. In esse si esprime la falsa coscienza di una classe che amava mettersi in posa nell'illusione di garantire a se stessa «certezza e saldezza». La sconfitta di questa illusione, lo smascheramento di questa falsa coscienza costituiscono il tema del film.
Il Professore cade in un duplice inganno: mentre nega ogni rapporto tra sé e la volgarità dei tempi nuovi, è poi costretto ad ammettere l'esistenza di un legame, ma quando crede che questo possa costituire l'inizio di una nuova vita, è solo per poi dovervi riconoscere il presagio della sua morte.
Il fascino delle sue opere consiste nel modo in cui risale lungo questo filo tortuoso e sconcertante, senza mai abbandonare l'abito insospettabile ed austero del professore all'antica. Dannunziano alla rovescia, indica l'erudizione nel delirio immaginifico, il metodo nella bizzarria. I suoi libri sono come una visita guidata nell'"inferno"del romanticismo, o come dice bene Arbasino - «il Catasto del Decadentismo».
Le Scene di conversazione sono scritte come uno studio erudito, ma si leggono come un romanzo. Praz insegue, con amorevole e minuziosa dedizione, le vicende delle generazioni ritratte in questo squisito genere di pittura borghese. Il suo interesse si sofferma con predilezione sugli episodi macabri e luttuosi, sicché il volume possiede il fascino perverso del vagheggiamento di un'epoca defunta.
Il Professore di Gruppo di famiglia in un interno non possiede certo i grandi tratti del "prazzesco", né la sua casa quelli del cenotafio neoclassico di casa Praz. Tuttavia certe affinità sono evidenti. «Oggi l'arte del porgere non esiste più» scrive Praz ne Il patto col serpente «il telefono ha pressoché abolito gli epistolari (...) e distrutto ogni possibilità di continuati e armoniosi discorsi»: un motivo questo che ricorre per tutto il film. Nelle stesse pagine troviamo quella che porrebbe essere la definizione dell'eloquio del Professore: «una serie di frasi ben tornite, sorvegliate da uno spirito brillante che si compiace d'ascoltar se stesso», contrapposto al «rozzo e sboccato parlar plebeo» esibito nel film dalla nuova borghesia in jeans.
Visconti si è insomma rifatto a quel certo gusto antiquato caro a Praz per mettere il suo Professore a confronto con un presente nel quale non riesce più a riconoscersi.
Lo scrittore stesso racconta ne La casa della vita di essersi trovato in una situazione simile a quella descritta in Gruppo di famiglia: «da un'ispirazione profetica doveva essere animato Luchino Visconti quando (a sua stessa confessione in interviste sui giornali) prendendo le mosse dalle mie Scene di conversazione pel suo film Ritratto di famiglia in un interno metteva a protagonista un vecchio professore assistito da un'anziana domestica (qui evidentemente alludeva a una situazione simile alla mia), ma anche immaginava che nello stesso casamento venisse ad abitare una banda di giovani drogati e dissoluti. Che è pressapoco quello che è accaduto, ma soltanto dopo la presentazione del film, nel palazzo dove abito. Il film, come potei constatare, è rispettoso verso il mio sosia, e forse esagera nei riguardi dei coinquilini, di cui dirò solo che, venendo richiesto dal più notorio di essi, della dedica di un mio libro, vi scrissi: "Per (seguiva il nome) vicino di casa, lontano d'idee"». Una dedica che sembra uscita dalla penna del Professore.
Ma il maggiore elemento di affinità tra Visconti e il saggio di Praz sta nella sensibilità di entrambi verso quella teatralità degli atteggiamenti, quella concezione della stessa vita come teatro, che è caratteristica delle conversation pieces. In esse si esprime la falsa coscienza di una classe che amava mettersi in posa nell'illusione di garantire a se stessa «certezza e saldezza». La sconfitta di questa illusione, lo smascheramento di questa falsa coscienza costituiscono il tema del film.
Il Professore cade in un duplice inganno: mentre nega ogni rapporto tra sé e la volgarità dei tempi nuovi, è poi costretto ad ammettere l'esistenza di un legame, ma quando crede che questo possa costituire l'inizio di una nuova vita, è solo per poi dovervi riconoscere il presagio della sua morte.
Il testo è tratto dal libro:
Luchino Visconti di Alessandro Bencivenni
© Il Castoro, Milano 1994
http://www.luchinovisconti.net/visconti_al/mario_praz.htm
Luchino Visconti di Alessandro Bencivenni
© Il Castoro, Milano 1994
http://www.luchinovisconti.net/visconti_al/mario_praz.htm
Soggetto
La vita solitaria di un anziano professore, appassionato collezionista di quadri che ritraggono gruppi familiari, viene un giorno turbata dall’irruzione di una signora dell’alta borghesia, Bianca Brumonti, accompagnata dalla figlia Lietta e da Stefano, il suo ragazzo. Chiedono al professore di affittare loro l’appartamento situato sopra il suo. Dopo alcune resistenze, vinte con il regalo di uno degli amati quadri, il professore cede alle insistenze e acconsente all’affitto. Bianca vi sistema Konrad, ex sessantottino con un travagliato passato politico, ora suo amante e mantenuto. Tra Konrad e il professore si stabilisce una inaspettata intesa. Una notte che Konrad, implicato in oscuri traffici di droga, viene aggredito, il professore lo soccorre, lo ospita nel suo appartamento e lo cura amorevolmente. Sconcertato dai rapporti che legano i suoi nuovi coinquilini, dalla loro invadenza e volgarità, il professore decide di non vederli più e di tornare alla sua silenziosa solitudine confortata dai ricordi della moglie e della madre. Ma accortosi che essi lo hanno strappato allo sterile isolamento in cui si era chiuso e, per quanto estranei, sono ora per lui la famiglia che non ha avuto, ristabilisce i contatti. Durante la cena di riconciliazione in casa del professore scoppiano i conflitti latenti. Konrad rivela di avere denunciato il marito di Bianca, un industriale appartenente a un gruppo eversivo di destra, coinvolto in un tentativo di colpo di stato. Il boato di un’esplosione fa accorrere il professore al piano superiore dove trova Konrad morto. Rimasto di nuovo solo, pensa alla morte e ne attende la venuta.
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Gruppo di famiglia in un interno è la storia di un intellettuale della mia generazione che, non riuscendo a vivere in accordo con il proprio tempo, si scontra violentemente con le odierne generazioni ed esce da questa prova ferito profondamente per tutto il resto della vita. Il professore è un collezionista di conversation pieces, quella pittura inglese del Settecento che rappresentava famiglie dell’aristocrazia e dell’alta borghesia con i loro bambini, i domestici, i cagnolini: figure deliziose, eleganti, aggraziate delle quali grande è la tentazione di immaginare le passioni e i vizi, al di là della fissità del quadro. Il mio film è appunto una conversation piece: il ritratto di una famiglia. La scena più bella, per me, è quella che, nell’ultima parte, riunisce intorno a un tavolo i cinque personaggi principali. Questa scena consente che i personaggi si affrontino dicendosi le verità più atroci: un quadro e un pranzo di famiglia che si trasforma in tragedia. Vorrei cercare di dire che, se un uomo anziano tenta di accostarsi ai giovani come se fossero suoi figli, il rapporto non può funzionare perché essi non si comprenderanno mai. A un certo punto, Lietta domanda al professore: «Ma lei che cosa faceva, quando era giovane? Ciò che facciamo noi adesso?», e lui risponde: «Nient’affatto! Ho studiato, ho fatto dei viaggi, mi sono sposato; e il mio matrimonio è stato un fallimento. Improvvisamente ho aperto gli occhi, e mi sono ritrovato in mezzo a un mondo di cui non riesco neppure a comprendere il significato». E infatti, egli soffre di questa solitudine e capisce di essersi ingannato. Si è chiuso in se stesso temendo che i problemi degli altri diventassero anche suoi e finissero con l’annientarlo. Egli preferisce occuparsi delle opere che hanno lasciato gli uomini, piuttosto che degli uomini stessi: sono parole che gli faccio dire nel film, perché la conclusione della sua vita è tragica. Il professore non comprende mai i fatti che gli accadono intorno. Quando Konrad, il più corrotto dei tre giovani, si riscatta denunciando un complotto fascista organizzato da un industriale di estrema destra, marito di Bianca Brumonti, il professore non capisce niente perché, in fondo, egli non crede che esista veramente un pericolo da destra. E così non sa dare alcun aiuto a Konrad che si aspettava, se non fiducia, almeno un appoggio, un segno. E quando infine Konrad sarà assassinato dai fascisti, il professore si ricrederà dolorosamente, chiudendosi nella propria tristezza. Da una parte c’è la tentazione, negli uomini in età avanzata, di difendersi da una vita che ormai non riserva loro alcuna illusione; e dunque il desiderio di rifugiarsi nei ricordi, in un’eredità di conoscenze immodificabili; dall’altra ci sono i giovani, la loro vitalità, il lato irrazionale, la sfiducia e il rifiuto nei confronti di tutto ciò che è esistito prima di loro. I giovani con il loro fascino.
(Luchino Visconti)
Gruppo di famiglia non è un film autobiografico. Il protagonista detesta gli uomini, detesta la presenza rumorosa degli altri, e vive in un silenzio totale. È un egoista, un collezionista maniaco. È colpevole perché rifiuta di ammettere che ciò che soprattutto conta sono gli uomini e i loro problemi, non le cose che essi hanno prodotto. Per quanto mi riguarda, non sono affatto egoista in questo senso: ho aiutato molti giovani, consigliandoli e, talvolta, anche concretamente. Mi circondo di amici, amo la compagnia degli altri. Attraverso il personaggio interpretato da Burt Lancaster ho voluto esaminare la posizione, le responsabilità, gli slanci e le sconfitte degli intellettuali della mia generazione. La parabola di una cultura. È stato un modo di rappresentare, con la mediazione di quel personaggio, un momento e una classe alla quale, se si vuole, appartengo anch’io. Ma l’identificazione si ferma qui. Detto questo, mi sembra evidente che, quando si vuole raccontare qualcosa a qualcuno, non si può farlo che attraverso se stessi. Come testimoniano Gustave Flaubert e il suo «Madame Bovary sono io».
(Luchino Visconti)
http://digilander.libero.it/godot61/gruppodifamigliainuninterno.htm
(Luchino Visconti)
Gruppo di famiglia non è un film autobiografico. Il protagonista detesta gli uomini, detesta la presenza rumorosa degli altri, e vive in un silenzio totale. È un egoista, un collezionista maniaco. È colpevole perché rifiuta di ammettere che ciò che soprattutto conta sono gli uomini e i loro problemi, non le cose che essi hanno prodotto. Per quanto mi riguarda, non sono affatto egoista in questo senso: ho aiutato molti giovani, consigliandoli e, talvolta, anche concretamente. Mi circondo di amici, amo la compagnia degli altri. Attraverso il personaggio interpretato da Burt Lancaster ho voluto esaminare la posizione, le responsabilità, gli slanci e le sconfitte degli intellettuali della mia generazione. La parabola di una cultura. È stato un modo di rappresentare, con la mediazione di quel personaggio, un momento e una classe alla quale, se si vuole, appartengo anch’io. Ma l’identificazione si ferma qui. Detto questo, mi sembra evidente che, quando si vuole raccontare qualcosa a qualcuno, non si può farlo che attraverso se stessi. Come testimoniano Gustave Flaubert e il suo «Madame Bovary sono io».
(Luchino Visconti)
http://digilander.libero.it/godot61/gruppodifamigliainuninterno.htm
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Il fiato della morte, l’insufficienza dell’arte a riempire la solitudine dell’uomo, il rimpianto di paternità non concesse, e nei giovani la ricerca del padre, il fascino che il male e il bene esercitano su chi non li possiede... Ancora: l’inevitabile disfarsi di quel nucleo sociale che fu la famiglia, la confusa realtà storica che attraversano l’Italia e l’Europa, e finalmente l’antico, immedicabile pessimismo sul destino degli uomini, sulla loro impotenza ad amare, riassunto nell’ironico rinvio del titolo a un modello sociale, e a un genere di pittura, la conversation pièce, sepolti nei secoli senza recupero. Quante cose, e quanto malinconiche, ha messo Visconti in quello che forse resterà uno dei suoi film più personali, certamente più sinceri. Troppe? Ma non c’è da dolersi che la limpidità dell’assunto vada a scapito della potenza drammatica con cui il film dice l’angoscia di Visconti, portavoce fra i più illustri d’una famiglia di autori che si è formata nel clima del decadentismo, e fa consistere la virtù dell’arte nella rappresentazione critica d’una catastrofe cui concorrono storia, morale e società.
A chi chieda se il film tradisca le stanchezze di un uomo malato si risponde di no. Accade il contrario: che Visconti, rinunciando ai languori di un estetismo da capezzale e alle fughe letterarie, entri con furiosa fantasia nel cuore dell’epoca, e la svisceri e la batta. L’esito di questa sorta di colluttazione può lasciarci insoddisfatti, per un sospetto di fatalismo che sembra governarla, ma indubbia è la parte che il razionale Visconti continua ad assegnare alla forza della passione nell’inverarsi dei destini umani. Un vinto non ha quest’occhio caldo e questa mano prensile.
A Roma, oggi. Un ricco professore sui sessanta, americano di madre italiana, vive tutto solo, custodito da una anziana governante, nel suo antico palazzo del centro. Del suo passato si sa poco: che il suo matrimonio non fu felice, che lasciò gli studi scientifici, che venne in Italia con la guerra. Misantropo, insofferente di genti e modi volgari, si divide fra la sua bella collezione di quadri antichi, la buona musica, dotte letture. A turbarne la pace felpata irrompe una sconosciuta (la chiamano marchesa), Bianca Brumonti, elegante e bella, ma indiscreta fino all’arroganza, sboccata fino al turpiloquio, che pretende di avere in affitto l’appartamento superiore a quello in cui abita il professore. Non per sé, come il padrone di casa a poco a poco viene scoprendo, ma per il suo giovane e squattrinato amante, un Konrad già coinvolto a Berlino nei moti studenteschi del ‘68. Il professore diffida: quella gente non gli piace, e minaccia di portare disordine nella sua vita. Tuttavia, galeotto un quadro prezioso offertogli in pegno, non sa dire di no. Né sa come difendersi quando capisce che la casa serve anche agli incontri fra Konrad, la figlia della Brumonti, Lietta, e il «fidanzato» di Lietta, figlio d’un industriale: tre giovani sciagurati che, tacitamente consenziente la madre, si drogano e s’amano in turpi connubi.
L’appartamento è semidistrutto da brutali lavori di ripristino, e persino la collezione del professore è in pericolo, ma l’uomo passa col tempo dallo sdegno allo stupore: scopre un mondo ignorato, che detesta ma di cui avverte il fascino impensato. Sicché col tempo allenta la guardia, quasi complice dei suoi ospiti rumorosi: Konrad gli si rivela, fra le righe, colto e sensibile, Lietta piuttosto una bimba viziata che una precoce canaglia, la madre una fragile vittima della sensualità. È, la loro, una umanità corrotta e perversa, ma proprio per ciò ricca di umori e vibrante di affetti, ben differente dalle composte pitture affisse alle pareti e dalle pagine ben rilegate della biblioteca. La verità della vita sta per spazzare i sogni dell’arte? L’aquila solitaria invidia i corvi?
Caduto nell’inganno, il professore ora è incuriosito e pietoso, di loro e di sé (e loro di lui). Quando Konrad viene aggredito dai teppisti per un affare di droga lo assiste e lo nasconde in una camera segreta, e non protesta quando sorprende i tre giovani intesi ai loro giochi impudichi; nega alla polizia il proprio aiuto; accetta che l’appartamento di sopra venga trasformato... E invano, quando la nausea torna ad avere il sopravvento, cerca di racchiudersi nel suo guscio tranquillo: la paura della solitudine è così forte che i suoi libri e i suoi quadri ormai sono muti. Accarezza persino l’idea di far vita in comune coi suoi coinquilini, di considerarli la sua famiglia. Sembrano, seppure con una morale e un comportamento tanto lontani dai suoi, così uniti, così vicini; e, altre volte, così indifesi, così bisognosi di soccorso: potrà essere il padre che cercano, e loro i figli che non ha avuto.
Invece viene il momento della verità. La cena che fingeva la nascita della famiglia si trasforma in una rissa. Gli ospiti si sbranano a vicenda. La melma viene a galla, volano cazzotti e ingiurie; l’odio e il disprezzo si rivelano la radice di mille infamie. Konrad morirà tragicamente, forse suicida. Il vecchio dovrà discolparsi. «Mi avete bruscamente svegliato da un sonno profondo», dirà ma impotente a restituire una parvenza di ordine al mondo che lo ha aggredito e illuso, a riconquistare la pace. Anche per lui la morte è vicina: non gli resta che misurare nelle lacrime la durezza dello scontro avuto con una realtà dove tutto si disfa, anche il dolore, e l’amore è un germe di corruzione.
Al pessimismo della ragione, Visconti non contrappone più, come nell’età verde, l’ottimismo della volontà. Testimone di una generazione lacerata dai complessi di colpa, che ha vissuto (è una battuta-chiave del film) l’impossibilità dell’equilibrio fra politica e morale, Visconti afferma che il prezzo del progresso è la distruzione: non soltanto dei sistemi e delle classi nelle cui mani è il potere e il metro del bello e del buono (essi si autodemoliscono giorno per giorno) ma della stessa utopia di un amore universale, d’una fiducia nel valore positivo della protesta, troppo compromessa per essere credibile. Cosa significano la tragica consapevolezza raggiunta dal professore e la morte di Konrad, l’ex studente del ‘68 che forse redento dall’esempio di pulizia offertogli dal vecchio ha cercato di salvarsi l’anima denunciando le trame golpiste del marito della sua amante? Significano che il mondo di oggi non accetta più trucchi camuffati da crisi di coscienza: chi ha giocato con se stesso viene sommerso dal diluvio. E tutti, più o meno, vi sono coinvolti.
Amarissimo ritratto di una sofferenza in cui anche si manifesta il tramonto della libertà, il film racconta questa tragedia, biologica e storica, con un senso insieme classico e moderno della drammaturgia. Definiti strada facendo i caratteri, e lasciando loro intorno una larga zona di inespresso (i flash-backs sulla madre e la moglie del professore sono spie subito chiuse), Visconti si dedica con costante puntiglio all’analisi critica dei personaggi, dei conflitti e delle loro ambiguità socio-culturali. Le sue simpatie non vanno, come potrebbe sembrare, al professore, murato nel miraggio dell’autosufficienza: semmai a Konrad, il più denso e infelice. L’immagine che offre del gruppo riecheggia il gusto del teatro espressionista, con le consuete inflessioni melodrammatiche, ma non per questo manca di concretezza. Più luoghi hanno un’intensità di accenti e ricchezza di prospettive psicologiche (anche tocchi di humour) che appartengono al Visconti migliore. I riferimenti alla cronaca degli ultimi mesi sono un po’ forzosi, e nella seconda metà contorsionismi e capziosità sono addebitabili alla sceneggiatura (Visconti, Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli: quest’ultimo autore del soggetto), ma il film nel suo insieme dirà bene ai posteri come e perché agli intellettuali di tradizione liberale sembrò che gli anni Settanta bruciassero nell’esasperata convulsione dei rapporti personali le ultime stoppie della ragione, talché non rimasero che lamenti. Al pubblico d’oggi dice con quanto accorato vigore artisti quali Visconti si sentano partecipi del dramma, e nel rappresentarlo anche si giudichino.
Gruppo di famiglia in un interno è una di quelle opere complesse di fronte alle quali il recensore torna a verificare l’insufficienza dei propri strumenti e dei propri spazi. Lo spettatore sensibile e attento, integrandone i cenni, vorrà valutare, insieme all’apporto dello scenografo Garbuglia, del fotografo de Santis, del musicista Mannino, la coerente utilizzazione degli interpreti, scelti in modo da riflettere anche nella recitazione il confronto tra un mondo di pacate apparenze ma nascoste inquietudini (un Burt Lancaster sulla soglia dell’accademia) e un universo di cupe e brutali nevrosi, che ha i suoi campioni nel duttile Helmut Berger e nella stavolta sovraccarica Silvana Mangano. In rapide apparizioni, Claudia Cardinale e Dominique Sanda. E arredi di lusso, ovviamente, e belle toilettes: spettacolo pieno.
Giovanni Grazzini, Corriere della Sera (11/12/1974)
A chi chieda se il film tradisca le stanchezze di un uomo malato si risponde di no. Accade il contrario: che Visconti, rinunciando ai languori di un estetismo da capezzale e alle fughe letterarie, entri con furiosa fantasia nel cuore dell’epoca, e la svisceri e la batta. L’esito di questa sorta di colluttazione può lasciarci insoddisfatti, per un sospetto di fatalismo che sembra governarla, ma indubbia è la parte che il razionale Visconti continua ad assegnare alla forza della passione nell’inverarsi dei destini umani. Un vinto non ha quest’occhio caldo e questa mano prensile.
A Roma, oggi. Un ricco professore sui sessanta, americano di madre italiana, vive tutto solo, custodito da una anziana governante, nel suo antico palazzo del centro. Del suo passato si sa poco: che il suo matrimonio non fu felice, che lasciò gli studi scientifici, che venne in Italia con la guerra. Misantropo, insofferente di genti e modi volgari, si divide fra la sua bella collezione di quadri antichi, la buona musica, dotte letture. A turbarne la pace felpata irrompe una sconosciuta (la chiamano marchesa), Bianca Brumonti, elegante e bella, ma indiscreta fino all’arroganza, sboccata fino al turpiloquio, che pretende di avere in affitto l’appartamento superiore a quello in cui abita il professore. Non per sé, come il padrone di casa a poco a poco viene scoprendo, ma per il suo giovane e squattrinato amante, un Konrad già coinvolto a Berlino nei moti studenteschi del ‘68. Il professore diffida: quella gente non gli piace, e minaccia di portare disordine nella sua vita. Tuttavia, galeotto un quadro prezioso offertogli in pegno, non sa dire di no. Né sa come difendersi quando capisce che la casa serve anche agli incontri fra Konrad, la figlia della Brumonti, Lietta, e il «fidanzato» di Lietta, figlio d’un industriale: tre giovani sciagurati che, tacitamente consenziente la madre, si drogano e s’amano in turpi connubi.
L’appartamento è semidistrutto da brutali lavori di ripristino, e persino la collezione del professore è in pericolo, ma l’uomo passa col tempo dallo sdegno allo stupore: scopre un mondo ignorato, che detesta ma di cui avverte il fascino impensato. Sicché col tempo allenta la guardia, quasi complice dei suoi ospiti rumorosi: Konrad gli si rivela, fra le righe, colto e sensibile, Lietta piuttosto una bimba viziata che una precoce canaglia, la madre una fragile vittima della sensualità. È, la loro, una umanità corrotta e perversa, ma proprio per ciò ricca di umori e vibrante di affetti, ben differente dalle composte pitture affisse alle pareti e dalle pagine ben rilegate della biblioteca. La verità della vita sta per spazzare i sogni dell’arte? L’aquila solitaria invidia i corvi?
Caduto nell’inganno, il professore ora è incuriosito e pietoso, di loro e di sé (e loro di lui). Quando Konrad viene aggredito dai teppisti per un affare di droga lo assiste e lo nasconde in una camera segreta, e non protesta quando sorprende i tre giovani intesi ai loro giochi impudichi; nega alla polizia il proprio aiuto; accetta che l’appartamento di sopra venga trasformato... E invano, quando la nausea torna ad avere il sopravvento, cerca di racchiudersi nel suo guscio tranquillo: la paura della solitudine è così forte che i suoi libri e i suoi quadri ormai sono muti. Accarezza persino l’idea di far vita in comune coi suoi coinquilini, di considerarli la sua famiglia. Sembrano, seppure con una morale e un comportamento tanto lontani dai suoi, così uniti, così vicini; e, altre volte, così indifesi, così bisognosi di soccorso: potrà essere il padre che cercano, e loro i figli che non ha avuto.
Invece viene il momento della verità. La cena che fingeva la nascita della famiglia si trasforma in una rissa. Gli ospiti si sbranano a vicenda. La melma viene a galla, volano cazzotti e ingiurie; l’odio e il disprezzo si rivelano la radice di mille infamie. Konrad morirà tragicamente, forse suicida. Il vecchio dovrà discolparsi. «Mi avete bruscamente svegliato da un sonno profondo», dirà ma impotente a restituire una parvenza di ordine al mondo che lo ha aggredito e illuso, a riconquistare la pace. Anche per lui la morte è vicina: non gli resta che misurare nelle lacrime la durezza dello scontro avuto con una realtà dove tutto si disfa, anche il dolore, e l’amore è un germe di corruzione.
Al pessimismo della ragione, Visconti non contrappone più, come nell’età verde, l’ottimismo della volontà. Testimone di una generazione lacerata dai complessi di colpa, che ha vissuto (è una battuta-chiave del film) l’impossibilità dell’equilibrio fra politica e morale, Visconti afferma che il prezzo del progresso è la distruzione: non soltanto dei sistemi e delle classi nelle cui mani è il potere e il metro del bello e del buono (essi si autodemoliscono giorno per giorno) ma della stessa utopia di un amore universale, d’una fiducia nel valore positivo della protesta, troppo compromessa per essere credibile. Cosa significano la tragica consapevolezza raggiunta dal professore e la morte di Konrad, l’ex studente del ‘68 che forse redento dall’esempio di pulizia offertogli dal vecchio ha cercato di salvarsi l’anima denunciando le trame golpiste del marito della sua amante? Significano che il mondo di oggi non accetta più trucchi camuffati da crisi di coscienza: chi ha giocato con se stesso viene sommerso dal diluvio. E tutti, più o meno, vi sono coinvolti.
Amarissimo ritratto di una sofferenza in cui anche si manifesta il tramonto della libertà, il film racconta questa tragedia, biologica e storica, con un senso insieme classico e moderno della drammaturgia. Definiti strada facendo i caratteri, e lasciando loro intorno una larga zona di inespresso (i flash-backs sulla madre e la moglie del professore sono spie subito chiuse), Visconti si dedica con costante puntiglio all’analisi critica dei personaggi, dei conflitti e delle loro ambiguità socio-culturali. Le sue simpatie non vanno, come potrebbe sembrare, al professore, murato nel miraggio dell’autosufficienza: semmai a Konrad, il più denso e infelice. L’immagine che offre del gruppo riecheggia il gusto del teatro espressionista, con le consuete inflessioni melodrammatiche, ma non per questo manca di concretezza. Più luoghi hanno un’intensità di accenti e ricchezza di prospettive psicologiche (anche tocchi di humour) che appartengono al Visconti migliore. I riferimenti alla cronaca degli ultimi mesi sono un po’ forzosi, e nella seconda metà contorsionismi e capziosità sono addebitabili alla sceneggiatura (Visconti, Suso Cecchi D’Amico, Enrico Medioli: quest’ultimo autore del soggetto), ma il film nel suo insieme dirà bene ai posteri come e perché agli intellettuali di tradizione liberale sembrò che gli anni Settanta bruciassero nell’esasperata convulsione dei rapporti personali le ultime stoppie della ragione, talché non rimasero che lamenti. Al pubblico d’oggi dice con quanto accorato vigore artisti quali Visconti si sentano partecipi del dramma, e nel rappresentarlo anche si giudichino.
Gruppo di famiglia in un interno è una di quelle opere complesse di fronte alle quali il recensore torna a verificare l’insufficienza dei propri strumenti e dei propri spazi. Lo spettatore sensibile e attento, integrandone i cenni, vorrà valutare, insieme all’apporto dello scenografo Garbuglia, del fotografo de Santis, del musicista Mannino, la coerente utilizzazione degli interpreti, scelti in modo da riflettere anche nella recitazione il confronto tra un mondo di pacate apparenze ma nascoste inquietudini (un Burt Lancaster sulla soglia dell’accademia) e un universo di cupe e brutali nevrosi, che ha i suoi campioni nel duttile Helmut Berger e nella stavolta sovraccarica Silvana Mangano. In rapide apparizioni, Claudia Cardinale e Dominique Sanda. E arredi di lusso, ovviamente, e belle toilettes: spettacolo pieno.
Giovanni Grazzini, Corriere della Sera (11/12/1974)
salve, purtroppo non conosco abbastanza lo spagnolo e quindi scrivo in italiano. scopro da poco il tuo magnifico blog e ti faccio i miei sinceri complimenti!
ResponderEliminarper quanto riguarda questo film di Visconti, che non ho ancora visto e che mi incuriosisce molto, volevo segnalare che probabilmente manca una parte (.avi.008)?
Gracias Amarcord
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