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sábado, 30 de julio de 2011

Sette canne, un vestito - Michelangelo Antonioni (1949)


TITULO Sette canne, un vestito
AÑO 1949
SUBTITULOS No
DURACION 9 min.
DIRECCION Michelangelo Antonioni
ARGUMENTO Y GUION Michelangelo Antonioni
FOTOGRAFIA Giovanni Ventimiglia
MONTAJE Michelangelo Antonioni
ORGANIZACION Vieri Bigazzi
PRODUCCION ICET, Artisti associati
GENERO Documental

SINOPSIS Documental en torno a la producción del rayón, que retrata la actividad de una fábrica de esta fibra sintética en Torviscosa, construida siguiendo los cánones fascistas más estrictos. (Patio de Butacas)


Il documentario, considerato perduto, dopo numerose ricerche venne ritrovato nel 1995 dalla Cineteca del Friuli e acquisito dal Progetto Antonioni. Era stato amorevolmente conservato e gelosamente custodito da Enea Baldassi, Presidente dell’Associazione Primi di Tor Viscosa assieme a tutti i documenti cinematografici, fotografici e sonori nell’archivio storico della Snia Viscosa, oggi Chimica del Friuli. Girato per raccontare la fabbricazione della novità tessile di allora, prodotta a Torviscosa (Trieste). Antonioni dichiara di mostrare “la favola del rayon”, e cioè i vari processi e le progressive trasformazioni delle canne, materia prima della fibra.
http://www.nododocfest.org/sections/michelangelo-antonioni/films/242.html

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Antonioni nacque a Ferrara nel 1912 e si accostò al cinema dopo la laurea in economia e commercio, attraverso l’attività di critica giornalistica. Al momento della realizzazione del documentario sulla Snia di Torviscosa, il regista aveva già alle sue spalle una discreta produzione documentaristica (Gente del Po, 1943-47, Nettezza Urbana 1948, L’amorosa menzogna, 1949, questi ultimi due entrambi premiati con un Nastro d’argento).Come Regista dopo aver collaborato alla sceneggiatura di "Un pilota ritorna" (1942) di Rossellini e lavorato come aiuto-regista per Marcel Carnè. In sette canne…è possibile ritrovare alcuni degli elementi che saranno approfonditi dal regista nei lungometraggi successivi (Il grido, 1956, Deserto rosso,1964) come la rappresentazione della campagna padana e degli insediamenti industriali che in essa si installano, cambiandola, ma sarebbe una deformazione eccessiva cercare di riconoscere i caratteri del cupo “neorealismo interiore” che sarà la marca stilistica caratteristica delle opere successive del regista. Bisogna segnalare che Antonioni, accettando di dedicare un cortometraggio a Torviscosa, andava a confrontarsi con un precedente, per certi versi “scomodo”, costituito da un’opera celebrativa, scritta da Filippo Tommaso Marinetti nel 1938 (Il poema di Torviscosa in piena stagione autarchica). È impossibile sapere con esattezza se il regista si sia confrontato volutamente con il componimento futurista, ma è impossibile non notare come il documentario segua quasi esattamente la scansione delle immagini evocate dal poeta, seppure cambiandone radicalmente le implicazioni.
   
Anche Marinetti, come Antonioni, descrive in primo luogo la campagna veneta, soffermandosi però sul contrasto tra la mollezza femminea delle canne e la violenza (quasi uno stupro) con cui avviene la loro raccolta e lavorazione meccanica, vista come una sconfitta da parte della «dea Geometria» incarnata dalla civiltà industriale di cui Torviscosa e lo stabilimento della Snia sono l’incarnazione. Il documentario presenta un immagine armoniosa del mondo contadino, in cui la fabbrica si inserisce in maniera tutto sommato non distruttiva; gli stabilimenti sono «castelli misteriosi» e la trasformazione delle canne è piuttosto un processo magico con cui delle creature nate nel fango si trasformano in principesse (nella sfilata che, un po’ ingenuamente, chiude il film). Anche nella “favola”, tuttavia, trovano posto i forti contrasti tra la bianchezza incontaminata della cellulosa e le immagini più oscure delle macchine, e addirittura, nel commento, vengono utilizzate delle immagini letterarie spesso simili a quelle impiegate quasi un decennio prima da Marinetti, anche se ne viene notevolmente mitigata la violenza e l’esaltazione futurista grazie al loro inserimento, appunto, in un contesto quasi favolistico e al prevalere della finalità divulgativa su quella celebrativa: nel film gli ingranaggi trituratori «si impadroniscono» delle canne, i crogioli «le accolgono», mentre i fogli di cellulosa subiscono una «ubriacatura chimica di soda caustica» e il processo per l’ottenimento della viscosa è descritto come «tempesta chimica» che «realizzerà il miracolo» 


     
LABOR OMNIA VINCIT
di Stefano Fregonese
Viale Marinotti è l’arteria del paese congiunge la piazza del popolo con gli edifici dell’amministrazione politica e civile, la farmacia e l’emporio alla spianata d’accesso alla fabbrica: un’area vasta come piazza duomo a Milano, chiusa ad est dai cancelli della fabbrica oltre i quali, l’ingresso dell’edificio direzionale è piantonato da due enormi lavoratori scolpiti nel tempo e nella pietra: ma il luogo potrebbe essere altrove, alle porte di Mosca o nella Chicago di Ford: LABOR OMNIA VINCIT, anche le ideologie che cercano di governarlo o di sfruttarlo. A nord, che nasconde la piccola stazione ferroviaria, l’edificio della Fondazione Marinotti, volumi che si intersecano e s’allungano con
la razionalità naturale di Lloyd-Wright. A Sud il piazzale s’imbuta in un naviglio ove un pescatore fa sue le anguille. Il viale che lo fiancheggia porta alla chiesa, tollerata ai margini di un pioppeto, lontano dalla piazza civica e da quella industriale. Questa non è città nata da beghine baciapile ma da lavoratori e fascisti.
Ad Ovest, di fronte ai cancelli della ex Snia-Viscosa ora Bracco l’ingresso a viale Marinotti è custodito da due edifici simmetrici per architettura e funzione: il TEATRO che dispensa cibo per la mente e il RISTORO, la mensa dei lavoratori che nutre il corpo e lo spirito sociale. A lato della mensa il Bar, rimasto quello del ’37, pavimenti di graniglia tirati a lucido e salottini con poltroncine in pelle anni ‘40. Beviamo il caffé e la grappa di tocai. La strada che imbocchiamo, guidati dalla indolenza e dal tocai, è un lungo drizzagno sterrato ombreggiato da due file di pioppi. Sembra non dover finire mai seppur questa in finitezza non angosci perché qui lo spazio, un tempo illimitato e limaccioso, si presenta ora disegnato ad angoli retti: la natura della terra si è lasciata ordinare dalla natura dell’uomo che tende a governare il caos e l’indecisione, spesso rinunciando alla libertà e alla creativa imprevedibilità della vita.
A volte il risultato è più sorprendente di quanto la fantasia immagini. Luca ferma l’auto e scendiamo stropicciandoci gli occhi. Di fronte a noi ad un paio di chilometri di distanza galleggia nel verde della pianura friulana un cargo di svariate tonnellate. Il cassero di poppa e le ciminiere si stagliano nel cielo azzurro. Siamo certi che il mare e la laguna siano altrove e volgiamo la testa ai quattro punti cardinali per rassicurarci che siano ancora al loro posto. Siamo incantati e divertiti. Sapevamo di Marina di Nogaro, un bacino di rimessaggio nel cuore della campagna, ma non ci aspettavamo un effetto così sorprendente. Proseguiamo. All’improvviso ai boschi di betulle e ai pioppeti si sostituisce una fitta ramaglia di alberi e boma, di sartie e vele ammainate come nei quadri soavemente metafisici di Folco Iacobi. 
http://digilander.libero.it/freetime1836/cinema/cinemaantonioni.htm

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DIRIGIDO POR...FA. 2.Antonioni y el rayón que embelleció a Eleonora (Sette canne, un vestito)
El Antonioni de los años cuarenta, el cortometrajista y autor de guiones para obras ajenas es un vivo ejemplo de seguidor de un ismo dentro sus postulados más fieles u ortodoxos. Discípulo y ayudante de Rosellini (para él escribió Un Pilota Ritorna en el 42) el primerizo se adentra con su cámara· ojo en los distintos paisajes de una tierra italiana debastada por la guerra y en la que cobran preminencia exclusiva los trabajadores del campo y los de las fábricas...Los desprotegidos y explotados, en suma.
Gentes del Po es su primer corto quedando desde entonces a las claras que había nacido un cineasta con vocación de denuncia. Por lo menos los primeros años de su carrera son parecidos a los primeros años de otros emblemáticos directores de su generación. A partir de que la fórmula se agotó o bien que los propios autores no quisieron cerrarse a lo concreto pues había personalidad suficiente como para poder desarrollar otras inquietudes de artista (dando virajes que crisparon a teoricos cerriles y demás calaña conservadora) a Antonioni le empezamos a gozar (o padecer, según los gustos) en otros temas que le convirtieron en uno de los casos de mutación más memorables del arte del siglo veinte.
Parejo a esto surgió la moda Antonioni, fenómeno casi sociológico que junto a la Dolce Vita de Fellini encontraría adicciones snobistas sensibles de transformarlo en un icono pop vulgarizante y sobre todo, creador de mímesis, algunas en verdad absurdas.
Hay quienes no ven tan diferente al cortometrajista del luego autor de Il deserto Rosso. Hay quienes piensan, yo entre ellos, que su interés por el tejido de rayón de este Sette canne, un vestito (49) que sirve para que las mujeres ricas puedan lucirse en sus fiestas galantes no es otra cosa que la explicación de porqué lucía luego tan elegante su casi musa Eleonora Rossi Drago, heroina sofisticada de su cine de los años cincuenta. Después vendrían las Vittis, Massaris y Moreaus. Pero antes hubo una obsesión muy haute coture con esos maniquís sublimes llamados Drago y Bose. No hay que prescindir a la hora de realizar una interpretación global de la obra antonioniesca del concepto de frivolidad, puesto que para él un vestido, un objeto (bien fuera un tocador, un armario, una coqueta) adquieren un significado extra que le sirve para explicar problemas mayores como la vacuidad de una sociedad concreta o una simple destrucción amorosa por la causa manida del hastio existencial.
Pero la crítica ortodoxa (y heterosexual) pensará antes en otros detalles. La similitud de planos entre los barridos de árboles que atraviesan el Po con el viaje melancólico del Aldo de Il Grido o la perfecta equiparación de los obreros de las fábricas de este corto con los que aparecen en el Desierto Rojo. En todos los ejemplos el mensaje sería una misma denuncia: la alienación del individuo frente a una sociedad super industrial.
El final de Sette canne, un vestito es la pasarela de modas. Ahi concluye el proceso de la elaboración del material textil que se puso tan de moda en la posguerra. Los proletarios trabajaron pues para embellecer a las burguesas con glamour. Pero con el tiempo, el propio Antonioni demostraría en nuevas películas que esas mismas burguesas sufrían otro tipo de alienaciones que las harían igual de infelices que las obreritas. Fueron, en definitiva, sus futuras suicidas divinamente empaquetadas en rayón, nylon o visones de alta peleteria que acabaron abriendo el debate en las art houses de la cinefilia chic.
http://fantasiamongoii.blogspot.com/2006/05/dirigido-por.html?zx=cfbb075daa0853b9

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«Questo documentario, considerato perduto, dopo numerose ricerche venne ritrovato nel 1995 dalla Cineteca del Friuli e acquisito dal “Progetto Antonioni”. Era stato amorevolmente conservato e gelosamente custodito da Enea Baldassi, Presidente dell’Associazione “Primi” di Tor Viscosa assieme a tutti i documenti cinematografici, fotografici e sonori nell’archivio storico della Snia Viscosa, oggi Chimica del Friuli. Girato per raccontare la fabbricazione della novità tessile di allora, prodotta a Torviscosa (Trieste). Antonioni dichiara di mostrare “la favola del rayon”, e cioè i vari processi e le progressive trasformazioni delle canne, materia prima della fibra. Guarda caso, un suo famoso articolo sul n. 68 di “Cinema” dell’aprile 1939 Per un film sul fiume Po, che precede la realizzazione di Gente del Po, aveva al centro del discorso e delle fotografie da lui scattate proprio le canne.
In Sette canne un vestito, il taglio figurativo delle inquadrature e dei movimenti di macchina ripropongono l’inconfondibile stile documentaristico di Antonioni. Un processo industriale diventa un vero piccolo racconto: la trasformazione delle canne in cellulosa, poi in fogli di cartone che viene tagliato, imballato e pressato fino a farlo precipitare in disintegratori che lo mutano in segatura. Ed ecco “la tempesta chimica che realizzerà il miracolo”: un liquido, il solfuro di carbonio, trasforma il prodotto in viscosa e infine in filo di cellulosa. La cellulosa, lavata e sbiancata, “è diventata morbida e leggera come neve”. Bastano sette canne per un vestito: e qui Antonioni non può evitare di mostrare alcune inquadrature di una passerella dove sfilano le modelle cinte da vestiti inebrianti, per quei tempi: è forse l’atelier delle famose sorelle Fontana che vestiranno Lucia Bosè in Cronaca di un amore? E quei vestiti non sembrano proprio quelli che lei andrà, di lì a poco ad indossare?» (di Carlo).
http://www.cinebazar.it/riv1a002942.htm

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