TÍTULO ORIGINAL Cesare deve morire (Caesar Must Die)
AÑO 2012
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e Inglés (Separados)
DURACIÓN 76 min.
DIRECTOR Paolo Taviani, Vittorio Taviani
GUIÓN Paolo Taviani, Vittorio Taviani (Historia: William Shakespeare)
MÚSICA Giuliano Taviani, Carmelo Travia
FOTOGRAFÍA Simone Zampagni
REPARTO Fabio Cavalli, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti, Vincenzo Gallo, Rosario Majorana, Francesco De Masi, Gennaro Solito, Vittorio Parrella, Pasquale Crapetti, Francesco Carusone, Fabio Rizzuto, Fabio Cavalli, Maurilio Giaffreda
PRODUCTORA Kaos Cinematografica / Rai Cinema / Stemal Entertainment / Le Talee
PREMIOS
2012: Festival de Berlín: Oso de Oro mejor película
2011: 5 Premios David di Donatello, incluyendo mejor película y director. 8 Nominaciones
GÉNERO Drama | Teatro. Drama carcelario
SINOPSIS Cesare deve morire es una docuficción sobre talleres teatrales que lleva a cabo en la cárcel de Rebibbia, en Roma, el director Fabio Cavalli, autor de versiones de clásicos de Shakespeare interpretados por los reclusos. La película da cuenta tanto de los ensayos y de la representación final de Julio César como de las vidas de los prisioneros. “Plantearemos el contraste entre la libertad absoluta del actor y las ataduras de quien vive en una celda”, declaró Paolo Taviani poco antes de iniciar el rodaje. (FILMAFFINITY)
Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
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Subtítulos (Inglés)
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Paolo y Victorio Taviani: El cine como acto de pureza (pdf)
Barroso Miguel Angel
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Critica
"La coppia di registi pisani, è stato notato, pareva adagiata da decenni, su un cinema piuttosto accademico, mentre 'Cesare deve morire' (...) è indubbiamente uno dei loro lavori più sperimentali e curiosi. I due fratelli ultraottantenni si sono imbarcati in un film piccolo e agile. Non hanno solo ripreso le prove e la messa in scena di un 'Giulio Cesare' di Shakespeare con i detenuti di Rebibbia, ma hanno contaminato realtà e finzione, rielaborando le reazioni degli «attori» davanti all'arte, sfruttando l'energia e il transfert di queste vite nel dramma. Il successo di critica (italiana) e la vittoria a Berlino ci dicono forse un paio di cose, sul cinema italiano e non solo. La prima riguarda la possibilità e la necessità di un cinema «leggero». I Taviani hanno intuito che una delle poche vie praticabili, oggi in Italia, sono le produzioni poco ingombranti, che permettano un confronto con la vita senza subire i contraccolpi di una realtà produttiva sempre più in crisi. (...) Che, nel film dei Taviani, le battute di Shakespeare in bocca a condannati per associazione mafiosa o spaccio suonino credibili, ci conferma che le tragedie moderne sembrano stare di casa più tra sottoproletarie marginali che in ambienti piccolo o alto-borghesi (...). Dopo tutto, in un altro carcere, a Volterra, un grande teatrante visionario come Armando Punzo crea da oltre vent'anni spettacoli belli e importanti mettendo in scena proprio questo dualismo. Una realtà che contraddice Aristotele quando sosteneva che la tragedia, diversamente dalla commedia, deve raccontare persone 'migliori di noi'." (Emiliano Morreale, 'Venerdì di Repubblica', 2 marzo 2012)
"I Taviani e il teatro di Shakespeare. Trasformato in cinema - in un grande cinema - con la trovata geniale di far rappresentare uno dei suoi drammi più celebri, il 'Giulio Cesare', da detenuti di un carcere romano, quello di Rebibbia. Si comincia a colori. Con la ricerca fra i detenuti di quelli che potrebbero recitare in uno spettacolo che dovrà svolgersi tra le mura del carcere. Poi, in uno splendido bianco e nero esaltato dal digitale, inizia il dramma. Con i suoi interpreti che, scortati, lasciano le loro celle per partecipare alle prime prove in un palcoscenico improvvisato: le parti imparate a memoria, le battute dei primi atti, con un'altra splendida trovata, quella di lasciare che i singoli 'attori' si esprimano nei loro dialetti d'origine, in maggioranza meridionali, non solo non sminuendo quel testo quasi sacro ma, anzi, dotandolo di una vitalità e di sapori di cronaca dal vero di cui doveva far sfoggio quasi soltanto quando si recitava al Globe Theatre nell'inglese del Seicento. Allo snodarsi di fronte a noi della vicenda raccontata da Shakespeare, Paolo e Vittorio Taviani hanno qua e là accompagnato l'enunciato di piccoli casi privati di questo o quel detenuto coronati, a un certo momento, dalla constatazione che alcuni di loro fanno sulla contemporaneità di situazioni, per qualcuno anche personali, incontrate in un testo pur distante secoli da loro: quasi a testimoniare dell'eternità dell'arte. Si segue con il fiato sospeso. Certo, grazie a Shakespeare, ma anche per quella interpretazione diretta, anzi, addirittura nuda che, nonostante queste o forse proprio per questo, ad ogni svolta, ad ogni battuta è di una intensità sempre lacerante. Specie quando, per rappresentarci il coro dei Romani prima e dopo l'uccisione di Cesare, non si muovono masse in scena, ma si fanno ascoltare le invettive e le grida di altri detenuti affacciati numerosi da finestre con le sbarre. (...) L'ultimo 'Giulio Cesare' che ho visto al cinema è stato quello di Mankiewicz, nel '53, con Marlon Brando. Da oggi ricorderò con altrettanta ammirazione quello dei fratelli Taviani, con Antonio Frasca." (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo Roma', 2 marzo 2012)
"Dopo i trionfi berlinesi (Orso d'oro, meritatissimo) arriva per 'Cesare deve morire' il momento della verità: l'incontro con il pubblico. La palla passa a voi, cari spettatori: abbiate coraggio, non fidatevi dei luoghi comuni e dei cattivi consiglieri. Vi sussurreranno: Shakespeare, girato in carcere, in bianco e nero, sai che palle! Niente di più falso!!! Innanzi tutto la durata del film (76 minuti compresi i titoli di coda, poco più di un'ora) è già garanzia di capolavoro. Inoltre, ai fratelli Taviani riesce un miracolo calare i versi del Giulio Cesare nella quotidianità dei reclusi di Rebibbia, come fossero i loro pensieri, il loro inconscio, la loro vita." (Alberto Crespi, 'L'Unità', 2 marzo 2012)
"Si svolge in un reparto di sicurezza del carcere romano di Rebibbia e racconta la messa in scena di una tragedia scespiriana recitata da un gruppo di detenuti, sotto la guida del regista Fabio Cavalli da dieci anni impegnato in questa attività, ma non è un documentario, e non è neppure teatro adattato per lo schermo: è un puro distillato del cinema e delle tematiche dei Taviani. (...) Ottimo il sintetico taglio drammaturgico del meraviglioso testo, felice l'idea (di Cavalli) di far parlare gli attori nei loro dialetti; indovinata squadra di interpreti (fra cui straordinari Striano e Vega), la cui vita spericolata alimenta di lacrime e sangue il gioco recitativo; emozione colma di quando si toccano corde umane profonde." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 2 marzo 2012)
"Piacerà a chi ama farsi intrigare dal cinema nel cinema. La giuria del Festival di Berlino evidentemente s'è lasciata coinvolgere assegnando al film un Orso d'oro non demeritato, ma neppure meritatissimo." (Giorgio Carbone, 'Libero', 2 marzo 2012)
"Shakespeare a Rebibbia, interpretato dai detenuti della sezione alta sicurezza. Il 'Giulio Cesare' sembra scritto per loro, che conoscono la violenza. Che conoscono il potere. Orso d'Oro a Berlino, il film dei fratelli Taviani sembra il punto zero di molti gangster movies che raccontano l'avvicendamento delle cupole, l'eliminazione di capi scomodi, i tradimenti. 'Cesare non deve morire' è (anche) la scarnificazione del cinema di genere, riportato su un palcoscenico assoluto, quello di una galera. Il luogo più estremo, dove la libertà è preclusa e restano solo le pulsioni essenziali. La forza del film è nell'aver messo in scena il dramma inglese senza soluzione di continuità: gli attori lo declamano nella loro cella, durante l'ora d'aria, sul palco. Non c'è confine tra la loro vita e la 'finzione', perché la rappresentazione è la prima forma di analisi e l'autocoscienza è tutto ciò che può ridare fiato all'esistenza. Girato in digitale, in un bianco e nero su cui irrompe a tratti un teatralissimo colore, 'Cesare deve morire' è costellato di immagini potenti. Specie quando la macchina da presa scruta le grate del carcere, o distaccata lo osserva dall'esterno, come se Rebibbia fosse un'astronave atterrata per caso sulla terra. In quella astronave ci sono gli elementi primari della vita. In ogni vita c'è la lotta, in ogni vita c'è una galera. Splendida colonna sonora di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, preziosa nel sottolineare la forza dello sguardo." (Eleonora Battocletti, 'Il Fatto Quotidiano', 1 marzo 2012)
http://www.cinematografo.it/pls/cinematografo/consultazione.redirect?sch=54471
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Cesare deve morire, incontro con i fratelli Taviani
Appassionata, commossa e fluviale conferenza stampa, al cinema Nuovo Sacher di Roma, per Cesare deve morire, il film dei fratelli Taviani vincitore dell'Orso d'Oro all'ultimo festival di Berlino. E' il padrone di casa e distributore Nanni Moretti a introdurre i fratelli di San Miniato (in gran forma e giovanissimi, nonostante gli 80 anni di Paolo e gli 82 di Vittorio), coi quali lo lega un vecchio rapporto di stima e amicizia. Come dice Vittorio Taviani: “lui ci faceva vedere i suoi filmini, da giovane, è stato interprete per noi in Padre Padrone, ed è grazie a lui che il nostro film ha avuto la possibilità di uscire, visto che lo avevamo proposto ad altri distributori e non l'avevano voluto”.
Ma come nasce questo film così particolare e toccante, interamente girato nel carcere di Rebibbia di Roma e interpretato da detenuti? “E' stata Daniela Bendoni, press agent di tanti amici, che ci ha detto di andare a Rebibbia a vedere gli spettacoli recitati dai detenuti. Noi eravamo diffidenti, pensavamo che fossero al livello di filodrammatica, ma non conoscevamo ancora il regista Fabio Cavalli, che lavora con loro da dieci anni. Siamo rimasti fulminati ed emozionatissimi, quando siamo andati c'era uno dei detenuti che leggeva l'Inferno di Dante, Paolo e Francesca, e prima di farlo si rivolse al pubblico dicendo: "noi lo comprendiamo fino in fondo perché questo amore impossibile, questa impossibilità di amare la viviamo da tanti anni. Le nostre donne le vediamo una volta ogni tanto attraverso un vetro, alcune non ci aspettano più e siamo disperati, altre sì e in questo caso siamo forse ancora più disperati”. Lo lesse modificando la lingua di Dante, in napoletano, e ci è arrivato un Dante con dei suoni nuovi, strani, che ce lo ha fatto riscoprire. Tutti i nostri film sono sempre nati da un'emozione, e abbiamo deciso di raccontare questa emozione con un'opera cinematografica”.
E perché la scelta del Giulio Cesare di Shakespeare? “Lo abbiamo scelto, dice Vittorio, perché è una storia molto italiana, che contiene pulsioni, sentimenti, congiura, sangue e tradimento, tutte cose che per molti degli attori hanno rappresentato la vita quotidiana, e dunque non sono estranei a questo tipo di sentimenti. Certe cose dette da loro hanno davvero un altro significato, come “perché Bruto è un uomo d'onore”: là dentro sono quasi tutti uomini d'onore. E' un rispecchiamento che è venuto naturale, e abbiamo riscoperto le parole di Shakespeare, che ognuno ha fatto sue nel suo dialetto”.
Cosa ha significato per due paludati registi come loro ricevere l'Orso d'Oro per questo film? Che differenza con la Palma d'Oro di Padre padrone? “Siamo tornati a Berlino quando ci hanno chiamato, pensando di aver vinto il premio speciale della giuria, e osservavamo con crescente stupore gli orsetti che man mano se ne andavano finché ne è rimasto uno solo. E' stato un grande piacere e una grande sorpresa. La prima cosa a cui abbiamo pensato sono stati gli attori e i detenuti che hanno lavorato al film, speriamo che chi li vedrà possa ricordarsi che alcuni di loro possono aver commesso colpe anche orrende, ma sono e restano uomini. L'emozione era rivolta soprattutto a loro, in questo senso è stato diverso dalla Palma d'Oro a Cannes. Moltissimi ci fermano e ci dicono “grazie” per l'Italia, in generale. Questo è un momento in cui c'è il sogno di un cambiamento e questo premio a un film anomalo come il nostro forse asseconda i desideri della gente. Uno ci ha detto – addirittura – di aver messo la bandiera alla finestra. Il ministro della cultura ci ha telefonato e ci ha detto che questo film aiuta chi cerca di dare un'immagine diversa di questo paese. Noi speriamo che questo governo riesca a dare un cambio di rotta, una svolta”.
Moretti di nuovo in veste di intervistatore: vi rivolgo una domanda frivola, che faccio agli esordienti nelle rassegne estive. Prima di questo film avevate un altro progetto? In che momento eravate? Ed è la prima volta che vi cimentate con una troupe minuscola e col digitale. Risponde Vittorio: “Noi facciamo dei film per i nostri incubi notturni. Quando a livello personale vivi i drammi tuoi e degli altri, c'è un momento in cui diventano una domanda angosciante: da quell'humus arriva lo spirito del racconto, arriva una cosa magica, che ti piacerebbe raccontare o vedere anche raccontata da altri. Se non arriva un'emozione forte, chiara, violenta, noi non facciamo film. Prima di questa emozione avevamo progetti molto vaghi. Pirandello diceva che un autore è come una rosa, deve stare molto aperta e rivolta verso il cielo. Bisogna avere la pazienza di aspettare.
E Paolo: “abbiamo girato in digitale con 2 macchine perché non c'erano soldi e all'inizio eravamo molto spaventati e diffidenti. Noi siamo abituati a risparmiare moltissimo con la pellicola, da San Michele aveva un gallo, dove era miseria totale e abbiamo girato 14.000 metri, ad altri film che in media erano di 40/50.000 metri. Qua è stata una pacchia, senza ciak, si continuava a girare. E' il dopo che è stato una condanna perché abbiamo avuto un materiale enorme da montare, è stata una scelta lunga e complicata”.
Avete mai pensato, in quest'amicizia che si è creata coi detenuti, alle vittime dei loro crimini? Vittorio: “E' una domanda giusta. Quando si gira un film si diventa tutti amici, anche degli attori, anche di questi attori. Una guardia carceraria vedendo questa nostra confidenza ci disse “anche a me capita di provare pietà e amicizia per questi carcerati, ma arrivo fino a un certo punto e mi fermo, perché la pietà deve andare alle vittime e ai loro famigliari”. Questa cosa ci ha colpito moltissimo, i sentimenti erano contraddittori, ma sentivamo anche che attraverso lo spettacolo, attraverso Shakespeare, riuscivamo a tirar fuori da loro delle emozioni che purificavano quello che avevano fatto. Quando recitavano momenti drammatici e tragici la loro forza veniva non solo dal semplice talento, ma dal fatto che avevano la coscienza di quello che dicevano, c'era un passato drammatico che usciva dalla loro espressione, una verità, e in quel momento sentivi che erano esseri umani che tutti dobbiamo rispettare”. Alla conferenza stampa sono presenti anche il protagonista Salvatore “Zazà” Striano (Bruto) e Fabio Rizzuto (Stratone), due ex detenuti che nel teatro hanno trovato una seconda vita personale e professionale. E' bello ascoltarli parlare, così come è bello quello che racconta Cavalli sulla frase che chiude il film, del detenuto che la pronuncia, Cosimo Rega (autore di poesie, da 20 anni in carcere) e che può far pensare che la scoperta dell'arte possa rendere ancora più insopportabile il mondo dietro le sbarre: “I napoletani dicono 'chi canosce patisce. In carcere c'è chi pensa di vivere in una dimensione che gli si aggrada, il fatto di finire in prigione è considerato l'incerto del mestiere per persone che nascono in ambienti delinquenziali di tipo associativo. Fino a quando non incontrano una dimensione di sé che è loro sconosciuta, allora subiscono uno shock, scoprono di essere dei potenziali artisti e rimpiangono tutto ciò che hanno perduto. Ma questa consapevolezza dà il messaggio che non è ancora finita, dice a chi sta ancora sbagliando che ha ancora una chance”. In conclusione ci sentiamo di aggiungere che in nome dell'arte, del cinema e dell'umanità, mai Orso d'Oro ebbe un destinatario migliore.
Daniela Catelli
http://www.comingsoon.it/News_Articoli/Interviste/Page/?Key=12082
Ma come nasce questo film così particolare e toccante, interamente girato nel carcere di Rebibbia di Roma e interpretato da detenuti? “E' stata Daniela Bendoni, press agent di tanti amici, che ci ha detto di andare a Rebibbia a vedere gli spettacoli recitati dai detenuti. Noi eravamo diffidenti, pensavamo che fossero al livello di filodrammatica, ma non conoscevamo ancora il regista Fabio Cavalli, che lavora con loro da dieci anni. Siamo rimasti fulminati ed emozionatissimi, quando siamo andati c'era uno dei detenuti che leggeva l'Inferno di Dante, Paolo e Francesca, e prima di farlo si rivolse al pubblico dicendo: "noi lo comprendiamo fino in fondo perché questo amore impossibile, questa impossibilità di amare la viviamo da tanti anni. Le nostre donne le vediamo una volta ogni tanto attraverso un vetro, alcune non ci aspettano più e siamo disperati, altre sì e in questo caso siamo forse ancora più disperati”. Lo lesse modificando la lingua di Dante, in napoletano, e ci è arrivato un Dante con dei suoni nuovi, strani, che ce lo ha fatto riscoprire. Tutti i nostri film sono sempre nati da un'emozione, e abbiamo deciso di raccontare questa emozione con un'opera cinematografica”.
E perché la scelta del Giulio Cesare di Shakespeare? “Lo abbiamo scelto, dice Vittorio, perché è una storia molto italiana, che contiene pulsioni, sentimenti, congiura, sangue e tradimento, tutte cose che per molti degli attori hanno rappresentato la vita quotidiana, e dunque non sono estranei a questo tipo di sentimenti. Certe cose dette da loro hanno davvero un altro significato, come “perché Bruto è un uomo d'onore”: là dentro sono quasi tutti uomini d'onore. E' un rispecchiamento che è venuto naturale, e abbiamo riscoperto le parole di Shakespeare, che ognuno ha fatto sue nel suo dialetto”.
Cosa ha significato per due paludati registi come loro ricevere l'Orso d'Oro per questo film? Che differenza con la Palma d'Oro di Padre padrone? “Siamo tornati a Berlino quando ci hanno chiamato, pensando di aver vinto il premio speciale della giuria, e osservavamo con crescente stupore gli orsetti che man mano se ne andavano finché ne è rimasto uno solo. E' stato un grande piacere e una grande sorpresa. La prima cosa a cui abbiamo pensato sono stati gli attori e i detenuti che hanno lavorato al film, speriamo che chi li vedrà possa ricordarsi che alcuni di loro possono aver commesso colpe anche orrende, ma sono e restano uomini. L'emozione era rivolta soprattutto a loro, in questo senso è stato diverso dalla Palma d'Oro a Cannes. Moltissimi ci fermano e ci dicono “grazie” per l'Italia, in generale. Questo è un momento in cui c'è il sogno di un cambiamento e questo premio a un film anomalo come il nostro forse asseconda i desideri della gente. Uno ci ha detto – addirittura – di aver messo la bandiera alla finestra. Il ministro della cultura ci ha telefonato e ci ha detto che questo film aiuta chi cerca di dare un'immagine diversa di questo paese. Noi speriamo che questo governo riesca a dare un cambio di rotta, una svolta”.
Moretti di nuovo in veste di intervistatore: vi rivolgo una domanda frivola, che faccio agli esordienti nelle rassegne estive. Prima di questo film avevate un altro progetto? In che momento eravate? Ed è la prima volta che vi cimentate con una troupe minuscola e col digitale. Risponde Vittorio: “Noi facciamo dei film per i nostri incubi notturni. Quando a livello personale vivi i drammi tuoi e degli altri, c'è un momento in cui diventano una domanda angosciante: da quell'humus arriva lo spirito del racconto, arriva una cosa magica, che ti piacerebbe raccontare o vedere anche raccontata da altri. Se non arriva un'emozione forte, chiara, violenta, noi non facciamo film. Prima di questa emozione avevamo progetti molto vaghi. Pirandello diceva che un autore è come una rosa, deve stare molto aperta e rivolta verso il cielo. Bisogna avere la pazienza di aspettare.
E Paolo: “abbiamo girato in digitale con 2 macchine perché non c'erano soldi e all'inizio eravamo molto spaventati e diffidenti. Noi siamo abituati a risparmiare moltissimo con la pellicola, da San Michele aveva un gallo, dove era miseria totale e abbiamo girato 14.000 metri, ad altri film che in media erano di 40/50.000 metri. Qua è stata una pacchia, senza ciak, si continuava a girare. E' il dopo che è stato una condanna perché abbiamo avuto un materiale enorme da montare, è stata una scelta lunga e complicata”.
Avete mai pensato, in quest'amicizia che si è creata coi detenuti, alle vittime dei loro crimini? Vittorio: “E' una domanda giusta. Quando si gira un film si diventa tutti amici, anche degli attori, anche di questi attori. Una guardia carceraria vedendo questa nostra confidenza ci disse “anche a me capita di provare pietà e amicizia per questi carcerati, ma arrivo fino a un certo punto e mi fermo, perché la pietà deve andare alle vittime e ai loro famigliari”. Questa cosa ci ha colpito moltissimo, i sentimenti erano contraddittori, ma sentivamo anche che attraverso lo spettacolo, attraverso Shakespeare, riuscivamo a tirar fuori da loro delle emozioni che purificavano quello che avevano fatto. Quando recitavano momenti drammatici e tragici la loro forza veniva non solo dal semplice talento, ma dal fatto che avevano la coscienza di quello che dicevano, c'era un passato drammatico che usciva dalla loro espressione, una verità, e in quel momento sentivi che erano esseri umani che tutti dobbiamo rispettare”. Alla conferenza stampa sono presenti anche il protagonista Salvatore “Zazà” Striano (Bruto) e Fabio Rizzuto (Stratone), due ex detenuti che nel teatro hanno trovato una seconda vita personale e professionale. E' bello ascoltarli parlare, così come è bello quello che racconta Cavalli sulla frase che chiude il film, del detenuto che la pronuncia, Cosimo Rega (autore di poesie, da 20 anni in carcere) e che può far pensare che la scoperta dell'arte possa rendere ancora più insopportabile il mondo dietro le sbarre: “I napoletani dicono 'chi canosce patisce. In carcere c'è chi pensa di vivere in una dimensione che gli si aggrada, il fatto di finire in prigione è considerato l'incerto del mestiere per persone che nascono in ambienti delinquenziali di tipo associativo. Fino a quando non incontrano una dimensione di sé che è loro sconosciuta, allora subiscono uno shock, scoprono di essere dei potenziali artisti e rimpiangono tutto ciò che hanno perduto. Ma questa consapevolezza dà il messaggio che non è ancora finita, dice a chi sta ancora sbagliando che ha ancora una chance”. In conclusione ci sentiamo di aggiungere che in nome dell'arte, del cinema e dell'umanità, mai Orso d'Oro ebbe un destinatario migliore.
Daniela Catelli
http://www.comingsoon.it/News_Articoli/Interviste/Page/?Key=12082
Lo último de los Taviani viene a demostrar que la más viva y juvenil creación nada tiene que ver con la edad del creador. César debe morir no es sólo una de las mejores películas de estos octogenarios cineastas sino, también, una reflexión sobre las posibilidades del relato menos efectista y mucho más sobria y compleja que la que realizó François Ozon en En la Casa.
Y es que, aunque los dos proyectos se parecen, las diferencias se hacen patentes incluso en sus semejanzas. Por ejemplo, sendos trabajos toman de base la literatura pero mientras la producción francesa usa un texto inventado para la ocasión, la italiana se sustenta en el clásico escrito por Shakespeare sobre la traición al célebre emperador.
Así es, César debe morir es la representación teatral filmada de la obra del genio británico a cargo de una serie de presos de la cárcel romana de Rebibbia donde habitan peligrosos convictos que encuentran en el arte una vía de liberación. Como curiosidad, decir que es ahí donde reside el protagonista de Reality condenado por asesinato.
Se trata de un film poderoso y elocuente que nos introduce en su mundo desde una primera secuencia que deja bien claras sus pretensiones: tomando como punto de partida la recreación del final de la tragedia, la ficción dialoga con el teatro para, a continuación, abrazar el documental a través de la filmación del aplauso del público. A partir de ahí, la cinta retrocederá en el tiempo (con un uso demasiado obvio del blanco y negro) para mostrar cómo preparan estos peculiares actores su papel.
La lucha entre personaje y persona se dispara. Los protagonistas discuten y no sabemos con certeza si lo que vemos es la realidad o su rutina colándose por el interior de sus interpretaciones pero la cámara ni se lo pregunta ni se impone límites: el uso del jump-cut, el montaje ágil, la superposición de voces (algunas en off) y de capas de relato se dan cita en el metraje de un modo tan natural que la realización casi deja a Ozon por un impostor.
Y del documento carcelario al testimonio personal de cada preso que surge a raíz del uso de la música diegética para, seguidamente, convertirnos en espectadores de lujo de la puesta en escena del texto aunque desde su preparación, no desde su acabado. Al igual que en la estupenda Ne change rien de Pedro Costa no importa tanto el resultado como el viaje. Documentar el trayecto es hoy más importante que visionar una obra mil veces representada.
Así, y como ocurre en muchas de las grandes películas de la actualidad, los espacios sufren una brutal abstracción. Ya no es necesario que el fondo ilustre un paisaje determinado, lo que importa realmente es el gesto. En él podemos atisbar algo de la personalidad y del pasado de los sujetos mientras Shakespeare se yergue como un autor sin fecha de caducidad. Es decir, el periplo nos ha llevado, finalmente, del testimonio hasta el ensayo sobre la creación (que pivota sobre la figura del director de la producción teatral) trasgredido en última instancia por la dolorosa realidad de cada hombre encarcelado.
César debe morir es, pues, una singular mezcla de tragedias (la histórica y la actual, las personales y la global) capaz de levantar acta sobre las posibilidades de la reinvención fílmica al tomar por sustrato la Historia y los logros de otras disciplinas artísticas. Que en un instante del metraje la trama desemboque en una elocuente rebelión ficticia dentro de la cárcel nos advierte de su poder liberador (subrayado inútilmente en la conclusión) pero, también, de su juventud y su vigencia humanística.
Alberto Varet Pascual
http://www.eldestiladorcultural.es/cine/critica/cesar-debe-morir-paolo-taviani-vittorio-taviani/
Y es que, aunque los dos proyectos se parecen, las diferencias se hacen patentes incluso en sus semejanzas. Por ejemplo, sendos trabajos toman de base la literatura pero mientras la producción francesa usa un texto inventado para la ocasión, la italiana se sustenta en el clásico escrito por Shakespeare sobre la traición al célebre emperador.
Así es, César debe morir es la representación teatral filmada de la obra del genio británico a cargo de una serie de presos de la cárcel romana de Rebibbia donde habitan peligrosos convictos que encuentran en el arte una vía de liberación. Como curiosidad, decir que es ahí donde reside el protagonista de Reality condenado por asesinato.
Se trata de un film poderoso y elocuente que nos introduce en su mundo desde una primera secuencia que deja bien claras sus pretensiones: tomando como punto de partida la recreación del final de la tragedia, la ficción dialoga con el teatro para, a continuación, abrazar el documental a través de la filmación del aplauso del público. A partir de ahí, la cinta retrocederá en el tiempo (con un uso demasiado obvio del blanco y negro) para mostrar cómo preparan estos peculiares actores su papel.
La lucha entre personaje y persona se dispara. Los protagonistas discuten y no sabemos con certeza si lo que vemos es la realidad o su rutina colándose por el interior de sus interpretaciones pero la cámara ni se lo pregunta ni se impone límites: el uso del jump-cut, el montaje ágil, la superposición de voces (algunas en off) y de capas de relato se dan cita en el metraje de un modo tan natural que la realización casi deja a Ozon por un impostor.
Y del documento carcelario al testimonio personal de cada preso que surge a raíz del uso de la música diegética para, seguidamente, convertirnos en espectadores de lujo de la puesta en escena del texto aunque desde su preparación, no desde su acabado. Al igual que en la estupenda Ne change rien de Pedro Costa no importa tanto el resultado como el viaje. Documentar el trayecto es hoy más importante que visionar una obra mil veces representada.
Así, y como ocurre en muchas de las grandes películas de la actualidad, los espacios sufren una brutal abstracción. Ya no es necesario que el fondo ilustre un paisaje determinado, lo que importa realmente es el gesto. En él podemos atisbar algo de la personalidad y del pasado de los sujetos mientras Shakespeare se yergue como un autor sin fecha de caducidad. Es decir, el periplo nos ha llevado, finalmente, del testimonio hasta el ensayo sobre la creación (que pivota sobre la figura del director de la producción teatral) trasgredido en última instancia por la dolorosa realidad de cada hombre encarcelado.
César debe morir es, pues, una singular mezcla de tragedias (la histórica y la actual, las personales y la global) capaz de levantar acta sobre las posibilidades de la reinvención fílmica al tomar por sustrato la Historia y los logros de otras disciplinas artísticas. Que en un instante del metraje la trama desemboque en una elocuente rebelión ficticia dentro de la cárcel nos advierte de su poder liberador (subrayado inútilmente en la conclusión) pero, también, de su juventud y su vigencia humanística.
Alberto Varet Pascual
http://www.eldestiladorcultural.es/cine/critica/cesar-debe-morir-paolo-taviani-vittorio-taviani/
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I grandi classici avevano incontrato la camorra dieci anni prima che i fratelli Taviani portassero Shakespeare nel braccio Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia, dove di camorra se ne respira parecchia.
Si trattava dell’Orestea di Eschilo (già tradotta da Pier Paolo Pasolini per Vittorio Gassman - XVI ciclo delle Rappresentazioni Classiche, 1960) e Antonio Capuano usava il testo classico per raccontare la tragedia, ascesa e soprattutto caduta, della famiglia dei Cammarano in epoca contemporanea. Un film dove Oreste parlava napoletano, Clitemnestra aveva il volto di Licia Maglietta, Agamennone quello di Toni Servillo ed Egisto quello di un immenso Antonino Iurio.
Riuscito o meno che fosse, il film era potente, duro come quasi tutto il cinema di Antonio Capuano. E Luna Rossa non faceva eccezione: deflagrava e turbava.
Questo Shakespeare dei fratelli Taviani ha la stessa forza deflagrante, al di là qualche limite, primo fra tutti quello di far rimpiangere la “cattiveria” di Capuano.
Fabio Cavalli, nobile regista teatrale che opera nelle carceri con uno spirito necessariamente missionario, allestisce un nuovo corso di teatro che deve portare all’allestimento del Giulio Cesare, opera shakespeariana datata 1599. Vediamo un folto gruppo di detenuti che più o meno timidamente partecipa alla presentazione dell’evento. Già lì, tutti ammassati che ascoltano Cavalli raccontare un’idea, fanno uno strano effetto, corpi sgraziati, segnati, duri, cupi, guardinghi, tutti attenti e quasi intimiditi. Si ha da subito l’impressione di guardare un’umanità altra, lontana.
Fanno seguito dei provini per la scelta degli interpreti principali: sequenza di volti che vuole essere – ed inizialmente ci riesce – forte come uno schiaffo che non ti aspetti, ma che per eccesso di lunghezza scivola un po’ nella noia. Il bianco e nero sgrana i volti segnati come carte geografiche di territori sconosciuti, le voci tuonano echeggiando nelle stanze di cemento.
Subito dopo il gruppo è scelto, gli attori principali selezionati: Cesare, Bruto e Cassio sorridono timidi in camera, con la vergogna di un entusiasmo che faticano a mostrare.
Quasi come un monito ad affezionarsi ma non troppo, didascalie veloci ci raccontano, senza violarne troppo il privato, perché questi uomini sono lì e per quanto ancora dovranno starci. Cassio è un “fine pena mai”, per omicidio, evidentemente plurimo o con aggravanti. Informazione che si fatica a mettere da parte per tutto il film e che traspare con l’evidenza della colpa sul suo volto dolente, triste eppure intenso e brillante, di un’intelligenza talmente pura che in ogni singolo momento in cui calca la scena si soffre di una partecipazione e di un conflitto emotivo che, già di per sé, fanno di questo film un’esperienza interattiva rara.
Cassio, alias Cosimo Rega, e Bruto, alias Sasà Striano, sono l’anima e il corpo di questo film.
I fratelli Taviani non hanno dovuto fare molto, il più l’hanno fatto avendo l’idea. Il resto è un meccanismo innescato che ha dalla sua una potenza senza cedimenti: il braccio di Alta Sicurezza di Rebibbia, Shakespeare e i carcerati, i colpevoli, gli assassini, i traditori, gli uomini reietti e rifiutati che nessuno vuole vedere, che nessuno vuole amare o tantomeno capire. Una miscela fatale che può mettere alla prova qualsiasi resistenza, un incontro perfetto perché il Giulio Cesare è più di altre l’opera dell’amicizia tradita, del potere, della libertà, dei rapporti umani spezzati. Chi meglio di un uomo che si porta sulle spalle il tradimento, la vita interrotta, la libertà perduta, che ha nel proprio passato vissuto un potere che lo ha traviato e destinato a rendersi colpevole, può incontrare nella congiura delle idi di marzo il proprio testo d’elezione?
I Taviani mettono in scena una catarsi e lo fanno nel modo cinematograficamente più classico: apertura e chiusura sulla stessa scena, uso didascalico ma funzionale del colore e di un bellissimo bianco e nero, che ci salva dal rischio neorealista televisivo delle riprese in interno carcerario, e ambientazione dell’opera nei luoghi del carcere. Non c’è confine né soluzione di continuità tra l’opera e la vita: si fondono, sono la stessa cosa e l’opera prende vita nei corridoi, nel cortile durante l’ora d’aria, nella cella mentre si guarda il soffitto, nella biblioteca del carcere o mentre si lava un pavimento.
I carcerati parlano Shakespeare e Shakespeare parla per loro, tant’è che si sceglie di lasciarlo declamare nel dialetto di origine, in modo che ognuno possa farlo proprio e non sentirlo distante.
E qui s’insinua il vero limite del film, che pecca di retorica in due scelte stonate. La prima è quella di inserire il privato degli attori carcerati, scelta che allontana, distrae e non è necessaria: l’opera parla per loro molto più di quanto loro stessi riescano a fare. La seconda è quella di mettere in bocca a Cassio una frase dalla retorica a dir poco disturbante: “da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”. Eccesso di enfasi inutile per un film che nei suoi essenziali 76 minuti il concetto l’aveva espresso molto bene e in termini già ridondanti. La sottolineatura per lo spettatore che non se la merita davvero stona e infastidisce.
Un po’ di ruvidezza e di coraggiosa sgradevolezza sarebbe stata più apprezzata.
Resta la potenza delle immagini, delle parole, dei volti e dei corpi. Resta la forza di un’idea nobile e non priva di coraggio. Resta un gran bel film, meritevole e nobile, ma certamente non il capolavoro strombazzato da una stampa faziosa con l’unico scopo di glorificare un intero cinema nazionale.
Margherita Chiti
http://www.doppiozero.com/materiali/odeon/paolo-e-vittorio-taviani-cesare-deve-morire
Si trattava dell’Orestea di Eschilo (già tradotta da Pier Paolo Pasolini per Vittorio Gassman - XVI ciclo delle Rappresentazioni Classiche, 1960) e Antonio Capuano usava il testo classico per raccontare la tragedia, ascesa e soprattutto caduta, della famiglia dei Cammarano in epoca contemporanea. Un film dove Oreste parlava napoletano, Clitemnestra aveva il volto di Licia Maglietta, Agamennone quello di Toni Servillo ed Egisto quello di un immenso Antonino Iurio.
Riuscito o meno che fosse, il film era potente, duro come quasi tutto il cinema di Antonio Capuano. E Luna Rossa non faceva eccezione: deflagrava e turbava.
Questo Shakespeare dei fratelli Taviani ha la stessa forza deflagrante, al di là qualche limite, primo fra tutti quello di far rimpiangere la “cattiveria” di Capuano.
Fabio Cavalli, nobile regista teatrale che opera nelle carceri con uno spirito necessariamente missionario, allestisce un nuovo corso di teatro che deve portare all’allestimento del Giulio Cesare, opera shakespeariana datata 1599. Vediamo un folto gruppo di detenuti che più o meno timidamente partecipa alla presentazione dell’evento. Già lì, tutti ammassati che ascoltano Cavalli raccontare un’idea, fanno uno strano effetto, corpi sgraziati, segnati, duri, cupi, guardinghi, tutti attenti e quasi intimiditi. Si ha da subito l’impressione di guardare un’umanità altra, lontana.
Fanno seguito dei provini per la scelta degli interpreti principali: sequenza di volti che vuole essere – ed inizialmente ci riesce – forte come uno schiaffo che non ti aspetti, ma che per eccesso di lunghezza scivola un po’ nella noia. Il bianco e nero sgrana i volti segnati come carte geografiche di territori sconosciuti, le voci tuonano echeggiando nelle stanze di cemento.
Subito dopo il gruppo è scelto, gli attori principali selezionati: Cesare, Bruto e Cassio sorridono timidi in camera, con la vergogna di un entusiasmo che faticano a mostrare.
Quasi come un monito ad affezionarsi ma non troppo, didascalie veloci ci raccontano, senza violarne troppo il privato, perché questi uomini sono lì e per quanto ancora dovranno starci. Cassio è un “fine pena mai”, per omicidio, evidentemente plurimo o con aggravanti. Informazione che si fatica a mettere da parte per tutto il film e che traspare con l’evidenza della colpa sul suo volto dolente, triste eppure intenso e brillante, di un’intelligenza talmente pura che in ogni singolo momento in cui calca la scena si soffre di una partecipazione e di un conflitto emotivo che, già di per sé, fanno di questo film un’esperienza interattiva rara.
Cassio, alias Cosimo Rega, e Bruto, alias Sasà Striano, sono l’anima e il corpo di questo film.
I fratelli Taviani non hanno dovuto fare molto, il più l’hanno fatto avendo l’idea. Il resto è un meccanismo innescato che ha dalla sua una potenza senza cedimenti: il braccio di Alta Sicurezza di Rebibbia, Shakespeare e i carcerati, i colpevoli, gli assassini, i traditori, gli uomini reietti e rifiutati che nessuno vuole vedere, che nessuno vuole amare o tantomeno capire. Una miscela fatale che può mettere alla prova qualsiasi resistenza, un incontro perfetto perché il Giulio Cesare è più di altre l’opera dell’amicizia tradita, del potere, della libertà, dei rapporti umani spezzati. Chi meglio di un uomo che si porta sulle spalle il tradimento, la vita interrotta, la libertà perduta, che ha nel proprio passato vissuto un potere che lo ha traviato e destinato a rendersi colpevole, può incontrare nella congiura delle idi di marzo il proprio testo d’elezione?
I Taviani mettono in scena una catarsi e lo fanno nel modo cinematograficamente più classico: apertura e chiusura sulla stessa scena, uso didascalico ma funzionale del colore e di un bellissimo bianco e nero, che ci salva dal rischio neorealista televisivo delle riprese in interno carcerario, e ambientazione dell’opera nei luoghi del carcere. Non c’è confine né soluzione di continuità tra l’opera e la vita: si fondono, sono la stessa cosa e l’opera prende vita nei corridoi, nel cortile durante l’ora d’aria, nella cella mentre si guarda il soffitto, nella biblioteca del carcere o mentre si lava un pavimento.
I carcerati parlano Shakespeare e Shakespeare parla per loro, tant’è che si sceglie di lasciarlo declamare nel dialetto di origine, in modo che ognuno possa farlo proprio e non sentirlo distante.
E qui s’insinua il vero limite del film, che pecca di retorica in due scelte stonate. La prima è quella di inserire il privato degli attori carcerati, scelta che allontana, distrae e non è necessaria: l’opera parla per loro molto più di quanto loro stessi riescano a fare. La seconda è quella di mettere in bocca a Cassio una frase dalla retorica a dir poco disturbante: “da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”. Eccesso di enfasi inutile per un film che nei suoi essenziali 76 minuti il concetto l’aveva espresso molto bene e in termini già ridondanti. La sottolineatura per lo spettatore che non se la merita davvero stona e infastidisce.
Un po’ di ruvidezza e di coraggiosa sgradevolezza sarebbe stata più apprezzata.
Resta la potenza delle immagini, delle parole, dei volti e dei corpi. Resta la forza di un’idea nobile e non priva di coraggio. Resta un gran bel film, meritevole e nobile, ma certamente non il capolavoro strombazzato da una stampa faziosa con l’unico scopo di glorificare un intero cinema nazionale.
Margherita Chiti
http://www.doppiozero.com/materiali/odeon/paolo-e-vittorio-taviani-cesare-deve-morire
Siempre reviso sus novedades. Gracias por compartir tan buenas producciones. Muy originales sin duda alguna. Saludos desde Perú.
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