TÍTULO ORIGINAL Il gabbiano
AÑO 1977
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACIÓN 124 min.
DIRECTOR Marco Bellocchio
GUIÓN Marco Bellocchio, Lù Leone, Sandro Petraglia, Stefano Rulli (obra: Anton Chekhov)
MÚSICA Nicola Piovani
FOTOGRAFÍA Silvano Agosti
REPARTO Remo Girone, Laura Betti, Pamela Villoresi, Giulio Brogi, Gisella Burinato, Antonio Piovanelli, Mattia Pinoli, Clara Colosimo, Remo Remotti, Gaetano Campisi
PRODUCTORA Italtelevisionfilm / Radiotelevisione Italiana
GÉNERO Drama
AÑO 1977
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACIÓN 124 min.
DIRECTOR Marco Bellocchio
GUIÓN Marco Bellocchio, Lù Leone, Sandro Petraglia, Stefano Rulli (obra: Anton Chekhov)
MÚSICA Nicola Piovani
FOTOGRAFÍA Silvano Agosti
REPARTO Remo Girone, Laura Betti, Pamela Villoresi, Giulio Brogi, Gisella Burinato, Antonio Piovanelli, Mattia Pinoli, Clara Colosimo, Remo Remotti, Gaetano Campisi
PRODUCTORA Italtelevisionfilm / Radiotelevisione Italiana
GÉNERO Drama
SINOPSIS Un joven escritor se encuentra atrapado entre su madre (Laura Betti), una horrible actriz, y el conocimiento de que sólo tiene un talento mediocre como dramaturgo y un carácter casi nulo. Después de que el joven sufra la pérdida de su amante a manos de su padrastro, también novelista, su autoestima queda tan destrozada que se suicida. Adaptación italiana de La gaviota del dramaturgo ruso Anton Chéjov.(FILMAFFINITY)
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Subtítulos (Inglés)
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Il confronto con il testo di Cechov si traduce nella necessità e nel desiderio di Bellocchio di tornare ad intraprendere una riflessione più personale, di addentrarsi negli abissi silenziosi ed oscuri che scuotono l'anima e di indagare sul ruolo dell'artista, continuamente condannato ad inseguire e a perdersi nell'arte stessa, costretto a discendere nell'impervio e doloroso territorio al limite tra l'integrità e il compromesso. L'amore, a causa del quale i personaggi de Il gabbiano continuano a rincorrersi in un crudele circolo di dolore, dominato dall'ipocrisia, dove è impossibile raggiungere e possedere il soggetto amato, diventa un moto di vampirizzazione del proprio essere, consumato come quello di Arkadina (Laura Betti) nell'opportunismo cosciente del proprio egoismo e della propria transitorietà, esaurito come quello di Nina (Pamela Villoresi) in una misera abdicazione della ragione e perso in una fede illusoria, cancellato come quello di Kostja (Remo Girone) dalla coscienza che l'arte non è una via salvifica, ma una discesa verso gli inferi, sospeso come quello di Trigorin (Giulio Brogi), impotente ed inetto spettatore della propria artificiosità, che contamina l'innocenza e la gioventù per servire la propria arte. La costruzione per sottrazione de Il gabbiano, in cui Cechov elimina dalla scena l'evidenza del gesto e toglie rilevanza all'intreccio per riuscire a penetrare profondamente nel mondo intimo e nell'inconscio dei suoi personaggi, che dialogano tra loro e con lo spettatore in un ininterrotto e passivo monologo interiore, amplificando a dismisura il vuoto e la distanza che li soffoca, viene estremizzato dallo sguardo cinematografico adottato da Bellocchio grazie alla scelta formale di isolare i personaggi che popolano la scena ritraendoli rinchiusi in un fitto susseguirsi di primi piani, grazie all'immobilità dei corpi, annullati nella loro esteriorità per dare spazio all'azione interiore, scolpita nella gestualità nervosa dei volti. Lo scenario nel quale si svolgono i primi due atti, gli esterni dove ancora si respira un alito di vita, dove oltre la crudeltà dei rapporti umani è ancora possibile esistere nel proprio sogno, scivola nella labirintica e claustrofobica costruzione del terzo e soprattutto del quarto atto, chiuso negli interni della villa di Sorin dove sempre più la visione si perde nell'oscurità degli ambienti, dove i personaggi si muovono l'uno vicino all'altro eppure irrimediabilmente isolati, fino all'epilogo finale, dove il corpo senza vita di Kostja, mostrato allo spettatore attraverso lo sguardo di Dorn (Remo Remotti), è inghiottito nell'ombra e consegnato al silenzio, in una delle rare ed importanti deviazioni dal tracciato segnato da Cechov operate da Bellocchio, insieme alla scelta di Laura Betti nel ruolo di Arkadina, che perde il fascino soave ed ipocritamente ammaliatore del personaggio pensato da Cechov per irrompere sullo schermo nella figura imperiosa e disperata della madre castratrice.
http://www.sentieriselvaggi.it/5/20621/DVD_-_Il_gabbiano,_di_Marco_Bellocchio.htm
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Cechov è un autore al quale spesso il cinema si è rivolto. Sono stati soprattutto i sovietici a trasporne sullo schermo racconti e pièces teatrali, sin dagli anni venti, e in genere l'hanno fatto irreprensibilmente: da Cariche e uomini (1929) di Protazanov a La signora con il cagnolino (1960) di Keifitz, la filmografia cechoviana testimonia di un amore per il grande scrittore russo, trasfuso in adattamenti ligi ai testi originari e al loro spirito e inventivi sul piano del linguaggio. Nelle assidue frequentazioni che la cinematografia sovietica ha avuto con la letteratura russa dell'Ottocento, Cechov costituisce un caso a sé per l'originalità e per la freschezza di rinvii, il più delle volte lungi dal concludersi in paludate commemorazioni e in accademici saggi illustrativi. Sporadici sono stati gli incontri delle altre cinematografie con Cechov: anche in Italia a qualche sua novella c'è chiesto lumi in alcune circostanze calcolabili sulle dita di una mano. Il primo regista italiano che si riaccosta a Cechov è Marco Bellocchio che, per conto della Rai-Tv, ha desunto da Il gabbiano un film dinanzi al quale inorridiranno le vestali della tradizione. Temerarietà ce ne vuole abbastanza per un cineasta, che non sia tentato di scomodare gli archetipi più ammirati. Bellocchio non ne è sprovvisto e gli è di giovamento l'irremovibilità nell'impuntatura di cancellare dalla mente il ricordo dei film cechoviani finora prodotti e di non assimilare influssi dalle regie teatrali che, nel nome di Cechov, hanno associato fervidi ingegni: da Visconti a Strehler. Un bell'atto di coraggio, sta nel vietarsi di ritagliare una fetta di Russia in qualche pianura del Settentrione e pretendere di renderla credibile al cento per cento. Sia perciò lodata l'approssimazione scenografica, sia lodato ne Il gabbiano il partito preso di non ricreare, appoggiandosi ai documenti iconografici, una vetrina di museo e sia benvenuto l'antiviscontismo di Bellocchio, la mancanza di scrupolosità filologica e di pignolerie che altrimenti avrebbero facilitato il cristallizzarsi della materia cechoviana, se non la sua riduzione a una sfilata di quadretti calcografici. E non ci sembra che disturbi un paesaggio inconfondibilmente nostrano e tuttavia nella sua mestizia mediatore ideale di un mondo poetico; un paesaggio armonizzato alla pittura cechoviana che negli sfondi, nelle comici dell'azione drammatica, nelle ricostruzioni ambientali ricercava più che l'immagine esatta e fotografica della quotidianità il segno corrispondente, nelle cose e nella natura, di un malessere che invade gli esseri umani. L'azzardo, commesso a carte scoperte da Bellocchio, non si giustifica quindi in ragione di esigenze pratiche, ma trae motivi da una lettura non riduttiva e pedestremente storicistica di Cechov e da una regia che bandisce i registi naturalistici. Suggerita più che ricostruita minuziosamente, la Russia di Bellocchio non rappresenta la collocazione storico-geografica di un dramma, ma adombra una condizione generalizzata. Un modo questo per togliere Cechov dagli altari e dalle teche e di farcelo sentire a noi contemporaneo, descrittore di inquietudini non relegabili nella memoria letteraria né in circoscrizioni temporali distanti dalle nostre. Una profanazione delle pedanterie naturalistiche questa che libera Cechov dalla vocazione archeologica dei registi che lo rivisitano, prevalentemente in teatro, con ossequiosa condiscendenza ai modelli di Stanislavskij e Dancenko, peraltro eccelsi ma ormai mummificati e generatori involontari di operazioni mimetiche e ripetitive. Bellocchio rinnova Cechov e non si ferma alla superficie. la struttura del lavoro teatrale è ritoccata tutta: i ritmi dell'andamento scenico vengono ristretti, scompaiono i silenzi, i tempi morti, le pause allungate, è sfoltita la partitura che ha permesso di fraintendere Cechov e di scam
biarlo per un atmosferista incline a crepuscolari immalinconimenti. La macchina da presa non si allontana dai personaggi per tenerli sospesi in uno spazio da occupare con notazioni che diano la preminenza alla distillazione di un clima; anche i suoni e i rumori che, sulla scena, musicalizzano la drammaturgia cechoviana sono impaginati con criteri di massima funzionalità e realismo, non per produrre risonanze ed echi suggestivi. Il primo piano è il campo visivo dominante ne Il gabbiano di Bellocchio, e vi si trattengono i protagonisti, per ritrovare nella vicinanza dei volti all'obiettivo cinematografico e nell'isolamento dei singoli visi la misura particolarissima dei dialoghi cechoviana, in cui chi parla interroga se stesso più che interloquire con gli altri e rimugina soliloqui e rincorre riflessioni solo occasionalmente correlate a quelle dei partecipanti ai conversari. È come se ognuno stessa a guardarsi allo specchio e dinanzi al pubblico si incrociassero monologhi, che di una comunicazione colloquiale hanno le parvenze. La disarmonia e le dissociazioni delle battute cechoviane, la fissità dei personaggi e il loro monadismo escono ribaditi dal film di Bellocchio, financhè dalla inflessione trasognata e un po' stonata con la quale alcuen figure del contorno intervengono. Bellocchio non addolcisce ciascun ritratto e ciascuna confessione e non li inquadra nel commento di una pena intenerita; non v'è posto per struggimenti e svenata tristezza in questo Gabbiano che trasuda angoscia, disperazione, sentore di morte e ribolle di tensioni che si addensano e stanno per prendere fuoco.
Mino Argentieri, Cinemasessanta, n. 121 maggio-giugno 1978
http://www.municipio.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitoloRB/C4B5F6E4869108D1C12577010039CF03?opendocument
biarlo per un atmosferista incline a crepuscolari immalinconimenti. La macchina da presa non si allontana dai personaggi per tenerli sospesi in uno spazio da occupare con notazioni che diano la preminenza alla distillazione di un clima; anche i suoni e i rumori che, sulla scena, musicalizzano la drammaturgia cechoviana sono impaginati con criteri di massima funzionalità e realismo, non per produrre risonanze ed echi suggestivi. Il primo piano è il campo visivo dominante ne Il gabbiano di Bellocchio, e vi si trattengono i protagonisti, per ritrovare nella vicinanza dei volti all'obiettivo cinematografico e nell'isolamento dei singoli visi la misura particolarissima dei dialoghi cechoviana, in cui chi parla interroga se stesso più che interloquire con gli altri e rimugina soliloqui e rincorre riflessioni solo occasionalmente correlate a quelle dei partecipanti ai conversari. È come se ognuno stessa a guardarsi allo specchio e dinanzi al pubblico si incrociassero monologhi, che di una comunicazione colloquiale hanno le parvenze. La disarmonia e le dissociazioni delle battute cechoviane, la fissità dei personaggi e il loro monadismo escono ribaditi dal film di Bellocchio, financhè dalla inflessione trasognata e un po' stonata con la quale alcuen figure del contorno intervengono. Bellocchio non addolcisce ciascun ritratto e ciascuna confessione e non li inquadra nel commento di una pena intenerita; non v'è posto per struggimenti e svenata tristezza in questo Gabbiano che trasuda angoscia, disperazione, sentore di morte e ribolle di tensioni che si addensano e stanno per prendere fuoco.
Mino Argentieri, Cinemasessanta, n. 121 maggio-giugno 1978
http://www.municipio.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitoloRB/C4B5F6E4869108D1C12577010039CF03?opendocument
Il maestro dei pugni in tasca
Il suo esordio, nel 1965, con “I pugni in tasca” fu di grande impatto cinematografico, sociale, politico. Il “piccolo film”, completato con i propri soldi, ambientato nella bassa Padana, descriveva una famiglia piccolo borghese, esemplarmente “mostruosa”, frutto di un connubio perverso di trasformazioni economiche e patologie mentali.
“I pugni in tasca”, scritto e diretto prima dei mutamenti epocali del 1968, è ancora vissuto come il film rappresentativo di quel periodo storico, soprattutto per la carica provocatoria e spietata del suo contenuto, ma anche per un modo di girare inedito nel cinema italiano: pensiamo all’uso della colonna sonora o ai “crudeli” primi piani, che rivelano l’anima dei personaggi e le loro schizofrenie. Altro elemento, rimasto costante nella filmografia di Marco Bellocchio, è l’attenzione alla performance attoriale.
Ne “I pugni in tasca”, per esempio, Lou Castel è una rivelazione, destinato a diventare un’icona del cinema d’impegno sociale, e Paola Pitagora, la coprotagonista, mostra una grinta unica, spiazzando gli spettatori, i quali l’avevano identificata esageratamente nella patetica Lucia dei “Promessi sposi” televisivi di Sandro Bolchi.
Da quel momento, la carriera dell’artista piacentino si svolgerà in maniera particolare, tra successi, scandali, riconoscimenti, momenti in cui sembrò sovrapporsi, alla creatività del regista, la crisi della società e del cinema italiano. Rimane un caso il “basagliano” “Matti da slegare” (1975, opera collettiva, purtroppo girata con mezzi “poveri”) testimonianza di un modo differente di affrontare la malattia mentale e la “diversità” sociale, che, se non ebbe una distribuzione decente in sala, fu visto, provocando animati dibattiti, nei circoli del cinema, nelle associazioni, nei consultori, un film che aiutò gli italiani a crescere.
Marco Bellocchio lavorò anche per la televisione (da ricordare almeno lo splendido “Gabbiano”, 1977, tratto da Cechov, di cui si sottolineano i forti contrasti generazionali presenti nell’opera dello scrittore russo) e proseguì, poi, il suo percorso filmico con il discusso sodalizio con lo psicanalista Massimo Fagioli con cui “firmò” le sceneggiature di alcune pellicole che suscitarono pareri critici contraddittori (“Il sogno della farfalla”, “Orso d’oro” a Berlino nel 1994, “La condanna”, 1990). La maturità di Bellocchio, invece, si esprime in pellicole belle, di alto livello formale e sostenute da sceneggiature ben elaborate. Così nascono “La balia”, 1996 (tratta liberamente da una novella di Pirandello, scrittore di cui, nel 1984, aveva trascritto una interessante versione di “Enrico IV”), “Buongiorno notte” (si ricordino i fischi del pubblico per il mancato Leone d’oro a Venezia 2003), “L’ora di religione”(2002), “Il regista di matrimoni”, 2005, fino a “Vincere” sulla tragica vicenda di Ida Dalser, moglie ripudiata di Mussolini e del di lei figlio, ambedue “cancellati” dalla Storia e morti in manicomio, finché un accurato documentario di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli (“Il segreto di Mussolini”, 2005) riportò in auge la loro incredibile vicenda, ispirando il bel film di Bellocchio, presentato l’anno scorso al Festival di Cannes.
A questo regista così sorprendente e di grande spessore, la Società-Umanitaria-Cineteca Sarda, supportata dal Comune di Cagliari, dedica una retrospettiva importante. Non comprende l’opera omnia di Bellocchio, ma, scegliendo i suoi film meno frequentati ed alcuni tra i più controversi, chiede allo spettatore di ripensare un percorso artistico, tenendo la giusta distanza dalle sovrastrutture del tempo in cui furono girati, di riflettere su pellicole superficialmente analizzate o troppo gravate da significati politici. I curatori Antonello Zanda e Gianni Olla hanno sicuramente compiuto un’opzione intelligente, che va oltre la piattezza di alcune rassegne, le quali, a volte, vengono svuotate dal piacere di una nuova visione con, magari, differente giudizio finale.
Ai film saranno, come di consueto, abbinati approfondimenti con esperti come Paola Malanga (venerdì 16 aprile prima della proiezione de “La Cina è vicina”) e critici cinematografici. Il 7 maggio, poi, a concludere la manifestazione, presenzierà lo stesso Bellocchio accompagnato dal giornalista Enrico Magrelli. Un incontro da non perdere per il pubblico sempre numeroso della Cineteca, a cui verrà data la possibilità di porre questioni e osservazioni al regista, dopo aver percorso per un mese i sogni e gli incubi di un cineasta che, non disdegnando la tecnica raffinata e pure la spettacolarizzazione, ha con coerenza, tentato di usare la sua arte per ribadire la giusta forza del dubbio.
http://www.cinemecum.it/newsite/index.php?option=com_content&view=article&id=2443:il-maestro-dei-pugni-in-tasca&catid=62&Itemid=350
“I pugni in tasca”, scritto e diretto prima dei mutamenti epocali del 1968, è ancora vissuto come il film rappresentativo di quel periodo storico, soprattutto per la carica provocatoria e spietata del suo contenuto, ma anche per un modo di girare inedito nel cinema italiano: pensiamo all’uso della colonna sonora o ai “crudeli” primi piani, che rivelano l’anima dei personaggi e le loro schizofrenie. Altro elemento, rimasto costante nella filmografia di Marco Bellocchio, è l’attenzione alla performance attoriale.
Ne “I pugni in tasca”, per esempio, Lou Castel è una rivelazione, destinato a diventare un’icona del cinema d’impegno sociale, e Paola Pitagora, la coprotagonista, mostra una grinta unica, spiazzando gli spettatori, i quali l’avevano identificata esageratamente nella patetica Lucia dei “Promessi sposi” televisivi di Sandro Bolchi.
Da quel momento, la carriera dell’artista piacentino si svolgerà in maniera particolare, tra successi, scandali, riconoscimenti, momenti in cui sembrò sovrapporsi, alla creatività del regista, la crisi della società e del cinema italiano. Rimane un caso il “basagliano” “Matti da slegare” (1975, opera collettiva, purtroppo girata con mezzi “poveri”) testimonianza di un modo differente di affrontare la malattia mentale e la “diversità” sociale, che, se non ebbe una distribuzione decente in sala, fu visto, provocando animati dibattiti, nei circoli del cinema, nelle associazioni, nei consultori, un film che aiutò gli italiani a crescere.
Marco Bellocchio lavorò anche per la televisione (da ricordare almeno lo splendido “Gabbiano”, 1977, tratto da Cechov, di cui si sottolineano i forti contrasti generazionali presenti nell’opera dello scrittore russo) e proseguì, poi, il suo percorso filmico con il discusso sodalizio con lo psicanalista Massimo Fagioli con cui “firmò” le sceneggiature di alcune pellicole che suscitarono pareri critici contraddittori (“Il sogno della farfalla”, “Orso d’oro” a Berlino nel 1994, “La condanna”, 1990). La maturità di Bellocchio, invece, si esprime in pellicole belle, di alto livello formale e sostenute da sceneggiature ben elaborate. Così nascono “La balia”, 1996 (tratta liberamente da una novella di Pirandello, scrittore di cui, nel 1984, aveva trascritto una interessante versione di “Enrico IV”), “Buongiorno notte” (si ricordino i fischi del pubblico per il mancato Leone d’oro a Venezia 2003), “L’ora di religione”(2002), “Il regista di matrimoni”, 2005, fino a “Vincere” sulla tragica vicenda di Ida Dalser, moglie ripudiata di Mussolini e del di lei figlio, ambedue “cancellati” dalla Storia e morti in manicomio, finché un accurato documentario di Fabrizio Laurenti e Gianfranco Norelli (“Il segreto di Mussolini”, 2005) riportò in auge la loro incredibile vicenda, ispirando il bel film di Bellocchio, presentato l’anno scorso al Festival di Cannes.
A questo regista così sorprendente e di grande spessore, la Società-Umanitaria-Cineteca Sarda, supportata dal Comune di Cagliari, dedica una retrospettiva importante. Non comprende l’opera omnia di Bellocchio, ma, scegliendo i suoi film meno frequentati ed alcuni tra i più controversi, chiede allo spettatore di ripensare un percorso artistico, tenendo la giusta distanza dalle sovrastrutture del tempo in cui furono girati, di riflettere su pellicole superficialmente analizzate o troppo gravate da significati politici. I curatori Antonello Zanda e Gianni Olla hanno sicuramente compiuto un’opzione intelligente, che va oltre la piattezza di alcune rassegne, le quali, a volte, vengono svuotate dal piacere di una nuova visione con, magari, differente giudizio finale.
Ai film saranno, come di consueto, abbinati approfondimenti con esperti come Paola Malanga (venerdì 16 aprile prima della proiezione de “La Cina è vicina”) e critici cinematografici. Il 7 maggio, poi, a concludere la manifestazione, presenzierà lo stesso Bellocchio accompagnato dal giornalista Enrico Magrelli. Un incontro da non perdere per il pubblico sempre numeroso della Cineteca, a cui verrà data la possibilità di porre questioni e osservazioni al regista, dopo aver percorso per un mese i sogni e gli incubi di un cineasta che, non disdegnando la tecnica raffinata e pure la spettacolarizzazione, ha con coerenza, tentato di usare la sua arte per ribadire la giusta forza del dubbio.
http://www.cinemecum.it/newsite/index.php?option=com_content&view=article&id=2443:il-maestro-dei-pugni-in-tasca&catid=62&Itemid=350
Hola, es posible que suban los subtitulos en español? El link se cayo.
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