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sábado, 30 de junio de 2012

Era di venerdi' 17 - Mario Soldati (1956)


TÍTULO ORIGINAL Era di venerdì 17 (Sous le ciel de Provence)
AÑO 1956
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 97 min. 
DIRECTOR Mario Soldati
GUIÓN Aldo De Benedetti, Marc-Gilbert Sauvajon (Historia: Piero Tellini, Cesare Zavattini)
MÚSICA Paul Misraki
FOTOGRAFÍA Nicolas Hayer
REPARTO Fernandel, Giulia Rubini, Fosco Giachetti, Leda Gloria, Andrex, Renato Salvatori, Jean Brochard, Tina Pica, Alberto Sordi
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Produzione Film Giuseppe Amato
GÉNERO Comedia. Drama | Remake 

SINOPSIS Paul Verdier es un humilde vendedor que se encuentra con una muchacha en un autobús. Ésta le confiesa que está embarazada, el padre se ha desentendido de ella y no se atreve a decírselo a sus padres. Para suavizar el golpe, Paul acompañará a la chica a casa de su familia, donde se hará pasar por el progenitor y novio de ella. Remake del film "Cuatro pasos por las nubes" de Alessandro Blasetti, que posteriormente también tuvo una versión americana titulada "Un paseo por las nubes" de Alfonso Arau. (FILMAFFINITY)


TRAMA
Paolo, uomo di mezza età, sposato con due bambini, viaggiatore di commercio, durante uno dei suoi giri professionali, fa la conoscenza di Maria, una ragazza che sembra rattristata da qualche sua pena segreta. Lei sta tornando a casa dei suoi genitori, dopo avere vissuto per un periodo in città, e prima di salutare Paolo gli racconta la sua storia. Il suo innamorato si è dileguato non appena gli ha annunciato di attendere un bimbo e lei teme che suo padre, molto all'antica, non la accolga più in casa. Per questo, visto l'atteggiamento comprensivo di Paolo, Maria chiede a Paolo di accompagnarla a casa spacciandosi per suo marito solo per poche ore, poi potrà ripartire e non tornare più. Paolo dapprima rifiuta, poi, impietosito, accetta l'insolita proposta. Il padre di Maria dapprima è indignato che la figlia si sia sposata senza fargli sapere nulla, poi accetta il fatto compiuto e invita i maggiorenti del paese per festeggiare gli sposi. Paolo è costretto a trattenersi per la notte ma per non dormire con la sua falsa sposa passa la notte prima a giocare a dama con la vecchia zia di Maria poi nella stalla. La mattina dopo, il padre di Maria, che ha scoperto una foto di Paolo con la moglie e i figli, gli chiede spiegazioni e Paolo confessa la verità. Intanto anche Maria ha raccontato tutto alla madre. Poiché il padre non intende ragioni, Paolo gli parla come può farlo un uomo sensibile e a sua volta padre e riesce a toccargli il cuore. Maria potrà restare a casa e Paolo viene accompagnato alla stazione per continuare la sua solita vita.

CRITICA
"L'argomento, l'avrete capito: è il vecchio soggetto di 'Quattro passi fra le nuvole' (...). Mario Soldati ha ripreso l'argomento a distanza di quindici anni (....),le "gag", le invenzioni fra patetico e comico (...) tutto è conservato religiosamente come un abito di solida stoffa, acquistato tanti anni fa e oggi ancor buono per fare bella figura. Del resto il film la sua bella figura la fa, a dispetto del persistente ricordo dei 'Quattro passi'".
(F. Berutti, 'Settimo Giorno', 16 marzo 1957).

"Il film non ha la freschezza e l'originalità di 'Quattro passi fra le nuvole'. La vicenda è tuttavia condotta con garbo ed acquista nel finale un'efficacia apprezzabile. Ottima l'interpretazione di Fernandel."
(Segnalazioni Cinematografiche, vol. XLI, 1957)

NOTE
Il film e' il rifacimento di "Quattro passi fra le nuvole" di Alessandro Blasetti (1942).
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=18410&film=Era-di-venerdi-17

Venerdì 17: le origini e le credenze di un giorno sfortunato

Ai superstiziosi il numero 17 non piace nemmeno singolarmente, figuriamoci quando accanto ad esso compare sul calendario il giorno “venerdì”.
Il venerdì 17 è considerata una data particolarmente sfortunata, ma non tutti sanno il perché di questa credenza.
I pregiudizi che nascono legati ad esso riguardano la cultura popolare e la superstizione individuale o, talvolta, l’influenza collettiva.
C’è chi di venerdì 17 non vorrebbe nemmeno uscire di casa per recarsi al lavoro, ma ovviamente in questo caso si parla di superstizione estrema, che è comunque molto diffusa. Alcuni tentano di scacciare la negatività con amuleti e altri stratagemmi; mentre c’è anche chi a questa data non presta attenzione.
Il giorno venerdì 17 è ritenuto sfortunato in Italia e in altri paesi di origine greco-latina. L’origine di questo preconcetto si riconduce all’unione di due elementi estremamente negativi, ovvero il Venerdì Santo, giorno della morte di Gesù, e il numero 17; che come il 13 è considerato sfortunato anche nei paesi anglosassoni.
Ma cos’è successo di così negativamente eclatante nel corso dei secoli da far diventare il venerdì 17 una data così temuta?
Nell’Antica Grecia i seguaci di Pitagora disprezzavano il numero 17 poiché era tra il 16 e il 18, i numeri che rispecchiavano perfettamente la rappresentazione di quadrilateri 4x4 e 3x6.
Altra motivazione, questa volta dal mondo religioso, è che nell’Antico Testamento la data di inizio del diluvio universale è il 17 del secondo mese e secondo la Bibbia lo stesso giorno sarebbe morto Gesù.
Nell’Antica Roma sulle tombe era usanza scrivere “VIXI”, ovvero “ho vissuto”, “sono morto”; nel Medioevo, però, a causa dell’analfabetismo molto diffuso l’iscrizione veniva confusa con il numero 17 che invece era XVII.
La curiosità è che quella di venerdì 17 è una superstizione sentita fortemente esclusivamente in Italia: addirittura a Napoli il 17 è sinonimo di disgrazia. Nel resto del mondo i numeri negativi sono altri. Nei paesi anglosassoni, infatti, il giorno sfortunato è venerdì 13, mentre in Spagna, Grecia e Sudamerica è il martedì 13.
http://www.sapere.it/sapere/pillole-di-sapere/costume-e-societa/venerdi-diciassette-sfortuna-giorno-origini.html

viernes, 29 de junio de 2012

Rosa e Cornelia - Giorgio Treves (2000)


TÍTULO ORIGINAL Rosa e Cornelia
AÑO 2000
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No 
DURACIÓN 90 min. 
DIRECTOR Giorgio Treves
GUIÓN Remo Binosi, François De Maulde, Giorgio Treves
MÚSICA Franco Piersanti
FOTOGRAFÍA Camillo Bazzoni
REPARTO Stefania Rocca, Chiara Muti, Athina Cenci, Massimo Poggio, Daria Nicolodi, Massimo De Rossi
PRODUCTORA Filmtre / Gierre / Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC)
PREMIOS 2000: Premios David di Donatello: Nominada Mejor actriz secundaria (Athina Cenci)
GÉNERO Drama | Siglo XVIII 

SINOPSIS Venecia, siglo XVIII. Cornelia, joven noble, se queda embarazada de un desconocido durante la celebración de los Carnavales. Para evitar el escándalo, sus padres la recluyen en una villa en la campiña, donde permanecerá hasta el nacimiento del bebé. Allí contará con la compañía de una joven criada, también embarazada y soltera. Forzadas a convivir, pese a sus diferencias sociales, ambas terminaran forjando una profunda amistad. (FILMAFFINITY)


"Un lavoro che prende spunto dalla complicità che percorreva la sala durante le recite della pièce teatrale da cui è tratto il film". É l'esordio di Treves, il regista (non l'autore, perché egli si definisce artigiano che non crea la storia: "Quella era già stata confezionata da Remo Binosi"), incontrando il pubblico nella sala Due Giardini di Torino, che programma dal 24 agosto Rosa & Cornelia. In questo caso il cortocircuito non può che scattare tra le giovani attrici, gestanti rinchiuse in una villa veneta, scelta tra altre cinquanta, perché senza pilastri della luce e distante dalle autostrade, ma anche non così perfettamente bella come quelle palladiane, visitate nella scelta delle locations e che "avrebbero oscurato il film con la loro inusitata bellezza".
L'atteggiamento umile nell'incontro con il pubblico permette di approfondire curiosità di vario tipo: sia le differenze con il testo teatrale, sia le sottigliezze recitative, persino i dettagli dei vestiti – risalenti a un periodo leggermente successivo a quello del carnevale 1748 da cui prende le mosse la vicenda che si dipana tra i toni dapprima scherzosi e comici, per poi girarsi in sordido giallo e tragedia – si incrociano con le difficoltà produttive (cinque anni e due acquisti degli stessi diritti per l'abbandono di un produttore francese e il rifiuto delle televisioni di una trama giudicata "sconveniente" per un pubblico televisivo e che mettono in serio dubbio che Grazia Volpi riesca a rientrare dell'investimento, nonostante l'intervento del fondo di garanzia ministeriale, "provvidenziale") e l'urgenza di raccontare una storia a partire dal bisogno di mettere in scena la sopraffazione a cui sono ancora oggi sottomesse molte donne ("lo spunto iniziale era la mia necessità di confrontarmi con il dramma dell'abbandono di neonati nei cassonetti, una pratica millenaria che accomuna le donne di tutti i tempi"), ma con l'obiettivo di evitare il film a tesi, esigenza permessa dall'ambientazione settecentesca.
La professionalità di Treves si coglie nell'attenzione anche figurativa, che era già una componente del suo film precedente: La coda del diavolo con Isabelle Pasco; l'attenzione alla ricostruzione ambientale senza fronzoli né esagerata mania filologica e la fotografia che aggiunge intimità con i toni scuri e i volti mai troppo contrastati, tranne nell'estrema inquadratura di Rosa in procinto di compiere il sacrificio, con un'espressione quasi rapita sul volto e la pace interiore che si esprime in quella parte del volto più illuminata, rappresentano una serie di scommesse che s'imbattono da un lato nel pressappochismo di certi produttori che ritenevano la scelta del dialetto veneto incomprensibile (ad ascoltare il racconto delle vicissitudini produttive del regista sembra di sentire una vecchia canzone dei Pitura Freska) e dall'altro nell'esigenza di essere curati nei dettagli (i decor delle ambientazioni, addirittura il pianoforte originale che Chiara Muti suona in presa diretta), ma senza distrarre il pubblico, che infatti si attarda a complimentarsi con il regista, dicendo di essere rimasto commosso, soprattutto nella componente femminile e materna.
Nella tournée teatrale di L'Attesa le protagoniste (Elisabetta Pozzi e Maddalena Crippa) si alternavano nei ruoli come Salvo Randone e Vittorio Gassman nel mitico Otello. Non hanno potuto interpretare anche la traduzione cinematografica, perché i primi piani avrebbero esageratamente denunciato la distanza anagrafica dalle due protagoniste dagli originali; ma soprattutto perché i due mezzi espressivi sono profondamente distanti e questo è ribadito dalla scelta di adattare l'intreccio, rivoluzionandolo, pur mantenendo l'impianto teatrale.
La recitazione al femminile è comunque il risultato di un elevato professionismo anche nel film, denunciando la provenienza teatrale di tutte le attrici: in particolare una strepitosa Rosa/Stefania Rocca (brava con i capelli azzurri in Nirvana ma persino nello scadente Viol@), che nel suo monologo assume il registro tipico della commedia dell'arte resa alla sua massima espressione da Dario Fo e che se non fosse stato in vernacolo, in presa diretta e quasi in piano sequenza, sarebbe risultato spiacevolmente volgare, mentre qui diventa un piccolo gioiello di racconto di seduzione, capace di far intendere il motivo per cui la ragazza decide di portare a termine quella gravidanza: si era talmente goduta quella scopata che va raccontando, rivivendola e facendola rivivere alla sua ascoltatrice attenta (e questo intento partecipativo accomuna la sua recitazione con il grammelot), da decidere di tenere la bambina e dunque rende ancora più atroce la decisione finale, aggiungendo un tassello in più alla scelta, legata alla previsione di una vita da serva e puttana. Ma lo stesso ruolo di confidente era stato svolto poco prima da Cornelia/Chiara Muti, aristocratica e a tratti autoritaria promessa sposa ad un nobile francese, messa incinta da un altro seduttore (o forse lo stesso con gli occhi verdi, evidente allusione a Don Giovanni), che non narra con la gioia e l'animosità della popolana, ma nel giardino, ripresa senza il campo lungo richiesto dalla gestualità da palco di Rosa, ma con i piani ristretti sui volti della narratrice e della serva in ascolto, con un movimento circolare della macchina e delle ragazze che inscrive loro e la situazione nel giardino-prigione della villa che scorre sullo sfondo. Una situazione e un modo di narrare che sono debitori della tradizione poetica e drammatica della classicità francese (Corneille e Racine più che Rabelais: i riferimenti culturali della giovane nobile Cornelia, nome non casuale, come quello popolare di Rosa, che infatti nella sua avventura sessuale si inventa lo pseudonimo meno anonimo di Lucilla). Infine la serva Piera/Athina Cenci, da sempre fedele alla famiglia, alla quale ha immolato tutto: famiglia, affetti,... un figlio "per fortuna nato morto", perché anche lei era incorsa nella gravidanza extra-matrimoniale. É stata balia di Cornelia e usa due tipologie espressive: quando si rivolge ai "paròni" la sua sintassi diventa più curata, le costruzioni si adeguano, mentre con i suoi pari sa adottare le espressioni più crude; è il tramite tra due mondi, ma è anche il deus ex machina e rappresenta teatralmente la tradizione goldoniana: la perfetta serva, a cui qui si scopre una vocazione tragica nella disperata fuga finale attraverso i campi, estremo rifiuto della nobile famiglia e delle crudeli decisioni maschili.
Infine c'è un ulteriore personaggio, che si aggiunge alle figure di secondo piano come il giovane contadino (Lorenzo), emissario del padre, che non si fida delle donne, le quali in effetti avrebbero risolto nel primo apparente finale la situazione in modo drammatico, ma umano, nonostante il sacrificio atroce della giovane madre; questo ulteriore personaggio è il tempo atmosferico. Il temporale interviene a sottolineare i momenti clou, ma anche a rallegrare la clausura, a pulire catarticamente le reticenze e i sotterfugi, a bagnare sancendo l'amicizia impossibile tra due donne appartenenti a mondi diversi, a decretare il loro addio filtrando con la pioggia la loro distanza già sottolineata dai vetri della finestra, consente di convertire le paure dei tuoni in momenti di tenerezza, s'insinua in ogni momento topico del film; e dichiara così come la natura sia la protagonista principale.
"La panza xé roba da done". La solidarietà femminile spicca con più forza che in film dichiaratamente femministi o in opere a cui la presenza di Athina Cenci potrebbe rimandare come Speriamo che sia femmina, perché tocca corde precluse a noi maschietti: la maternità non narrata con preclusioni religiose, fanatismi censori o l'isteria di comunioni pelose e sedicenti liberazioni, diventa occasione di crescita per Cornelia, che si permette di urlare lo schifo di sentirsi abitati da un mostro: "Si muove dentro di me. Cosa gli ho fatto io? Dovrò anche dargli il latte?"; i confronti tra pance e l'apoteosi del parto multiplo, fatto come un gioco, una complicità esclusiva, pur con la consapevolezza del compito che attende Rosa, innominabile. Tuttavia intuito inconsciamente da Cornelia: il sogno narrato a metà film, premonitore e prolettico, benché ancora oscuro per lo spettatore che è nella condizione di Cornelia, saccente eppure all'oscuro di quello che le due popolane invece hanno ben chiaro, in debito di crescita e di conoscenza del mondo. É vero che in certi casi questo gusto di ostentare una particolare femminilità si permette inserti pleonastici, come la lettera della madre (Daria Nicolodi, non completamente a parte del piano micidiale del marito, e comunque succube anche nel sacrificio dell'affetto della figlia): stracciata, ricomposta al chiaro di luna e nuovamente dispersa dal vento, come in un pessimo romanzo d'appendice. Ma forse proprio quello era l'intento: tratteggiare ulteriormente il mondo romanzesco in cui viveva la giovane di alto lignaggio, che tiene persino un diario, rispetto all'analfabeta sua compagna di gravidanza. É uno dei pochi momenti in cui la sobrietà del testo filmico è turbata dalla condiscendenza al testo letterario, ma il sacrificio muliebre al cinismo maschile non viene intaccato, anzi coinvolge nel tragico destino anche la madre.
Poiché a questo si riduce la storia: entrambe le giovani sono puerpere e scodelleranno i loro pargoli nella medesima notte, ma la nobile decaduta è promessa ad un pari di Francia e quindi la sua colpa deve sparire, ancorché commessa con una maschera del carnevale da lei sconosciuto e che l'ha sedotta toccando il suo animo romantico ("Sembrava conoscesse tutti i misteri del mio vestito e lo avesse slacciato un'infinità di volte"), quanto il giovin signore in tutto simile ha catturato l'ardore della serva, giocando sui suoi appetiti. Quest'ultima è stata assunta perché sopprima il frutto della colpa non appena viene alla luce, ma in realtà il piano del padre di Cornelia è ancora più diabolico con l'invenzione di un personaggio inesistente nella pièce teatrale: il contadino che infatti in un altra prolessi Rosa individua come suo simile ("Semo della stessa pasta noraltri"), destinato a cancellare ogni testimone della colpa di Cornelia. Il finale è davvero sorprendente, pure per chi avesse avuto il piacere di vedere L'Attesa a teatro, poiché la generosità di Rosa che nel lavoro di Binosi provocava la morte del figlio scambiato di Cornelia, nella sceneggiatura rimaneggiata dall'autore stesso dà luogo ad una narrazione più lineare, ribaltando il destino dei neonati e cancellando un epilogo tragico da teatro shakespeariano che prevedeva la follia di Cornelia come reazione alla sorte del proprio neonato, che invece nel film cresce come consapevole donna di cosa significa la condizione femminile, ma ignara della tragedia che si sta scatenando.
Quello che ha fatto infuriare il recensore dell'Avvenire è un bel momento di intermezzo, che si somma alla serie di situazioni che documentano – non sempre efficacemente – il trascorrere dei nove mesi fatidici: la confessione, un mezzo non solo per dileggiare il sacramento, come i permalosi cattolici subito intendono qualsiasi allusione alle loro pratiche rituali, ma anche per rimarcare l'ipocrisia del clero, terza componente molto temporalizzata a quel tempo, come vorrebbe il papa polacco nella nostra epoca, che già giudica inadatto al pubblico televisivo un testo che documenta così intimamente una solidarietà femminile, senza la violenza di una telecamera 24 ore su 24 insinuata nelle vite altrui. Un'altra sequenza che può aver infastidito il pasdaran di Avvenire, rendendoci il film ancora più gustoso, soprattutto per l'assenza di morbosità, è un accenno di masturbazione di Cornelia di fronte al solito specchio, che racchiude il mondo delle tre "recluse" tra le pareti domestiche affaccendate nei compiti femminili – gestanti, serve, sguattere. Si colloca all'inizio del film e rappresenta il suo primo approccio alla conoscenza del proprio corpo (addirittura non conosce il corpo di un uomo, pur essendo incinta: è svenuta di piacere nel momento della penetrazione). Sicuramente Francesco Bolzoni sarà inorridito di fronte al bacio scambiato tra le due giovanissime: appassionata espressione di sogno erotico, nel quale ciascuna perpetua la sua storia di "piaser".
Un appunto doveroso: la distribuzione dovrebbe vergognarsi del manifesto adottato e della campagna di trailers che cercano di giocare sul lesbismo di moda, mentre qui la sessualità è centrale, ma di tutt'altra specie, anche urlata ma senza infingimenti e il lavoro degli autori andrebbe rispettato e non mercificato in questo modo: in questo sito si è spesso parlato di cinema gay e non ci sembra il caso di pubblicizzare un prodotto spacciandolo per quello che non è. Il cineclub di Collegno ha deciso di reperire La coda del diavolo, risalente ormai a tredici anni orsono e di cui anche il ergista ha perso le tracce a parte la famigerata copiazero, che si affida alla Cineteca Nazionale, per legge tenuta a custodire memoria dello scempio che viene fatto delle altre copie di cui si parla nel nostro editoriale.
http://www.cinemah.com/neardark/index.php3?rece=829

La sorellanza ai tempi di Casanova
Pur sostenuto da un'impeccabile ricostruzione scenografica (le riprese sono state effettuate in un'autentica dimora patrizia del Vicentino), il film di Treves non ha nulla del polpettone alla Ivory, e non è neppure una preziosa, leccata metafora, elegantemente impaginata, della vita, una sorta di rappresentazione barocca: è la vita, pura e schietta, persino brutale.
Sotto la crinoline o lo zendale, nei deliziosi boschetti o nelle sale affrescate, gli umori, le contraddizioni, le lacerazioni dei personaggi sono le nostre, come il linguaggio colorito e le azioni forti, quasi spudorate: insomma, anni luce dal Settecento tutto colori tenui che siamo abituati ad immaginare.
Una tavolozza di grigi fangosi, resi a tratti più brillanti dalle fiaccole: in questo scenario spoglio, lontanissimo da ogni suggestione rococò, i temi intorno ai quali si snoda la narrazione sono la maternità, indesiderata e/o accettata, il denaro e le sue conseguenze, ad esempio il difficile rapporto tra persone appartenenti a ceti diversi, ma soprattutto il ruolo della donna, costretta ad accollarsi i compiti più ingrati, mentre l'uomo (come il giardiniere Lorenzo, o i padri dei due bambini, o il genitore di Cornelia) resta nell'ombra, sornione ed implacabile voyeur.
La figura femminile, incarnata da quattro personaggi (le ragazze, la "signora madre" e la balia), è oppressa e combattuta tra l'integrazione, come elemento subordinato, nella società (la madre di Cornelia, Cornelia stessa), l'aperta ribellione (la sensuale, indomita Rosa) e la disillusione (la vecchia Piera): ma la vita che la donna è in grado di dare non potrà essere estinta tanto facilmente, sembra suggerire il finale, e in questa forza generatrice risiede il suo potere, eterno, indomito.
Tutto questo è narrato con un tono colloquiale, non predicatorio, quasi da camera (appunto). Ed è un peccato che la parte di Cornelia sia massacrata dalla dilettantesca prova di Chiara Muti (figlia del maestro Riccardo), la quale, indubbiamente elegante, è però troppo manierata ed enfatica per essere coinvolgente: un'attrice (dice lei) schiacciata dalla presunzione, che scambia le smorfie e gli isterismi di maniera per espressioni altamente tragiche (punta all'Oscar?). Perfetta, commovente e persino disturbante nella sua verità, Stefania Rocca, che in autentico stato di grazia fa di Rosa la vera eroina, sensuale, buffa e tragica, della vicenda. Buoni i comprimari, come sempre speciale la Cenci.
Qualche lungaggine (l'inutile, cartolinesco prologo in maschera), qualche indulgenza all'origine teatrale della storia, ma anche un talento innegabile per la narrazione e un gusto filosofico (questo sì, settecentesco) capace di trasformare ogni scena in un capitolo di un'educazione al sentimento e alla vita.
Stefano Selleri
http://web.tiscali.it/archivio_spietati/recensioni/r/rosa_e_cornelia.htm
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CRITICA
"Siamo nel Settecento, ma non aspettatevi una storia tutta inchini e crinoline. Si parla dialetto veneto ma siano anni luce lontani da Goldoni. Ma c'è l'ombra allusiva di Casanova, che vale modello di erotica seduzione, in un film tutto al femminile. Dove si analizza il contrasto, moderno e insanabile, fra sorellanza e complicità femminile e un mondo arido e maschile, dove contano solo le brutali leggi legate al soldo e al censo". ('Ciak', agosto 2000)

"Una storia a due in un luogo chiuso come quella di 'Rosa e Cornelia' avrebbe magari avuto bisogno di attrici con maggiore esperienza e sicurezza di Chiara Muti e Stefania Rocca, per evitare ripetitività e qualche leziosità: le interpreti più autorevoli sono infatti Athina Cenci e Daria Nicolodi, nutrice e madre della contessina Cornelia. E' un azzardo far parlare in dialetto veneto chi veneto non è e non può quindi evitare di stonature: ma la vicenda della doppia gravidanza, delle due ragazze-madri innamorate della vita rimane interessante, forte e strana". (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 24 agosto 2000)

jueves, 28 de junio de 2012

Del tuffarsi e dell’annegarsi - Paolo Gioli (1972)


TITULO ORIGINAL Del tuffarsi e dell’annegarsi
AÑO 1972
DURACION 10 min.
DIRECCION, FOTOGRAFIA Y MONTAJE Paolo Gioli
PRODUCCION Vampa Production


Il film narra dell’opinione che l’autore ha avuto per un certo tempo dell’acqua e di un suo tuffatore. Tutto è partito da un tuffo e da un gorgo che non c’era; due modelli plastici su cui lo sguardo viziato dell’autore ha posto un’inversione filmica dell’acqua e il suo corso, del tuffatore e i gorghi inventati. Questa dilatazione non prevista della natura spontanea viene però prevista nella natura poco spontanea del tuffatore che, dopo ripetuti slanci, trova finalmente quello un pò fatale e un pò desiderato.
http://www.paologioli.it/film6.php?page=film&id=6
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L'unica cosa bella di questo corto è il titolo. Si tratta di un film sperimentale in cui vengono accostate immagini varie di onde e di tuffatori, duplicate e sovrapposte, in positivo e negativo. Insomma, sperimentalismo un po' fine a se stesso, che offre solo qualche vago spunto in alcune immagini delle onde che sembrano giochi grafici caleidoscopici o nella reiterazione ossessiva dei salti dal trampolino che sembrano quasi formare una bizzarra coreografia.
I gusti di Pigro
http://www.davinotti.com/index.php?f=22954

Paolo Gioli, veneto, nasce a Sarzano (Rovigo) il 12 Ott 1942. Nel 1960 frequenta la scuola libera del nudo presso l'Accademia di Belle Arti a Venezia dove per qualche anno si stabilisce e lavora.
Nel 1967 parte per New York, dove resterà a lavorare per un anno ottenendo anche una borsa di studio della John Cabot Fund, conosce il New American Cinema e -in pittura- la Scuola di New York ed entra in contatto con i galleristi Leo Castelli e Martha Jackson.
Costretto ad interrompere l'esperienza americana e a rientrare in Italia per problemi collegati al visto di soggiorno (siamo ai giorni della uccisione di Martin Luther King e Bob Kennedy che vide l'applicazione di norme più severe da parte dell'Immigration Office americano) Gioli, nel 1970, si stabilisce a Roma dove entra in rapporto con la Cooperativa Cinema Indipendente che orbita intorno al Filmstudio e cui fanno capo un po' tutti gli autori di cinema sperimentale italiano. E' tra Rovigo e Roma che produce i primi film che sviluppa da se stesso usando la cinecamera come un laboratorio sulla scia dei Lumière.
A Roma approfondisce anche il suo interesse per la fotografia di cui indaga specialmente le origini. Nel 76 si trasferisce a Milano dove, oltre al cinema, si dedica con continuità alla fotografia. Troverà nel polaroid -che egli chiama umido incunabolo della storia moderna- un sorprendente mezzo per allargare ulteriormente la sua ricerca sulla fotografia istantanea, travasandone la materia su supporti diversi dalla pellicola come la carta e la tela e apparentandola così alle arti belle. Agli inizi degli anni '80 torna nella sua terra in Polesine. Oggi vive e lavora a Lendinara.
Le sue opere sono state esposte in sedi pubbliche e private in Italia, Europa, America. Tra le principali mostre personali ricordiamo quella all'Istituto Nazionale della Grafica-Calcografia di Roma nel 1981, al Musée Nicéphore Nièpce di Châlon s/Saône e al Centro Pompidou di Parigi nel 1983, alla George Eastman House, Rochester nel 1986, più volte ai R.I.P. di Arles tra il 1982 e il 1998, al P.zzo Fortuny di Venezia e al Museo Alinari di Firenze nel 1991, al al P.zzo Esposizioni di Roma nel 1996, al Museo di Fotografia Contemporanea a Cinisello nel 2008. Le sue opere sono presenti nelle collezioni dei più importanti musei europei e statunitensi, in particolare ricordiamo il Centro Pompidou, l'Art Instritute of Chicago e il MoMA di New York.
Nel 2006 l'italiana Minerva-RaroVideo ha pubblicato un doppio dvd con una selezione di quattordici suoi film e una intervista a cura di Bruno Di Marino. Nello stesso anno i film di Gioli vengono presentati per la prima volta a Views From the Avant-Garde, una sezione speciale del NYFF a cui, da quella volta, è stato invitato ogni anno. L'anno seguente, Gioli è invitato al HKIFF come artist on focus. Nel 2008, una selezione di suoi film é presentata all' Ontario Cinematheque di Toronto e alla Cinémathèque Française a Parigi che gli ha dedicato una retrospettiva completa a Giugno/Luglio di quest'anno. A Giugno del 2009 il Festival di Pesaro gli ha tributato un omaggio con una rassegna completa di suoi film. Nei Quaderni del CSC è da poco uscito un volume monografico sul suo cinema edito dalla Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia a cura di Sergio Toffetti e Annamaria Licciardello. Nel 2010 è stato invitato per la prima volta a Wavelenght, la sezione di cinema d'avanguardia del Toronto Film Festival (TIFF).
I suoi film sono distribuiti dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e da LightCone a Parigi.
http://www.paologioli.it/bio.php?page=bio&id=1
http://www.paologioli.it/
http://www.kiwido.it/artisti/scheda.asp?id=37

miércoles, 27 de junio de 2012

Il villaggio di cartone - Ermanno Olmi (2011)


TÍTULO ORIGINAL Il villaggio di cartone
AÑO 2011
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 87 min.
DIRECTOR Ermanno Olmi
GUIÓN Ermanno Olmi
MÚSICA Sofia Gubaidulina
FOTOGRAFÍA Fabio Olmi
REPARTO John Geroson, Rutger Hauer, Massimo De Francovich, Alessandro Haber, Souleymane Sow
PRODUCTORA Cinemaundici / Rai Cinema / Edison
GÉNERO Drama

SINOPSIS Un sacerdote (Michael Lonsdale) asiste impotente a la descongregación de su parroquia, cerrada para siempre al público. La misma tarde, un grupo de inmigrantes clandestinos se refugia en el establecimiento. El sacerdote decide concederles asilo y protegerlos lo mejor que puede. Totalmente dedicado a una nueva misión de solidaridad cristiana, el cura se entregará a los indigentes hasta el sacrificio supremo. Su vida, que reposaba hasta entonces en la palabra de Dios, toma una nueva dirección con el acto santo de la caridad. (FILMAFFINITY)



Il villaggio di cartone - Incontro con il regista Ermanno Olmi

Non era ancora il tempo di lasciare il cinema per Ermanno Olmi che, dopo Centochiodi, aveva comunicato l’intenzione di non dirigere più film di finzione, per dedicarsi al documentario.
Nell’incontro di presentazione de Il villaggio di cartone, tenutosi a Roma, il regista ci ha spiegato perché fosse arrivato il momento per un’altra avventura, dietro la macchina da presa. Scritto con la collaborazione di due grandi amici, come il saggista Claudio Magris e monsignor Gianfranco Ravasi (Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura), e presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, il film uscirà venerdì 7 ottobre.
Tenace e sorridente, ancora desideroso di raccontare all’Italia la propria visione di questi nostri giorni, il regista bergamasco, quando parla di sé e del suo cinema, sembra sempre profondamente ispirato.
Il villaggio di cartone nasce da un’idea complessa, quanto ambiziosa, venuta al regista durante un periodo di forzata immobilità a letto.
“Precedentemente stavo pensando a un progetto itinerante, che fosse un viaggio lungo tutte le coste del mediterraneo e che mostrasse cosa resta delle nostre antiche civiltà. Credo che il cristianesimo sia la più grande ricchezza della nostra storia, lo diceva anche Indro Montanelli. Ho ritenuto ci fosse bisogno di trovare le nostre origini, quello che resta vivo e praticato della nostra antica cultura. Ho dovuto accantonare quell’idea, certo non potevo viaggiare, con il computer sulle ginocchia è il mondo che è entrato nella mia stanza. Un appuntamento tra culture diverse in un unico ambiente, quello del film”.
Ne Il villaggio di cartone, il “crocevia” che fa da teatro a questo incontro, è una piccola canonica, in un luogo senza nome, che, sotto gli occhi stanchi di chi la anima da anni, il vecchio parroco (interpretato da Michel Lonsdale), viene chiusa al culto, spogliata dei suoi elementi fondanti, svuotata di fedeli sempre meno partecipi. E’ questo l’approdo perfetto per “il nuovo grande esodo”, come lo definisce il regista: “l’esodo che viene dal sud del mondo, ma in senso più ampio, un esodo globale, che sarà la premessa per una nuova era.”
Nella chiesa abbandonata infatti, si stabilisce un gruppo di profughi africani, composto da personaggi profondamente diversi l’un dall’altro, che danno vita al controcanto spirituale e culturale su cui si basa il film. Da questo, nasce il confronto profondo tra diversi credi, quello auspicato dal regista, primo passo, purtroppo sempre rimandato, verso “l’abolizione di tutte le diverse chiese, religiose, laiche, e politiche che siano”.
Non avere chiesa vuole dire non avere protezione, significa essere soli, continua il regista: “ la solitudine è la tassa morale, il prezzo da pagare per la libertà. Anche il cinema di Roma è stato, a suo tempo e a suo modo, una chiesa” e ancora “Io non ero né comunista né democristiano, e le cose non erano affatto facili, si restava molto isolati”.
Il film è un apologo di forte impianto teatrale. “E’ ricco di simboli, come ogni racconto allegorico”, ci spiega pazientemente Olmi, “questo lo avrete sicuramente capito! La realtà è assolutamente scenografica, non c’è alcuna pretesa di realismo. Non è un film realistico, è un film con cui si cerca di comunicare la sublimazione di un’idea, e questo si ha da sempre con il simbolo”.
Centro del film è anche la solidarietà, quella che va oltre la carità, che è amicizia e annullamento delle differenze, della solitudine. E questo signore ottantenne, che ha ancora lo sguardo teso verso un futuro lontano, si augura l’arrivo di un cambiamento: “ La storia deve cambiare, prima che essa cambi noi, l’uomo ha disatteso i propri doveri verso il prossimo, non si può continuare così”.
Scegliere di raccontare categorie sociali principalmente disagiate, in tanti anni di cinema, è voler raccontare la realtà che si conosce meglio, l’agio non è mai stato familiare a Olmi. “Vengo da una famiglia di contadini, adesso sì, non nego la mia condizione privilegiata, ma con moderazione. La ricchezza esagerata, è un crimine, perché toglie risorse agli altri”.
Elisa Salvadori
http://www.comingsoon.it/News_Articoli/Interviste/Page/?Key=9202


La prova d'orchestra di Ermanno
Dramma dedicato al tema dell'immigrazione, che vede protagonista un prete a contatto con gli immigrati clandestini. 

Nel rifiuto del realismo e nell’assunzione del linguaggio dei simboli che caratterizza l’ultimo cinema di Ermanno Olmi - e che probabilmente ne Il villaggio di cartone trova il suo punto di arrivo - non c’è semplicemente la deviazione di un percorso stilistico o, peggio ancora, il distacco dello sguardo del regista bergamasco da ciò che lo circonda. Tutt’altro. C’è anzi la prova di una vocazione e la testimonianza di un’impossibilità. La vocazione di un autore che vuole continuare a parlare del reale, ma che non può più farlo utilizzando una forma diretta di rappresentazione come è appunto il realismo. Il ricorso a un simbolismo didascalico dunque, più che mutare l’atteggiamento di Olmi nei confronti della Realtà, lo muta nei confronti della sua rappresentazione. Dicendoci anche molto sulla sua rappresentabilità nell’Italia contemporanea. Facendo trapelare, tra le righe, che la rappresentazione del Reale non è più possibile direttamente, che bisogna mediarla, trasfigurarla nel simbolo. Almeno non ora e non (più) qui. Il villaggio di cartone insomma è contemporaneamente l’affermazione di una necessità (quella dell’autore che vuole continuare a esprimersi, nonostante tutto) e la verifica di una sconfitta (quella del linguaggio del reale). Un film il cui merito più grande, sovrarappresentativo, sta nell’esprimere i disagi estetici – oltre quelli etici - dell’Italia di oggi.
Tutta la vicenda si svolge in un unico ambiente, lo spazio chiuso di una chiesa in via di dismissione da cui la macchina da presa non esce mai. Uno spazio impermeabile alle sollecitazioni dell’esterno, accogliente, e che dunque non diventa mai claustrofobico. Qui la vicenda di un anziano sacerdote e del suo sacrestano s’incrocia con quella di un gruppo di extracomunitari africani in fuga, che trova rifugio nella chiesa dismessa di cui l’uomo è stato parroco. Un gruppo di clandestini disperati e braccati, che in questo spazio diventano semplicemente ospiti, come sottolinea il vecchio prete. Prima di ricordare come “proprio quando la carità è a rischio, quello è il momento della carità”. È così che viene loro concesso di ripararsi dalla aggressioni dell’esterno, permettendogli di costruire all’interno della chiesa un piccolo “villaggio”, realizzato sbrigativamente con vecchi cartelloni e drappi consumati, prima che un’irruzione della polizia lo abbatta definitivamente. Due storie che s’incrociano dunque, ma che sono fatalmente destinate a dividersi ancora. E uno spazio che si arricchisce di nuova luce, che si rinnova, che si pone in antitesi al mondo esterno da cui arrivano solo aggressioni. Quella de Il villaggio di cartone è una storia semplice da raccontare. Una storia antica.
Forse per questo tutto sembra costruito come un apologo in cui a ogni simbolo non può che succederne un altro. Un crocifisso tirato via dal braccio meccanico di una ruspa, la chiesa dismessa come rifugio, i muri denudati dagli orpelli che riprendono Vita, una donna con bambino alla maniera di Giovanni Bellini o di Antonello da Messina, la delazione di un novello Giuda, l’irruzione della polizia come gli emissari di Erode. Al di là dei riferimenti biblici più o meno espliciti (narrativi e iconografici), quella de Il villaggio di cartone è però la storia di un incontro. Non tanto (e non solo) quello tra culture e religioni diverse, quanto quello tra le persone e la loro indecifrabilità, che è poi la bellezza dell’esistenza, il suo intimo segreto (come ricorda l’anziano sacerdote “Il segreto del Mondo è la persona umana”). Una riflessione su ciò che è (diventata) l’Italia di oggi attraverso una proposta universale, senza tempo. Che faccia riemergere l’antica radice della carità, che rinnovi una dimensione sacrale disfatta, che sia capace di andare oltre la Fede. Perché “per fare il bene non serve la fede. Il Bene è più della fede”.
Tutto ciò potrebbe apparire come una statica operazione senile, se non fosse che sono proprie le scelte di messinscena operate da Olmi a dinamizzare il discorso. Al quale è funzionale la tensione dialettica tra lo spazio della rappresentazione e il fuori campo, tra l’immagine il suono. Il rapporto tra l’interno e l’esterno infatti è sempre allusivo: i suoni che penetrano nello spazio sono quelle delle sirene, degli spari, delle esplosioni; le (uniche) immagini quelle di una barca naufragata trasmesse dalla tv oppure quelle delle torce o dei fari dei cellulari della polizia che assediano la chiesa. Una costruzione che ricorda, mutatis mutandis, quella del Fellini di Prova d’orchestra. Laddove però la pellicola del 1979 era una “sonorità senza sacralità” (De Vincenti), quella del regista bergamasco diventa una sonorità che genera sacralità, che fa riemergere l’antica concezione del “sacro”, proprio a cominciare dal recupero della sua etimologia.
Unico titolo italiano presentato nella selezione ufficiale di Venezia 68 capace di ergersi sopra l’aurea mediocritas della produzione nostrana, Il villaggio di cartone è il film di un grande vecchio. Di uno straordinario “direttore d’orchestra” che non vuole arrendersi, che vuole continuare a esprimersi con il linguaggio che sa utilizzare al meglio: quello delle immagini e dei suoni. Consapevole che, come recita il cartello che chiude il film, “O noi cambiamo il corso impresso dalla Storia, o sarà la Storia a cambiare noi”. Consapevole che, proprio per questo motivo, l’orchestra deve continuare a provare, trovare nuove armonie. E coprire così le sonorità disturbanti. Lasciandole fuori.
Francesco Crispino (Venezia, 10-09-2011)
http://www.cineclandestino.it/articolo.asp?sez=21&art=8107

martes, 26 de junio de 2012

La morte al lavoro - Gianni Amelio (1978)


TITULO ORIGINAL La Morte al Lavoro
AÑO 1978
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 83 min.
DIRECCION Gianni Amelio
ARGUMENTO del cuento "Il ragno" de Hanns H. Ewers
GUION Gianni Amelio, Mimmo Rafele
FOTOGRAFIA Angelo Sciarra
MUSICA Bernard Herrmann
ESCENOGRAFIA Nicola Rubertelli
REPARTO Federico Pacifici (Alex), Eva Axen (Eva), Giovannella Grifeo (l'amica di Alex), Fausta Avelli (la bambina), Clara Colosimo (la custode). Produzione: RaiTv/Rete 2.
GENERO Drama

SINOPSIS Appena trasferitosi nell'appartamento lasciato libero da un attore morto suicida, Alex si trova sempre più coinvolto nell'atmosfera fantasmatica del luogo. L'ambiente è ancora zeppo di ricordi del precedente inquilino - oggetti teatrali, manifesti di film e di divi del passato - e il giovane riceve strane telefonate notturne. Poco alla volta esclude dalla sua vita la fidanzata, per instaurare un rapporto muto, a distanza, con una ragazza che abita in un appartamento al di là della strada. Trovati in un armadio a muro degli abiti e una pistola appartenuti all'attore, Alex giunge all'ultimo atto. Indossa i vestiti e finisce coll'uccidersi con l'arma da fuoco, non si sa fino a che punto consapevolmente.

Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
http://www42.zippyshare.com/v/54076221/file.html

TRAMA
Un giovane si trasferisce in un appartamento dove un attore si è appena suicidato. C'è una stanza i cui armadi sono pieni di oggetti teatrali, di manifesti di vecchi film. Una bambina lo spia e nella casa di fronte una ragazza lo ossessiona. Lentamente l'atmosfera della casa sfuma nell'irrealtà: il giovane indossa gli abiti e il ruolo del precedente inquilino e si uccide. Prodotto da RAI2 e liberamente tratto dal racconto Il ragno di Hans H. Ewers, il 4° film di G. Amelio ha, come il successivo Effetti speciali (1978) e il precedente Bertolucci secondo il cinema (1976), per tema il cinema, la memoria del cinema, la visione, il rapporto tra realtà e finzione, il rifiuto della vita e il rifugio nella finzione. Titolo tolto da una frase di Jean Cocteau ("Il cinema è la morte al lavoro sugli attori"). Un esercizio di stile un po' asfittico che rischia di annegare nella propria cinefilia. Premio Fipresci a Locarno e 2 premi a Hyères 1978.
http://cinema-tv.corriere.it/film/la-morte-al-lavoro/01_54_78.shtml
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Il fascino di una storia e più che altro di un’atmosfera misteriosa, non si sa dove ci porta e dove il nostro pensiero approderà, perché il fascino consiste anche proprio in un  finale non definito, concretamente. Tratto da una racconto di Hanns H. Ewers “Il ragno”,  e da una serie che  si basava su storie sul mondo dello spettacolo, Amelio  sceneggia liberamente  con Mimmo Farese , in formato film tv. Qui nelle riprese siamo dalle parti dello sceneggiato, l’ambientazione e la stessa recitazione ci porta da quelle parti. Tutto si svolge in un interno e con il ritrovamento da parte del protagonista di fotografie riguardanti i miti del cinema; l’apprendimento casuale, e negato, da parte della portinaia, della morte di un giovane attore, precedente ospite nell’appartamento, non fa effetto al nostro protagonista, che viene in possesso  di cose appartenenti a lui, fra cui, appunto una ricchissima collezione di attori miti di ieri. E’ evidente il fatto significativo, e cioè che un attore vive dei suoi ruoli e dei suo miti, la sua vita è legata in stretto contatto con un mondo di fantasia in cui si annulla, con il rifiuto ben definito della realtà che sempre di più viene trascurata. Coinvolgente e conturbante l’immagine che appare alla finestra, che volontariamente rimarrà sempre distaccata  e che il protagonista non riuscirà mai a toccare realmente, anche se la comunicazione senza parole sarà sempre  chiara. L’immagine  della finestra farà parte tanto del suo vivere, da coinvolgerlo in maniera drammatica, ma volontariamente accettata; l’attore vive dei suoi ruoli in maniera veritiera, e chi andrà a verificare chi c’è dentro la stanza,  dove appariva nella finestra di fronte l’immagine che affascinava il giovane, non troverà che una scena spoglia, tipo un teatro di posa.
http://cinerepublic.film.tv.it/la-morte-al-lavoro-recensione-di-emmepi8/5890/
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Il regista italiano Gianni Amelio nasce il 20 gennaio 1945 a San Pietro Magisano, in provincia di Catanzaro. Nel 1945 il padre lascia la famiglia poco dopo la sua nascita per trasferirsi in Argentina in cerca del proprio padre che non ha dato più notizie di sé. Gianni cresce con la nonna materna che curerà la sua educazione. Fin da giovane Amelio è un cinefilo, grande amante del cinema, fa parte di un mondo proletario, contraddistinto dalla necessità di lavorare per vivere, e questa sua umiltà ricorrerà spesso nei suoi film.
Frequenta prima il Centro Sperimentale poi consegue la laurea in Filosofia all'Università di Messina. Durante gli anni '60 lavora come operatore e poi come aiuto regista. Muove i primi passi come assistente di Vittorio De Seta nel film "Un uomo a metà" e per molto tempo ha continuato questa attività. Altre pellicole in cui partecipa sono quelle di Gianni Puccini ("Ballata da un miliardo", "Dove si spara di più", "I sette fratelli Cervi").
Gianni Amelio poi inizia a lavorare autonomamente per la televisione, a cui dedicherà gran parte della sua carriera. Debutta dietro la macchina da presa nel 1970 con "La fine del gioco", realizzato nell'ambito dei programmi sperimentali della RAI: è l'esercizio di un giovane autore che scopre la macchina da presa, dove il protagonista della pellicola è un bambino rinchiuso in un collegio.
Nel 1973 realizza "La città del sole", curiosa ed elaborata divagazione su Tommaso Campanella che ottiene il gran premio al Festival di Thonon dell'anno successivo. Tre anni dopo segue "Bertolucci secondo il cinema" (1976), un documentario sulla lavorazione di "Novecento".
Vengono poi l'atipico giallo - girato con telecamera, su ampex - "La morte al lavoro" (1978), vincitore del premio Fipresci al Festival di Locarno. Sempre nel 1978 Amelio realizza "Effetti speciali", originale thriller che vede protagonisti un anziano regista di film dell'orrore ed un giovane cinefilo.
Nel 1979 è la volta de "Il piccolo Archimede", suggestivo adattamento dell'omonimo romanzo di Aldous Huxley che frutta a Laura Betti il riconoscimento di miglior attrice al Festival di San Sebastian.
Poi nel 1983 arriva il primo lungometraggio per il cinema, che sarà anche il più importante dell'intera carriera del regista: si tratta di "Colpire al cuore" (con Laura Morante), un film sul terrorismo. Il periodo, l'inizio degli anni 80, è contraddistinto ancora dal vivo ricordo dei cosiddetti "anni di piombo". La capacità principale di Amelio è quella di non dare giudizi morali sulla vicenda, ma spostarla in un conflitto intimo, tra padre e figlio, riuscendo a mostrare le due anime in modo originale e per nulla retorico. Nota dominante delle opere di Amelio è proprio il rapporto adulto-bambino, affrontato in tutte le sue sfaccettature, mentre sono assenti le storie d'amore. Presentato alla Mostra di Venezia, il film riscuote ampi consensi sul fronte della critica.
Nel 1989 ottiene un nuovo successo di critica con "I ragazzi di via Panisperna", dove vengono raccontate le vicende del famoso gruppo di fisici capitanato, negli anni '30, da Fermi e Amaldi. Un anno dopo, ancor più riuscito risulta "Porte aperte" (1990, sulla pena di morte, dall'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia), che procura a Gianni Amelio una meritata nomination all'Oscar.
Le pellicole successive sono "Il ladro di bambini" (1992, storia del viaggio di un carabiniere che accompagna due fratellini destinati a un orfanotrofio), vincitore del gran premio speciale della giuria al Festival di Cannes, "Lamerica" (1994, con Michele Placido, sul miraggio italiano del popolo albanese), "Così ridevano" (1998, sulla difficile realtà dell'emigrazione, nella Torino Anni '50, analizzata attraverso il rapporto di due fratelli), vincitore di un Leone d'oro alla Mostra di Venezia, e consacrano Amelio a livello internazionale.
Il 2004 segna il ritorno di Amelio come regista e sceneggiatore con "Le chiavi di casa", liberamente ispirato al romanzo "Nati due volte" di Giuseppe Pontiggia. Il film, interpretato da Kim Rossi Stuart e Charlotte Rampling, è tra i protagonisti della 61ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia, alla quale Amelio concorre per il Leone d'Oro.
http://old.sipario.it/gianniamelio.htm

ABBIAMO INCONTRATO IL REGISTA NELCORSO DI UN INCONTRO-DIBATTITO TENUTOSI MERCOLEDI’ 12 DICEMBRE 2001 PRESSO L’UNIVERSITA’ DELLA CALABRIA.

Domanda: Lei è uno dei registi italiani più importanti degli ultimi anni è il suo è sicuramente un cinema d’autore, ma ha dichiarato che non ama il "concetto di autorialità", cosa vuol dire oggi fare del cinema d’Autore?
Risposta: Il cinema d’autore, per me è il cinema dove c’è una persona che si prende la briga di portare la croce. Io porto sempre l’esempio del cireneo, il cireneo è un signore che è costretto a portare la croce al posto di Gesù Cristo, il cireneo non centrava nulla però viene incaricato d’ufficio di portare la croce, e lui senza fiatare si prende addosso questo peso e lo porta.
Io dico che per ogni cosa che facciamo soprattutto per un film, ci vuole qualcuno che porti la croce. La croce la porta colui che si prende la responsabilità delle scelte.
E allora possiamo dire che l’autore è Dreyer, l’autore è Murnau, l’autore è Ejzenstejn ecc. Invece può essere uno che porta la croce un po’ più disinvoltamente e allora può essere Corbucci, può essere Vanzina oppure se vogliamo stare sul cinema alto e nobile e benedetto da tutto e da tutti Spielberg, perché non è autore Spielberg o perché non è un autore Lucas? Non è un autore solamente Altman. Autori sono anche quelli che lavoravano nelle grandi majors americane quando essere autori era una bestemmia.
Oggi vuol dire che se tu ti prendi la responsabilità sei tu l’autore, se la dai a chi fa la fotografia è lui l’autore, se la dai a chi fa la produzione diventa l’autore, se la dai all’attore protagonista è lui l’autore. Se ti levi le responsabilità smetti di essere autore di quello che fai. Non è la qualità del lavoro che fa l’autore, in senso attuale, in senso moderno, perché noi passiamo parlare all’infinito d’autorialità ma poi si vedono in giro registi intellettuali che vanno sul set e non riescono a fare niente. Non bisogna essere intellettualmente aperti, preparati e poi non sapere svolgere fino in fondo il proprio ruolo oppure delegare altri. E perché deve essere negata l’autorialità a qualcuno che dice, io faccio un film di genere horror perché capisco l’horror e perché quello è il mezzo di comunicazione che mi appartiene e faccio un bellissimo film horror.
Perché noi siamo viziati da vecchi stereotipi per cui tutto ciò che è contaminato in qualche modo cessa di essere arte. Nel cinema soprattutto i confini dell’arte sono estremamente permeabili.
Il cinema è una cosa molto bastarda ,bastarda anche quando si tratta della passione di Giovanna D’arco, Dreyer per esempio quando deve dirigere la Dragonetti deve usare dei mezzi che pochissimo hanno a che fare con i massimi sistemi del nostro intelletto, magari le deve dare un sonoro ceffone per farla piangere.
Il cinema non si può fare in punta di forchetta, non si può fare sedendosi e pensando, al cinema bisogna pensare molto prima e poi dopo fare agire le viscere fare agire lo stomaco. Io dico sempre che la regia è la parte nascosta dell’iceberg, qualcosa che tu non vedi ad occhio nudo, quello che vedi ad occhio nudo sono le riprese di un film, nelle riprese di un film non si vede la regia. Tutti possono imparare la tecnica.
Il problema della regia è un altro, poi se tu vuoi diventare autore è un altro ancora.
D. Nei suoi film si ritrovano elementi neorealisti, che rapporto ha Gianni Amelio con il Neorealismo?
R. Io credo di essere lontanissimo dal Neorealismo, non sta a me poi giudicare.
Io mi sento con il cuore vicinissimo, ma non mi sembra di dare gli stessi risultati e mi sembra anche di essere storicamente dentro un abito lontanissimo da quello che ha prodotto il Neorealismo. Ci sono delle cose forse a livello di sguardo e sicuramente a livello di contenuto in alcune cose che possono ricordare De Sica, per esempio in Ladro di Bambini; forse c’è in un film come Lamerica qualcosa di rosselliniano ma a livello che Rossellini cercava di essere nei posti dove avvenivano le cose, che era un fatto tipico suo. Però, magari io avessi la capacità di aggiornare lo sguardo neorealistico, che andrebbe aggiornato non per un fatto di moda, ma per un fatto di coscienza dell’oggi. Magari io avessi maturato realmente gli insegnamenti del Neorealismo da fare un cinema che conservasse, ma nello stesso tempo riproponesse altre forme. Più semplicemente quello che io credo che manchi a me e al mio cinema è la forza di novità e la forza di rottura che il Neorealismo all’epoca aveva.
Io posso mettermi sulla scia di, ma non posso sentirmi erede. Perché se fossi erede realmente, allora sarei uno , non dico che rinnega ,ma che mentre ricorda trasforma.
D. Lei insegna alla Scuola Nazionale di Cinema a Roma, cosa vuol dire insegnare Cinema, ma soprattutto si può imparare a fare il Cinema?
R. Io posso essere disordinato e dire le cose che dico ogni anno il primo giorno ai miei studenti. Vedete ci sono il banco e la porta, al banco sedetevi il meno possibile la porta usatela per entrare ma soprattutto per uscire. Fuor di metafora, quello che voglio dire è che lo studente non deve sedersi e non deve pensare che essere studente sia un punto di arrivo, è un minuscolo punto di partenza.
Io dico che lo studente di Cinema debba essere un ladro di destrezza, non deve farsi accorgere di rubare ma deve rubare all’insegnante ciò che non gli viene detto.
Deve cercare di lavorare , ciascuno di noi deve cercare nel momento in cui un altro gli insegna di imparare anche contro l’insegnamento, non nel senso di opporsi in modo irragionevole, ma di non adagiarsi sull’insegnamento passivo.
Guai se io considero che una volta apprese determinate regole penso di diventare un grande regista. Una metafora che uso spesso è la differenza tra uno scrittore e un dattilografo, il dattilografo scrive a macchina benissimo però magari non ha niente da raccontare, uno scrittore è uno che forse ha delle cose da raccontare però digita magari molto lentamente.
Io dico che spesso la scuola di cinema forma dei grandissimi dattilografi ma non riesce a formare dei grandi scrittori.
D. Vorrei chiudere con un consiglio di Gianni Amelio a tutti coloro che vogliono fare Cinema.
R. Osservare, imparare ad osservare ad occhio nudo e poi allenarsi con una videocamera. Imparare ad usare lo sguardo e a trasformarlo in linguaggio che serva a trasmettere delle emozioni. Restituire delle emozioni è la cosa più difficile, io consiglio d’iniziare con dei documentari, tutto ciò che vi circonda può essere interessante se si riesce a rendere attraverso l’occhio della telecamera l’emozione che si può percepire ad occhio nudo. Allenarsi usando, se si presta, anche la sorella mentre studia, rendere l’immagine leggibile a livello di linguaggio e attraverso il linguaggio far capire i sentimenti. Riprendere anche le piccole azioni restituendole in tutta la loro grandezza, questo è Cinema.
MARILENA DATTIS
http://www.lastradaweb.it/article.php3?id_article=278

lunes, 25 de junio de 2012

Le signore - Turi Vasile (1960)


TITULO ORIGINAL Le signore
AÑO 1960
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 99 min.
DIRECCION Turi Vasile
GUION Turi Vasile, Luciano Martino, Ugo Guerra
FOTOGRAFIA Carlo Bellero
MUSICA Michele Cozzoli
PRODUCCION Fortunato Misiano para Romana Film
REPARTO Chelo Alonso, Ciccio Barbi, Gianni Bonagura, Miranda Campa, Mario Carotenuto, Paolo Ferrari, Franco Fantasia, Giovanna Galletti, Nadia Gray, Giampiero Littera, Livio Lorenzon, Eleonora Morana, Liana Orfei, Francesco Mulè, Fernanda Pasqui, Paolo Panelli, Antonella Steni, Bice Valori, Irene Tunc, Daniele Vargas
GENERO Comedia

SINOPSIS Le signore o pseudosignore del film sono le clienti di René, proprietario di un istituto di bellezza, le quali con i loro mariti, corteggiatori ed amanti si muovono intorno al parrucchiere-proprietario, dando origine ad una serie di avventure pochadistiche.


Turi Vasile (Messina, 22 marzo 1922 – Roma, 1 settembre 2009) è stato un produttore cinematografico, regista e sceneggiatore italiano.
Si laurea in Lettere, poi si dedica al teatro, sia come regista, sia come autore di numerose commedie: da La procura (1941), a Arsura, Orfano, L’acqua, I fiori non si tagliano, I cugini stranieri, Anni perduti, Le notti dell’anima e La cruna dell’ago.
Fin dagli anni quaranta è stato attivo anche nel cinema: a vent’anni è già assistente di Augusto Genina (Bengasi), in seguito si segnala come sceneggiatore e, soprattutto, come produttore.
In tempi più recenti, ha scritto per il teatro: Una famiglia patriarcale, Quiz (messo in scena con la regia di Andrea Camilleri), La confusione e Lia rispondi.

Nel 1992 ha iniziato a dedicarsi alla narrativa, soprattutto di genere memorialistico, coltivando uno stile al tempo stesso sensibile e sanguigno: ha pubblicato, con l'editore Sellerio, Paura del vento e altri racconti (1987), Un villano a Cinecittà (1993), L'ultima sigaretta (1996), Male non fare (1997), Il ponte sullo stretto (1999) e La valigia di fibra (2002).
È stato presidente dell'INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico), nonché critico letterario e collaboratore del Giornale.
http://it.wikipedia.org/wiki/Turi_Vasile

domingo, 24 de junio de 2012

La Grande Abbuffata - Marco Ferreri (1973)


TÍTULO ORIGINAL La grande abbuffata 
AÑO 1973 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Italiano (Separados)
DURACIÓN 125 min. 
DIRECTOR Marco Ferreri
GUIÓN Rafael Azcona
MÚSICA Philippe Sarde
FOTOGRAFÍA Mario Vulpiani
REPARTO Michel Piccoli, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Marcello Mastroianni, Andréa Ferreol
PRODUCTORA Coproducción Francia-Italia; Mara Films / Les Films 66 / Capitolana Films
PREMIOS 1973: Festival de Cannes: Premio FIPRESCI (ex-aequo)
GÉNERO Comedia. Drama | Sátira. Comedia negra. Película de culto

SINOPSIS Polémica película que narra como cuatro personas se reúnen en una casa para suicidarse en una orgía de comida y sexo. Cuatro amigos unidos por el hedonismo y el tedio más absoluto se reúnen en una mansión con la idea de suicidarse comiendo sin tregua. Pronto añaden a la gula otro pecado capital: la lujuria, y así empiezan a llegar las prostitutas. El sexo obsceno se entremezcla con los cerdos, los quesos, los jamones y el caviar... y cuando todos están cebados, comienzan las deserciones. (FILMAFFINITY)


Prima di tutto, prima del film, oggi, di fronte ad esso, c’è innanzitutto, l’epoca, e una certezza: gli anni ‘70, almeno al cinema, sono marcati, riconoscibili, brulicanti, in un’inquadratura, quanto gli anni ‘30. Le basette lunghe, i pullover attillati, le cravatte affilate, la maglia a collo alto e gli stivali lucidi al ginocchio, la lacca sui capelli e quella cromatica dei toni inconsapevolmente psichedelici dei costumi, lillà, viola, arancione, rosa. “Quello della banalità - ha scritto Antonioni - è un nulla osta che mi serve per andare avanti, è un’ipotesi di popolarità”. Ferreri ha sempre lavorato sull’attualità come arredo di immagini, volti, segni da cui prendere le mosse, è un cinema di costante rielaborazione e recupero, di riciclaggio simbolico e mediologico (da Tognazzi a Jerry Calà alla Dellera), ma anche di convinta curiosità per le forme spontanee dell’esistente: si può parlare, con il cinema, ad un pubblico qualunque, del suo mondo, in un linguaggio alternativo a quello che quotidianamente lo governa.
Questo, in realtà, vale più per il Ferreri urbanista e sociologo dei film successivi che esplora periferie e interni domestici come un antropologo del futuro, ma ciò non toglie che anche in La Grande Abbuffata, la ricchezza della trasparenza di un'epoca e di un mondo, sia un segno fortissimo che contrasta con un andamento da apologo, da racconto mitico, da parabola di tutto il film.
Altrettanto appariscente e ingombrante, è l’impianto simbolico, ottuso, scintillante e schematico (il Giudice, il Giornalista, il Cuoco...), e il freudismo eretto a realtà sovrana: la riduzione del tutto alla soddisfazione dei bisogni primari (il sesso e il cibo). Ma a fronte di questo tutto, salta agli occhi (alla bocca), la scarsa evidenza ottica, plastica o cinematografica dell’ossessione culinaria e alimentare. La Grande Abbuffata, è questo il suo segreto, lavora non sull’immagine del cibo ma su una esplorazione mentale e psichica la cui forza non è data dalla forza della sua rappresentazione. Se si confrontano Il Pranzo di Babette o Il Cuoco, il Ladro, l’Amante e la Moglie con La Grande Abbuffata - si tratta in tutti e tre casi di film che gravitano interamente intorno alla rappresentazione, la ritualità, la densità fisica e simbolica del cibo - la prima differenza che si mette in luce è lo scarto tra l’aspetto iconografico e rituale, la stilizzazione dell’aspetto visivo e figurativo della preparazione, consumazione, allestimento del cibo, nei primi due, e gli stessi aspetti in Ferreri. In fondo, il più famoso film sull’ossessione del cibo, non si vergogna d’infilare nel menu tortellini panna e funghi e tacchino al forno (con buona pace di Fauchon citato nei titoli di testa), e di gestire l’intero apologo con quell’aria un pò improvvisata da happening o orgia incombente, che forse data il film più del trucco femminile demodè o dei calzoni leggermente svasati.
Da dove attinge la sua fede apocalittica, e cosa conferisce alla sua voce quella profondità inscrutabile? Se è un film sulla promiscuità di corpi e cibo, polenta e feci, orifizi e pietanze, è altrettanto persuasivo nell’ imporre allo spettatore, per contaminazione continua, la sintesi di passato millenario e aggressiva contemporaneità: tutto lo scenario del film è inchiodato sullo sfondo del silenzio secolare di un bosco in cui crescono le querce che videro riposare i poeti e che assistono da sempre ai versi delle oche, totalmente ignare della Storia (come del Consumismo o dell’Alienazione, che sono i due bersagli privilegiati del cinema d’autore dell’epoca). Questo mix di contemporaneità e medioevo, di gergo da sociologi di fama e basso continuo e millenario, sono più forti della sgradevolezza, della corrosività,dello humour nero, che all’epoca abbagliarono tutti.
Rimane ancora intatta la verosimiglianza della sua scansione, del suo respiro, quella meccanica di “riempimento e svuotamento”, quella sazietà catatonica “con lo stomaco traboccante e i genitali svuotati” (Moravia), quella purezza della sopravvivenza animale che si trasforma - è la vera trasgressione, sorprendente e lancinante - nella ineluttabile vocazione alla scelta consapevole della propria morte. Più che un “monumento all’edonismo” e alla “tragedia della carne” (così ne parlò Bunuel), oggi sembra invece il film della più ingrata lucidità: il cinema nato e sospinto dal bisogno della liberazione del mondo che si rovescia fulmineamente, con la stessa determinazione e urgenza, nel cinema che invoca una liberazione dal mondo (stessi anni, stessa propensione funebre, stesso scetticismo senza riscatto dell’ Ultimo Tango a Parigi che insieme alla Grande abbuffata costituisce l’apogeo e l’esplosione finale delle ansie e dei programmi del Nuovi Cinema nati negli anni ‘60). Non l’arguzia di un Rabelais apocalittico, dunque, ma la pena, la malinconia inconfessabile, la carità (qualità di cui il film è impregnato almeno quanto lo è dello sberleffo o della satira) di un gruppo di goliardi di fine millennio che praticano, l’un l’altro, il suicidio amorevole via esofago.
(Mario Sesti)
http://www.filmfilm.it/film.asp?idfilm=25891

Cuatro amigos unidos por el hedonismo y el tedio más absoluto se reúnen en una mansión con la idea de suicidarse comiendo sin tregua. Pronto añaden a la gula otro pecado capital; la lujuria, y así empiezan a llegar las prostitutas. El sexo obsceno se entremezcla con los cerdos, los quesos, los jamones, el caviar…y cuando todos están cebados, comienzan las deserciones.
Abucheada en el festival de Cannes, esta película de Ferreri obtuvo en cambio un enorme éxito de público. Comedia trágica y cruda, La gran comilona es una crítica feroz de la sociedad del bienestar y del consumo que termina por destruirse a sí misma.
Ugo es un mesonero, Michel un productor televisivo, Marcello un piloto, Philippe un magistrado. Los cuatro son amigos y han creado una especie de “club de gourmets”. Decididos a suicidarse comiendo, para liberarse de una vida que parece haber perdido todo propósito, se reúnen en la mansión de Philippe, en las afueras de París, donde antiguamente se alojó el poeta Boileau. Empiezan así unas comidas suculentas y copiosas. Marcello invita a unas prostitutas que sin embargo se marchan casi de inmediato, al constatar la apatía y la indiferencia de los invitados. Una maestra, que ha llegado para mostrar a sus alumnos el tilo de Boileau, recibe y acepta la invitación para unirse al grupo y presenciar el desarrollo de la historia. La tragedia se va consumando. Marcello, que por la noche se ha quedado dormido en el jardín en un Bugatti, muere de frío. Michel muere en el intento de liberarse de los gases intestinales. Ugo pierde la vida a causa de las contracciones de una digestión imposible. Philippe muere comiendo, entre los ladridos de los perros y los mozos de la carnicería que siguen trayendo comida.
El comentario de Hugo Tognazzi
“Quizá hay que decir, ante todo, que La gran comilona es la experiencia más “diferente”, más “fuera de libreto”, más fantástica que haya vivido jamás en el campo de la cinematografí­a, sea por la atmósfera que se llegó a crear durante el rodaje, sea por el tipo de pelí­cula (una de las más “singulares” que se hayan filmado nunca, en la cual la comida entraba en nuestras interpretaciones actorales así­ como nuestras interpretaciones estaban estrechamente ligadas a la comida, si no determinadas por ella). Llegamos a la vieja mansión, en el centro de Parí­s, algo aislada de los otros palacios, consciente de su importancia; una vieja casa, cuyo jardí­n abandonado era como un amarillento boa de plumas de avestruz, colocado alrededor de los muros para proteger sus arrugas de las miradas indiscretas, a fin de que pudieran envejecer y morir defendiendo una suerte de pudorosa “privacidad”. Notamos en seguida esa extraña atmósfera de descomposición, a la cual, por otra parte, estábamos preparados por haber leí­do el libreto. Nosotros mismos debí­amos morir, uno tras otro, entre esos muros. Durante los primeros tres dí­as de trabajo nos dimos cuenta de que el director Ferreri nos hací­a decir cosas completamente diferentes de las escritas en el libreto. Es mas, dejaba que nosotros mismos sugiriéramos, inventáramos las frases, escena por escena. Y esto ocurrió superando la barrera de presunciones que, normalmente, afligen a los actores. Se creó un clima perfecto, tal vez irrepetible, porque en lo sucesivo nunca ocurrió que un actor se sintiera defraudado si otro tení­a más frases que él. Se llegó a establecer una competencia de perfeccionismo y altruismo, de manera tal que, en determinado momento, cada uno cuidaba más del rendimiento de los colegas que del propio. Y así­, decidimos romper el libreto. Mientras Ferreri estaba en el jardí­n, preparando una escena, le cayeron sobre la cabeza las mil hojas del libreto, hechas pedacitos”.

Cuatro amigos, Marcello el piloto de línea; Ugo el restaurador; Michel el realizador de televisión; y Philippe el juez, que vive con su ama de llaves, se reúnen un fin de semana en la casa señorial de Michel para realizar un suicidio gastronómico colectivo, que consiste en comer sin parar diversas especialidades. Hugo se encarga de la elaboración de los platos mientras que Marcello hace venir a unas prostitutas. No obstante, asustadas por el cariz que van tomando los acontecimientos, éstas se huyen muy temprano por la mañana y queda sólo la profesora Andréa, fascinada por la empresa suicida de los protagonistas.
Vista en 2006
En su día, una película considerablemente polémica. Cuatro amigos se encierran en un caserón con el objeto de comer hasta morir. No se explica por qué, ni se extraen conclusiones. Lo que deja el campo abierto a lo simbolismos fáciles, que quizá sean los mayores enemigos de la película: el hartazgo de la Europa rica, la gran crisis ideológica de signo nihilista que siguió al mayo francés, el propio agotamiento de las filosofías libertarias aparejadas al fenómeno hippy Llama la atención que la única superviviente de este suicidio colectivo sea una mujer, una maestra que se unió accidentalmente al cuarteto, y que parece disfrutar sinceramente con los excesos programados por sus compañeros.

Los años transcurridos desde el estreno de esta película la han aligerado de todo ese peso simbólico. El nihilismo sigue siendo hoy día un poderoso agente, pero se ha vulgarizado hasta tales extremos que ya le hemos perdido el respeto. Morir de puro exceso no es ya un problema moral, sino sanitario. Lo que, paradójicamente, ha hecho que esta película aparentemente pesimista resulte hoy incluso divertida. Lo único que queda en pie de sus posibles mensajes es la constatación de nuestras limitaciones: el placer (sexual, gastronómico, intelectual) es un continente inabarcable. La lucha por la muerte tiene algo de competición: el primer perdedor (Mastroianni) es el más ansioso, el mujeriego empedernido, el impaciente; luego cae el enamorado (Piccoli, en el que adivinamos una pasión secreta por el primer caído); en tercer lugar, el artista (Tognazzi); finalmente, el prisionero de los convencionalismos (Noiret). Que la maestra, Andréa Férreol, sobreviva a todos no parece encerrar ningún mensaje feminista. Si acaso, un chiste privado de los guionistas, un guiño al espectador masculino (que no puede dejar de sentirse afectado por la sensualidad desbordante de esta hermosa mujer gorda) y una afirmación de que la felicidad presupone una buena dosis de estolidez animal conscientemente asumida.

Y para qué negarlo: esta película cargada de intelectualismo afecta nuestras pasiones más primarias. Nos excita. Y, sobre todo, nos abre el apetito.
Además de poner en marcha nuestra la pulsión escópica, el cine estimula la nostalgia, de ahí­ que cada tanto nos demos el gusto de volver a ver una antigualla. La grande bouffe es una alegorí­a que participa de ese breve momento de “terribilití ”
que se apoderó de los directores europeos “cultos” a mediados de los años 70 del pasado siglo, cuya culminación se encuentra en Salí² o le centoventi giornate di Sodoma (1975), pelí­cula con la que el malogrado Pasolini escandalizó a las buenas conciencias de la cultura llamada progresista casi tanto como con las circunstancias de su propia muerte. En Salí², entre escenas de coprofagia y sadismo, unos fascistas malí­simos y de lo más groseros encerraban en un castillo a un grupo de jóvenes de ambos sexos y se dedicaban a sodomizarlos sistemáticamente, una y otra vez, entre consignas nihilistas y saludos con el brazo en alto.
Aquello era también “muy” alegórico.
Lo mismo que la obra de otro director italiano “comprometido”, Elio Petri, filmaba en 1970: Investigación sobre un ciudadano libre de toda sospecha, pelí­cula en la que un jefe de la policí­a polí­tica (Gian-Maria Volonté) se daba a un sofisticado acto de narcisismo: asesinaba a su amante (Florinda Bolkan) y dejaba deliberadamente toda clase de indicios para autoinculparse del crimen. Sospechaba -con alguna razón- que el sistema represivo del cual era él una pieza fundamental y decisiva, no era capaz de echarle el guante si él mismo era el criminal. Moraleja incontrovertible: la justicia sólo persigue a unos mientras que otros siempre quedan impunes, sobre todo si son los encargados de impartirla.
La alegoría es la figura preferida de la crítica social, prima hermana de la propaganda y de la publicidad, y fórmula preferida de la iconografía del barroco, figura que se hace más ceñida y discreta -y tanto más insoportable- cuando tiene connotaciones ideológicas o cuanto más torpe o más dogmático es quien la concibe y la diseña.
Pues nada, si se vuelve sobre La grande bouffe se comprueba que es una pelí­cula italiana alegórica en la que se propone una mirada “descarnada” sobre la burguesí­a. La protagonizan actores franceses e italianos, pero el guión es de un español, Rafael Azcona. Sin embargo, su marca inconfundible, su modelo y hasta su forma caracterí­stica es de Luis Buñuel, que no figura en los créditos, pero que sin lugar a dudas es el inspirador del escenario goyesco así­ como de la trama escueta, casi inexistente, del filme: cuatro individuos masculinos de mediana edad y buena posición, un piloto de aviones (Marcello Mastroianni) un director de publicidad (Michel Piccoli) un chef (Ugo Tognazzi) y un juez (Philippe Noiret) se reúnen en una casona y encargan en las mejores proveedurí­as de Parí­s una cantidad incalculable de comida. Enseguida entiende el espectador que la intención de estos amigos no es tanto gastronómica como perversa: se proponen zamparse todo aquello, pero lo que en verdad quieren es comer hasta reventar.
Al cabo de unos dí­as de comilona ininterrumpida y tras contratar a unas prostitutas para unirse a la juerga, entran en contacto con una maestra del pueblo llegada al jardí­n de la casona a jugar con sus niños, y la invitan a cenar. Sin pensárselo dos veces, la maestra (Andréa Ferréol, una actriz gordita y sensual) se apunta al festí­n con los cincuentones y las putas, y se queda en la casa. Poco a poco, con el correr de los dí­as, las respectivas dispepsias de los cuatro amigos van convirtiéndose en empachos, y los empachos en retortijones; empiezan los meteorismos, una incontenible flatulencia y los vómitos, lo que no disuade a los protagonistas que siguen con las comilonas, de modo que al final llega el colapso. Las prostitutas, asqueadas por las costumbres un tanto exageradas y extravagantes de este puñado de descerebrados (y además porque -cómo si no, tratándose de un guionista español de mediados de los años 70- son lesbianas), abandonan la escena y sólo la maestra gordita, convertida en alegorí­a de la muerte, los acompaña hasta el final. Mueren uno tras otro, entre los sones de una melodí­a de cabaret, acompañados por la maestra jardinera que no sólo se suma de buena gana a la comilona, sino que copula con cada uno de ellos y los ayuda a morir. La trama -quizá porque ya es suficientemente alusiva- no introduce ninguna razón y, como no hay nudo, tampoco hay desenlace. No hace falta explicar nada porque no pasa nada que no deba ser “autoevidente” para el espectador. Así­ pues, de esas muertes inopinadas uno atina a pensar que ejemplifican una especie de suicidio de la burguesí­a, pensada como una clase “decadente” que sólo existe para suicidarse y, naturalmente, atragantándose con sus propias comilonas. Se presupone que guionista y espectador comparten la idea de que el destino de clase de los burgueses es colapsar o reventar como ví­ctimas irredimibles de su propia gula.
Por supuesto que esto es lo primero que el tiempo desmiente. Y aunque el absurdo de base es buñuelesco -efectivamente, en El discreto encanto de la burguesía (1972, Luis Buñuel)- hace enlazar los episodios de su relato haciendo que sus personajes se reencuentren, tras cada situación dramática, en sucesivos encuentros gastronómicos; y en otra pelí­cula del célebre aragonés, El ángel exterminador (1962), se alude al progresivo enclaustramiento de los burgueses como una pauta de clase- la fórmula literal de Azcona/Ferreri más que a Buñuel se parece a un típico buñuelo: un bollo que parece exquisito pero que en el fondo es una ordinariez. Sin embargo, no recuerdo que en su momento nadie advirtiese la patraña”, acompañado por comentarios tales como “una crítica despiadada a nuestras sociedades ahítas y opulentas”. Al cabo de treinta años la pelí­cula deja ver su torpe modelo crítico y su candidez, porque mientras tanto la burguesía sigue allí­, con el añadido de que ahora cuida el colesterol, come alimentos balanceados y algas japonesas, y hace deporte. Es que la burguesía no tiene nada que ver con la “gourmandise” de unos cincuentones acomodados; y sus costumbres son bastante más complejas que el comer a saco, una hipérbole un tanto trivial salida de la mente de un típico guionista hispánico que da demasiado valor a la comida, pero sobre todo a la cantidad.
El tiempo destroza todas las alegorías. Sin embargo las películas de Buñuel todavía resisten los años y en cambio esta película, juzgada en su momento como radical e implacable crítica de la costumbres “tardocapitalistas”, se ve ahora como una parodia escatológica salida del cine “gore”.
¿Por qué razón una obra queda atrapada en el contexto que le dio sentido o razón y en cambio otras son eternas, y parece como si atravesaran las barreras de las lenguas, los tópicos y las modas y los prejuicios del momento? ¿Por qué razón se soporta el Napoleón de Abel Gance y en cambio Godard se nos revela como un pelmazo cantamañanas más grande que una catedral? Uno tiende a pensar de manera idealista que es la inasible relación entre la forma y el contenido, y recurre a las teorí­as sobre la espiritualidad del arte, el canon y la Forma, pero seguramente la explicación es otra. Una obra, hasta la más mala e insignificante, deja siempre una huella en la tradición. Y esa huella enlaza con otras para constituir itinerarios que sirven para reconstruir nuestra memoria o para orientarnos en el bosque de signos en busca del sentido. Pero el tiempo fatalmente borra las huellas y los rastros se interrumpen o se confunden. Así­ pues las alegorí­as envejecen y las metáforas se vací­an hasta convertirse en pasos perdidos, “cul-de-sac”, ví­as muertas. De modo que cuando, en un acto de nostalgia, de memoria o de investigación, volvemos a ellas gracias a que la cultura es un archivo, ya no encontramos ningún sentido en sus programas no porque sean absurdas o inescrupulosas o inconsistentes sino porque nos hemos “hecho” de otros significados. No han cambiado las coordenadas de la obra, hemos cambiado nosotros, y muchas veces de acuerdo con esa obra (o contra ella).
El hombre es un ser genérico, decía Marx, un ser que tiene la cualidad de construirse a sí­ mismo como individuo y como especie. Parece veleidoso y superficial pero sus veleidades no son cambios de gusto o de patrones estéticos. Cuando cambia, lo que cambia es su historia.
http://www.claqueta.es/1973-1975/la-gran-comilona-la-grande-bouffe.html

sábado, 23 de junio de 2012

Cantando dietro i paraventi - Ermanno Olmi (2003)


TÍTULO ORIGINAL Cantando dietro i paraventi
AÑO 2003
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español e Italiano (Separados)
DURACIÓN 98 min. 
DIRECTOR Ermanno Olmi
GUIÓN Ermanno Olmi (Historia: Jorge Luis Borges)
MÚSICA Han Yong
FOTOGRAFÍA Fabio Olmi
REPARTO Bud Spencer, Jun Ichikawa, Sally Ming Zeo Ni, Camillo Grassi, Makoto Kobayashi, Wen Li Guang, Chen Ruohao, Davide Dragonetti
PRODUCTORA Coproducción Italia-Reino Unido-Francia; Cinema 11 / Ministero per i Beni e le Attività Culturali / Pierre Grise Productions / RAI Cinema
PREMIOS 2003: Premios David di Donatello: 3 premios. 5 nominaciones
GÉNERO Aventuras. Drama | Piratas
 
SINOPSIS Película de piratas basada en un personaje al parecer auténtico, la viuda Chin, quien, al ser envenenado su marido, un corsario chino, tomó las riendas del oficio, asaltando barcos y aldeas, para indignación del emperador. (FILMAFFINITY)




"La luna si affaccia su ogni specchio d'acqua, ma la luna vera è solamente una."


SOGGETTO
Ispirato ai documenti conservati negli archivi di Pechino "Memorie concernenti il sud delle montagne Meihling" e all'opera del poeta cinese Yuentsze Yunglun dedicata alla "Piratessa Ching" pubblicata a Canton nel 1830.

CRITICA
"'Cantando dietro i paraventi' è l'esatto contrario dell'imminente 'Kill Bill': se Quentin Tarantino dichiara guerra al mondo intero in nome della vendetta, Ermanno Olmi invoca la pace nel segno del reciproco perdono. Chissà se in futuro qualcuno, evocando i massacri senza fine del 2003, vedrà nella contrapposizione di due film particolarmente significativi la proiezione dell'opposto atteggiamento che divide l'Europa dall'America. (...) Questo è forse il primo film di pirati senza scene cruente: in un quadro di violenza implicita, l'unico arrembaggio è la presa di possesso di una nave che non fa resistenza. Sostenuto da un'antologia musicale che sembra il parto di un compositore solo, 'Cantando dietro i paraventi' emana l'affascinante splendore di un mito sul quale riflettere pur senza intenderlo fino in fondo. Per goderne bisogna dimenticare il cinema dello spettacolo convenzionale. Non a caso la bella studentessa di architettura, Jun Ichikawa, incarnante la vedova Chin, parla della sua avventura come di un'esperienza spirituale".
(Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 18 ottobre 2003)

"Dalla Storia alla leggenda. Dalla guerra alla pace. Dall'Italia alla Cina, una Cina tutta esotica, filtrata con sensibilità e fantasia occidentali. Il nuovo film di Ermanno Olmi, 'Cantando dietro i paraventi', non potrebbe essere più diverso dal 'Mestiere delle armi', il capolavoro con cui il grande regista tornò al cinema dopo un silenzio durato cinque anni. Eppure sono, ognuno a suo modo, due film politici. (...) Paesaggi rapinosi. Cambi di tono e di ritmo continui. Dialoghi costellati di trasparenti allusioni al presente (al governo fischieranno le orecchie). Una colonna sonora incalzante e composita (Han Yong, Stravinskij, Berlioz, Ravel, canti popolari cinesi) che ora esalta, ora congela l'emozione. 'Cantando dietro i paraventi' non è forse il più bel film di Olmi, certo è il più libero e imprevedibile. Anche se tanta libertà finisce per servire un 'discorso' così esplicito da usare le immagini, a differenza che nel 'Mestiere delle armi', dove il senso scaturiva direttamente dal film. Si può ammirare il coraggioso, e sfarzoso, tour de force . Noi preferiamo il rigore dell'Olmi storico."
(Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 24 ottobre 2003)

"Di fronte a questa favola meravigliosa e necessaria nata in un tempo cinese fantastico che parla di oggi, si resta in dubbio se amare di più l'uomo Ermanno o il regista Olmi. Risposta: entrambi. 'Cantando dietro i paraventi' è un affascinante capolavoro che parla della fatica necessaria della pace senza mostrare un rivolo di sangue: l'altra faccia di Tarantino. (...) Tutta l'appassionante favola, mediata dal ralenti della memoria, è un omaggio al teatro di Brecht-Strehler, con le sue anime buone, ma anche alla saggezza impetuosa di Kurosawa. Complementare al 'Mestiere delle armi', il film del gran lombardo manzoniano parla delle necessità del perdono, senz'ombra di retorica: la parabola entra nella coscienza e si sistema lì per sempre."
(Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 25 ottobre 2003)

"Olmi, e non sarebbe lui sennò, se ne frega altamente dei rozzi sociologismi femministi. Le donne sono fatte per donare serenità e per cantare discretamente dietro i paraventi, come la pioggia per bagnare i campi e il sole per riscaldare. Se poi pirati, azionisti e imperatori odierni abbiano voglia di starlo ad ascoltare, purtroppo, è tutt'altro paio di maniche. Unico appunto a un film che riempie gli occhi e il cuore, rispetto al capolavoro che lo ha preceduto, il suo inclinare verso una semplificazione didascalica che eccede la necessità."
(Paolo D'Agostini, 'la Repubblica', 26 ottobre 2003)

E' stato Borges, nella sua Storia universale dell'infamia, a far conoscere alla cultura occidentale la storia della vedova Ching, che costituisce il soggetto dell'ultimo film di Ermanno Olmi (1). Si tratta di una vicenda ambientata in Cina tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, quando gli azionisti delle ciurme di pirati si uniscono in società e nominano ammiraglio delle loro flotte il valoroso Ching. Per porre fine alle sue scorrerie, l'Imperatore gli offre un posto di comando nell'esercito ufficiale. Venuti a conoscenza dell'abboccamento, gli azionisti fanno avvelenare Ching: ma sua moglie – decisa a vendicarsi – lo sostituisce alla guida delle navi. Per anni i pirati della vedova Ching non conoscono ostacoli. Alla morte dell'Imperatore, i generali inviano ad affrontarla l'ammiraglio Kwo-Lang, che però viene sconfitto e si toglie la vita per il disonore. Al suo posto è nominato il giovane principe imperiale Think-Wei, che costruisce una flotta potentissima e affronta in mare aperto le giunche dei corsari. Ma invece di sparare, Think-Wei invia verso la nave della donna uno stormo di aquiloni recanti un messaggio di pace e di perdono, ricavato dall'antica favola cinese del drago e della farfalla. La piratessa accetta il perdono e pone fine alla guerra.
Olmi tuttavia non si è fermato al racconto di Borges ma si è messo alla ricerca delle fonti storiche antiche, dei documenti di archivio conservati a Pechino e di un poema del 1830 intitolato La piratessa Ching, da un verso del quale è ricavato il titolo del film (2). Come era già accaduto per il Mestiere delle armi, quindi, anche Cantando dietro i paraventi nasce da una ricerca storiografica di grande impegno, dalla curiosità suscitata da vicende remote che hanno spinto il regista a tentare una riesumazione e una riattualizzazione del passato.
Occorre comunque precisare che – a differenza del Mestiere delle armi, insieme al quale costituisce un dittico sulla guerra e sulla pace – Cantando dietro i paraventi non è un film storico. Il cinema storico non si definisce sulla base della storicità della materia: piuttosto è una categoria stilistica, un modo di presentare e di circoscrivere gli avvenimenti. Il Mestiere delle armi ad esempio è un film storico non perché non si discosti mai dai documenti d'archivio, ma perché esibisce la propria storicità attraverso cartine d'epoca, fonti epistolografiche, didascalie eccetera, che collocano la vicenda in un'ambientazione spaziale e temporale determinatissima (3). In Cantando dietro i paraventi, al contrario, la storia rimane come in filigrana, perché ogni determinazione particolare è stata stilizzata e per così dire trasfigurata in forme astratte, in uno spazio e in un tempo che sono la Cina antica soltanto per via di un'adesione del regista a un'iconologia convenzionale, ma che potrebbero essere trasferiti in un altro spazio e in un altro tempo. Cantando dietro ai paraventi appartiene, come ha dichiarato più volte il regista, al regno della favola.
Se ne ripercorriamo tutta la filmografia, possiamo notare come Olmi abbia mutato nel corso degli anni le sue modalità di osservazione del reale. Nei primi quindici anni di attività, da Il tempo si è fermato (1959) fino alla Circostanza (1974), c'è un interesse a compiere un'analisi diretta della società contemporanea, una curiosità a scandagliare la realtà a noi più prossima, i cambiamenti sociali che coinvolgono le relazioni lavorative e familiari. A partire dall'Albero degli zoccoli (1978) abbiamo invece uno sguardo indiretto, mediato dalla storia, dalla favola, dalla letteratura: è un'opzione a favore del simbolo e dell'allegoria, dei significati universali. Per meglio comprendere la realtà, Olmi capisce che è necessario retrocedere, distanziarsi dal proprio oggetto. Come fa – nel Barone rampante di Calvino – il conte Cosimo, che sale sugli alberi per meglio vedere la terra. In questa seconda fase si inserisce in modo molto naturale anche Cantando dietro i paraventi, che trasporta sul piano della favola – genere già sperimentato da Olmi altre volte, ad esempio nel Segreto del bosco vecchio – i temi e i motivi che nel Mestiere delle armi erano stati ricercati sul terreno della storia.
La favola di Olmi è ovviamente un genere ricreato ex novo assemblando elementi tradizionali. Se pensiamo ad esempio all'ambientazione, questa Cina che non è un paese storicamente reale ma piuttosto un luogo del sogno di cui possiamo trovare precedenti, per fare un esempio, nelle favole teatrali di Carlo Gozzi, autore della celebre Turandot poi musicata da Puccini. A questo tipo di esotismo fiabesco manca il fantastico inteso in senso classico come infrazione delle leggi naturali (prodigi, mostri, magie), cui fa posto un'interpretazione trasognata, indeterminata e lirica degli elementi naturali, del mare, del cielo, della luna. Il fantastico cioè non è dato dal profilmico in sé, ma dallo sguardo con cui il regista lo osserva sottraendogli peso e fisicità, trasfigurandolo in una fotografia molto colorata. Da questo punto di vista i colori accesi di Cantando dietro i paraventi si oppongono in modo netto alle ombre e ai chiaroscuri del Mestiere delle armi, dove dominava una diversa concezione pittorica, volta ad accentuare la realtà e la materia.
Evidente è poi il carattere morale della favola: non solo perché si tratta di un apologo che riserva al finale il manifestarsi completo di un insegnamento; ma anche per la sua struttura aforistica. Motti e proverbi quali "dinanzi a un gesto gentile bisogna deporre la spada", "se hai due soldi, uno spendilo per il pane, con l'altro compra giacinti per il tuo spirito", "non siamo che vapori dispersi nell'aria, ramoscelli spezzati dalla furia del vento" ci riportano alla sentenziosità apodittica che è comune alla letteratura cinese, alle favole classiche occidentali e alle parabole evangeliche.
In senso molto generale, possiamo provare ad applicare alla favola di Olmi le funzioni elaborate da Propp (4) e leggere in questa chiave la struttura narrativa del film, che in effetti inizia con una serie di perdite che hanno bisogno di essere colmate: i villaggi cinesi perdono la pace a causa delle scorrerie dei pirati, l'ammiraglio Ching perde la vita, la vedova perde la propria identità femminile. I personaggi credono che la guerra e la vendetta siano gli strumenti con cui potranno compensare le perdite. L'evento prodigioso che spezza la catena dell'odio e sana la ferita inferta alla convivenza sociale è dato dall'episodio degli aquiloni, dal perdono offerto dal Principe che svolge la funzione del salvatore. Non è un miracolo in senso classico, perché non comporta un'infrazione delle leggi naturali. Ma è un miracolo di natura "etica" perché smentisce la natura dell'uomo e la sua propensione al conflitto.
Eppure il gesto di perdono del Principe non basta da solo a portare la salvezza: necessita di una risposta favorevole da parte dell'eroina, che è chiamata a superare una prova. Il senso del finale del film è che la vedova deve essere in grado di comporre il rebus degli aquiloni: la pace è un "segno" e come tale bisogna saperlo cogliere e decifrare.
Non abbiamo ancora detto che la vicenda è inserita in una cornice narrativa molto complessa, che ci ricorda come Olmi sia – prima ancora che un regista "di contenuti" – un narratore complesso e un grande sperimentatore di soluzioni narrative. La cornice contiene – per utilizzare il linguaggio dei semiologi – delle marche metalinguistiche molto evidenti: una figura vicaria dello spettatore e una figura omologa del narratore.
Un ragazzo occidentale si reca in taxi a un convegno sulla cosmologia. Sbaglia indirizzo e si ritrova in un edificio che ospita contemporaneamente un bordello e un teatro cinesi. Mentre il ragazzo finisce nelle stanze delle concubine, sul palcoscenico teatrale un ex capitano della marina spagnola introduce la rappresentazione della vicenda della piratessa Ching. Come ha spiegato il regista, il ragazzo è una figurativizzazione dello spettatore: "può rappresentare la nostra condizione se siamo in uno stato ideale per recepire una favola. Il giovane, in cerca di un convegno di cosmologia, arriva in teatro dove è costretto ad abbassare lo sguardo dal cielo verso la materialità delle cose terrene. Per guardare il cielo bisogna partire dalla terra altrimenti non si è neanche più in grado di riconoscere il cielo" (5). Il ragazzo ha in mano un pacco regalo. Nel finale una concubina lo scarta estraendone un libro non meglio identificato, che potrebbe essere il poema di Yuentsze Yunglun sulla Piratessa Ching.
Il capitano della marina spagnola (interpretato da Carlo Pedersoli) è invece una figura del regista/narratore, ma contemporaneamente è un protagonista degli eventi narrati, un membro dell'equipaggio della piratessa. Alla funzione del narratore si aggiunge insomma quella testimoniale, di garante della veridicità e della storicità della favola. Alla quale possiamo sommarne una terza, fondamentale: la funzione ironica, tramite la quale il capitano smorza le passioni umane e ne sottolinea, con sorriso affettuoso, la follia.
Con Cantando dietro i paraventi Olmi è tornato alle origini della propria formazione intellettuale, che è avvenuta proprio sui classici del teatro. La storia viene raccontata alternando scene teatrali a scene cinematografiche pure, girate all'aperto, sulle navi dei pirati. Nelle prime la regia ha voluto sottolineare l'apparato scenico, i fondali e le quinte, i trucchi, diciamo l'aspetto artigianale del teatro, mettendo in evidenza – secondo una sensibilità tipicamente olmiana – il tema del mestiere.
Anche nella stiva della nave della piratessa si svolgono mimi e rappresentazioni drammatiche. Ma in generale, occorre evidenziare come l'impianto narrativo di tutto il film – anche nelle sequenze che abbiamo definito "cinematografiche" – è di natura teatrale assai più che cinematografica: non c'è una linea narrativa progressiva, ma piuttosto delle antitesi drammatiche, una contrapposizione di forze e blocchi statici, tanto che possiamo affermare che il regista avrebbe potuto ambientare in teatro anche le scene dei combattimenti navali e delle scorrerie, ricorrendo a navi stilizzate. Persino l'immagine risente di questa staticità, visto che le inquadrature fisse prevalgono sui movimenti di macchina e che dal punto di vista figurativo Cantando dietro i paraventi si presenta come una successione di grandi quadri e affreschi.
Per illustrare i motivi di questa alternanza fra teatro e cinema all'interno della pellicola, Olmi ha dichiarato che "il teatro ha come sua naturale propensione quella di distillare un pensiero. Il cinema è grande dispensatore di emozioni. Ho cercato di far convivere i due mondi". In realtà l'interazione tra sequenze teatrali e sequenze cinematografiche non si limita all'alternanza tra pensiero e pathos, o pensiero e azione, ma avviene su una gamma più variegata di livelli. Le parti teatrali svolgono innanzi tutto una funzione didascalica: introducono l'azione e la contestualizzano dal punto di vista storico, cosa che nel Mestiere delle armi veniva svolta dalla voce fuori campo, dalle mappe in sovraimpressione e dalle didascalie. In secondo luogo, il teatro introduce una figurazione plastica e allegorica che integra l'azione: ad esempio l'avvelenamento dell'ammiraglio Ching viene anticipato sul palcoscenico per via indiretta, mediante l'avvelenamento del pesce, secondo la regola del teatro classico che la morte non può essere mostrata sul palcoscenico.
Molte recensioni hanno notato una carica insolitamente sensuale in questo film, che presenta infatti molte scene di nudo femminile. Questo aspetto viene rilevato proprio perché si tratta di Olmi, di un regista cioè che per pigrizia intellettuale abbiamo incasellato in una certa categoria, pensandolo un po' come se fosse un san Luigi del cinema italiano. Questo elemento di sensualità credo che rivesta una precisa funzione all'interno del racconto, quella di sottolineare la femminilità della piratessa e, di conseguenza, accentuare l'ossimoro costituito dalla donna-guerriera.
Quello della donna-guerriera è un topos della letteratura classica: basta riandare alle pagine dei nostri libri di scuola. Nel VI canto della Gerusalemme Liberata – per fare un esempio illustre – Erminia decide di entrare nel campo di battaglia per salvare l'amato Tancredi. Il passaggio dell'elemento femminile nell'agone bellico è sottolineato dal gesto rituale di indossare l'armatura guerriera. Per passare dal romanzesco all'epico, Erminia deve perdere la propria femminilità attraverso il rito iniziatico della vestizione dell'armatura.
Olmi aveva sperimentato questo tipo di commistioni già nel Mestiere delle armi, là dove l'amante di Giovanni de' Medici attraversava notte tempo il campo di battaglia, oltrepassando lo spazio erotico-romanzesco per addentrarsi in quello epico-cavalleresco. In Cantando dietro i paraventi, la vedova Ching compie l'ossimoro nella sua interezza: per questo la regia insiste tanto sui due poli opposti della nudità corporea (femminilità) e dell'armatura guerriera (virilità). L'assurdità della guerra opera un sovvertimento della realtà naturale, solo la pace potrà riportare le donne a "cantare dietro i paraventi".
E' chiaro che Olmi sta proseguendo il discorso sulla guerra iniziato nel film precedente. I primi piani delle bocche da fuoco dei cannoni contenuti in Cantando dietro i paraventi ci riportano ai temi e al repertorio iconico del Mestiere delle armi dove Olmi – rifacendosi in alcune sequenze all'Età del ferro di Rossellini – metteva in campo una riflessione sulla spersonalizzazione del conflitto bellico causata dall'introduzione delle armi da sparo. Ora il discorso si sposta su un altro versante, sullo stravolgimento della natura femminile provocato dall'odio della guerra, e questa innaturalezza è smascherata – come già avveniva nel Mestiere delle armi – dallo sguardo muto dei bambini. In una sequenza, in particolare, la donna-guerriera si imbatte in un bambino che potrebbe essere suo figlio e che in ogni caso la riconduce per un istante alla funzione materna che la vedova Ching ha cancellato in se stessa.
Una delle cifre stilistiche di tutto il cinema di Olmi sta nella mescolanza di diversi piani temporali all'interno di una stessa sequenza, nell'utilizzo del flashback e del flashforward (o flashback di anticipo) per ricostruire la complessità interiore dell'individuo, che vive il tempo presente rivolto verso il passato e proiettato verso il futuro.
In Cantando questa scomposizione dei piani temporali avviene solo in un paio di casi: quando la vedova desidera uno dei suoi marinai e contemporaneamente è assalita dal ricordo del marito e quando ripercorre – prima di scegliere se accettare o meno il perdono del principe – le tappe della propria scelta e rivede le immagini del passato (l'armatura, il marito… le ragioni del suo odio). La scomposizione temporale risulta in sostanza piuttosto attenuata rispetto ad altri film di Olmi: in parte perché il tempo della favola è per natura un tempo sospeso; in parte perché Cantando si basa su un altro asse di scomposizioni, quello tra il tempo del teatro e quello del cinema, quello dell'oggi e quello dell'ieri. Paradossalmente, il tempo della favola – che dovrebbe essere quello del passato, vista la storicità del soggetto – finisce per essere quello del futuro, dell'utopia, del sogno dell'umanità ancora da realizzare.

(1) J.L. BORGES, Storia universale dell'infamia, Il Saggiatore, Milano 1961: Un pirata: la vedova Ching, pp. 37-43.
(2) Le fonti sono elencate sul sito ufficiale del film www.mikado.it/cantandodietroiparaventi: Yuentsze Yunglun, La piratessa Ching, Canton 1830; documenti conservati negli archivi di Pechino (Memorie concernenti il Sud delle Montagne Meihiling); History of the Pirates who infested the China Sea, London 1831; Pirates Own Book, Narrative of the Capture and Treatment amongst the Ladrones di Richard Glasspoole. In realtà la History of the Pirates del 1831 sembrerebbe una traduzione del poema cinese, come indicato nel catalogo della British Library: YUNG LUN-YUEN, History of the Pirates who infested the China Sea, from 1807 to 1810. Translated from the Chinese orriginal, with notes and illustrations, by C.F. Neumann, London 1831. In questo caso, si fatica a muoversi tra le fonti di Olmi.
(3) Sulla storicità del Mestiere delle armi rimando a: A. BETTINELLI – E. ZENOBI, Il Mestiere delle armi, "Il Ragazzo Selvaggio", 36 (2002), pp. 20-29.
(4) V. PROPP, Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1972.
(5) G. BERNONI, Se accetti un gesto gentile devi deporre la spada. Incontro con Ermanno Olmi, "Sentieri Selvaggi", 5/11/2003, http://www.sentieriselvaggi.it/.
http://www.effettonotteonline.com/news/index.php?option=com_content&task=view&id=573&Itemid=23