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domingo, 24 de junio de 2012

La Grande Abbuffata - Marco Ferreri (1973)


TÍTULO ORIGINAL La grande abbuffata 
AÑO 1973 
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Italiano (Separados)
DURACIÓN 125 min. 
DIRECTOR Marco Ferreri
GUIÓN Rafael Azcona
MÚSICA Philippe Sarde
FOTOGRAFÍA Mario Vulpiani
REPARTO Michel Piccoli, Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Marcello Mastroianni, Andréa Ferreol
PRODUCTORA Coproducción Francia-Italia; Mara Films / Les Films 66 / Capitolana Films
PREMIOS 1973: Festival de Cannes: Premio FIPRESCI (ex-aequo)
GÉNERO Comedia. Drama | Sátira. Comedia negra. Película de culto

SINOPSIS Polémica película que narra como cuatro personas se reúnen en una casa para suicidarse en una orgía de comida y sexo. Cuatro amigos unidos por el hedonismo y el tedio más absoluto se reúnen en una mansión con la idea de suicidarse comiendo sin tregua. Pronto añaden a la gula otro pecado capital: la lujuria, y así empiezan a llegar las prostitutas. El sexo obsceno se entremezcla con los cerdos, los quesos, los jamones y el caviar... y cuando todos están cebados, comienzan las deserciones. (FILMAFFINITY)


Prima di tutto, prima del film, oggi, di fronte ad esso, c’è innanzitutto, l’epoca, e una certezza: gli anni ‘70, almeno al cinema, sono marcati, riconoscibili, brulicanti, in un’inquadratura, quanto gli anni ‘30. Le basette lunghe, i pullover attillati, le cravatte affilate, la maglia a collo alto e gli stivali lucidi al ginocchio, la lacca sui capelli e quella cromatica dei toni inconsapevolmente psichedelici dei costumi, lillà, viola, arancione, rosa. “Quello della banalità - ha scritto Antonioni - è un nulla osta che mi serve per andare avanti, è un’ipotesi di popolarità”. Ferreri ha sempre lavorato sull’attualità come arredo di immagini, volti, segni da cui prendere le mosse, è un cinema di costante rielaborazione e recupero, di riciclaggio simbolico e mediologico (da Tognazzi a Jerry Calà alla Dellera), ma anche di convinta curiosità per le forme spontanee dell’esistente: si può parlare, con il cinema, ad un pubblico qualunque, del suo mondo, in un linguaggio alternativo a quello che quotidianamente lo governa.
Questo, in realtà, vale più per il Ferreri urbanista e sociologo dei film successivi che esplora periferie e interni domestici come un antropologo del futuro, ma ciò non toglie che anche in La Grande Abbuffata, la ricchezza della trasparenza di un'epoca e di un mondo, sia un segno fortissimo che contrasta con un andamento da apologo, da racconto mitico, da parabola di tutto il film.
Altrettanto appariscente e ingombrante, è l’impianto simbolico, ottuso, scintillante e schematico (il Giudice, il Giornalista, il Cuoco...), e il freudismo eretto a realtà sovrana: la riduzione del tutto alla soddisfazione dei bisogni primari (il sesso e il cibo). Ma a fronte di questo tutto, salta agli occhi (alla bocca), la scarsa evidenza ottica, plastica o cinematografica dell’ossessione culinaria e alimentare. La Grande Abbuffata, è questo il suo segreto, lavora non sull’immagine del cibo ma su una esplorazione mentale e psichica la cui forza non è data dalla forza della sua rappresentazione. Se si confrontano Il Pranzo di Babette o Il Cuoco, il Ladro, l’Amante e la Moglie con La Grande Abbuffata - si tratta in tutti e tre casi di film che gravitano interamente intorno alla rappresentazione, la ritualità, la densità fisica e simbolica del cibo - la prima differenza che si mette in luce è lo scarto tra l’aspetto iconografico e rituale, la stilizzazione dell’aspetto visivo e figurativo della preparazione, consumazione, allestimento del cibo, nei primi due, e gli stessi aspetti in Ferreri. In fondo, il più famoso film sull’ossessione del cibo, non si vergogna d’infilare nel menu tortellini panna e funghi e tacchino al forno (con buona pace di Fauchon citato nei titoli di testa), e di gestire l’intero apologo con quell’aria un pò improvvisata da happening o orgia incombente, che forse data il film più del trucco femminile demodè o dei calzoni leggermente svasati.
Da dove attinge la sua fede apocalittica, e cosa conferisce alla sua voce quella profondità inscrutabile? Se è un film sulla promiscuità di corpi e cibo, polenta e feci, orifizi e pietanze, è altrettanto persuasivo nell’ imporre allo spettatore, per contaminazione continua, la sintesi di passato millenario e aggressiva contemporaneità: tutto lo scenario del film è inchiodato sullo sfondo del silenzio secolare di un bosco in cui crescono le querce che videro riposare i poeti e che assistono da sempre ai versi delle oche, totalmente ignare della Storia (come del Consumismo o dell’Alienazione, che sono i due bersagli privilegiati del cinema d’autore dell’epoca). Questo mix di contemporaneità e medioevo, di gergo da sociologi di fama e basso continuo e millenario, sono più forti della sgradevolezza, della corrosività,dello humour nero, che all’epoca abbagliarono tutti.
Rimane ancora intatta la verosimiglianza della sua scansione, del suo respiro, quella meccanica di “riempimento e svuotamento”, quella sazietà catatonica “con lo stomaco traboccante e i genitali svuotati” (Moravia), quella purezza della sopravvivenza animale che si trasforma - è la vera trasgressione, sorprendente e lancinante - nella ineluttabile vocazione alla scelta consapevole della propria morte. Più che un “monumento all’edonismo” e alla “tragedia della carne” (così ne parlò Bunuel), oggi sembra invece il film della più ingrata lucidità: il cinema nato e sospinto dal bisogno della liberazione del mondo che si rovescia fulmineamente, con la stessa determinazione e urgenza, nel cinema che invoca una liberazione dal mondo (stessi anni, stessa propensione funebre, stesso scetticismo senza riscatto dell’ Ultimo Tango a Parigi che insieme alla Grande abbuffata costituisce l’apogeo e l’esplosione finale delle ansie e dei programmi del Nuovi Cinema nati negli anni ‘60). Non l’arguzia di un Rabelais apocalittico, dunque, ma la pena, la malinconia inconfessabile, la carità (qualità di cui il film è impregnato almeno quanto lo è dello sberleffo o della satira) di un gruppo di goliardi di fine millennio che praticano, l’un l’altro, il suicidio amorevole via esofago.
(Mario Sesti)
http://www.filmfilm.it/film.asp?idfilm=25891

Cuatro amigos unidos por el hedonismo y el tedio más absoluto se reúnen en una mansión con la idea de suicidarse comiendo sin tregua. Pronto añaden a la gula otro pecado capital; la lujuria, y así empiezan a llegar las prostitutas. El sexo obsceno se entremezcla con los cerdos, los quesos, los jamones, el caviar…y cuando todos están cebados, comienzan las deserciones.
Abucheada en el festival de Cannes, esta película de Ferreri obtuvo en cambio un enorme éxito de público. Comedia trágica y cruda, La gran comilona es una crítica feroz de la sociedad del bienestar y del consumo que termina por destruirse a sí misma.
Ugo es un mesonero, Michel un productor televisivo, Marcello un piloto, Philippe un magistrado. Los cuatro son amigos y han creado una especie de “club de gourmets”. Decididos a suicidarse comiendo, para liberarse de una vida que parece haber perdido todo propósito, se reúnen en la mansión de Philippe, en las afueras de París, donde antiguamente se alojó el poeta Boileau. Empiezan así unas comidas suculentas y copiosas. Marcello invita a unas prostitutas que sin embargo se marchan casi de inmediato, al constatar la apatía y la indiferencia de los invitados. Una maestra, que ha llegado para mostrar a sus alumnos el tilo de Boileau, recibe y acepta la invitación para unirse al grupo y presenciar el desarrollo de la historia. La tragedia se va consumando. Marcello, que por la noche se ha quedado dormido en el jardín en un Bugatti, muere de frío. Michel muere en el intento de liberarse de los gases intestinales. Ugo pierde la vida a causa de las contracciones de una digestión imposible. Philippe muere comiendo, entre los ladridos de los perros y los mozos de la carnicería que siguen trayendo comida.
El comentario de Hugo Tognazzi
“Quizá hay que decir, ante todo, que La gran comilona es la experiencia más “diferente”, más “fuera de libreto”, más fantástica que haya vivido jamás en el campo de la cinematografí­a, sea por la atmósfera que se llegó a crear durante el rodaje, sea por el tipo de pelí­cula (una de las más “singulares” que se hayan filmado nunca, en la cual la comida entraba en nuestras interpretaciones actorales así­ como nuestras interpretaciones estaban estrechamente ligadas a la comida, si no determinadas por ella). Llegamos a la vieja mansión, en el centro de Parí­s, algo aislada de los otros palacios, consciente de su importancia; una vieja casa, cuyo jardí­n abandonado era como un amarillento boa de plumas de avestruz, colocado alrededor de los muros para proteger sus arrugas de las miradas indiscretas, a fin de que pudieran envejecer y morir defendiendo una suerte de pudorosa “privacidad”. Notamos en seguida esa extraña atmósfera de descomposición, a la cual, por otra parte, estábamos preparados por haber leí­do el libreto. Nosotros mismos debí­amos morir, uno tras otro, entre esos muros. Durante los primeros tres dí­as de trabajo nos dimos cuenta de que el director Ferreri nos hací­a decir cosas completamente diferentes de las escritas en el libreto. Es mas, dejaba que nosotros mismos sugiriéramos, inventáramos las frases, escena por escena. Y esto ocurrió superando la barrera de presunciones que, normalmente, afligen a los actores. Se creó un clima perfecto, tal vez irrepetible, porque en lo sucesivo nunca ocurrió que un actor se sintiera defraudado si otro tení­a más frases que él. Se llegó a establecer una competencia de perfeccionismo y altruismo, de manera tal que, en determinado momento, cada uno cuidaba más del rendimiento de los colegas que del propio. Y así­, decidimos romper el libreto. Mientras Ferreri estaba en el jardí­n, preparando una escena, le cayeron sobre la cabeza las mil hojas del libreto, hechas pedacitos”.

Cuatro amigos, Marcello el piloto de línea; Ugo el restaurador; Michel el realizador de televisión; y Philippe el juez, que vive con su ama de llaves, se reúnen un fin de semana en la casa señorial de Michel para realizar un suicidio gastronómico colectivo, que consiste en comer sin parar diversas especialidades. Hugo se encarga de la elaboración de los platos mientras que Marcello hace venir a unas prostitutas. No obstante, asustadas por el cariz que van tomando los acontecimientos, éstas se huyen muy temprano por la mañana y queda sólo la profesora Andréa, fascinada por la empresa suicida de los protagonistas.
Vista en 2006
En su día, una película considerablemente polémica. Cuatro amigos se encierran en un caserón con el objeto de comer hasta morir. No se explica por qué, ni se extraen conclusiones. Lo que deja el campo abierto a lo simbolismos fáciles, que quizá sean los mayores enemigos de la película: el hartazgo de la Europa rica, la gran crisis ideológica de signo nihilista que siguió al mayo francés, el propio agotamiento de las filosofías libertarias aparejadas al fenómeno hippy Llama la atención que la única superviviente de este suicidio colectivo sea una mujer, una maestra que se unió accidentalmente al cuarteto, y que parece disfrutar sinceramente con los excesos programados por sus compañeros.

Los años transcurridos desde el estreno de esta película la han aligerado de todo ese peso simbólico. El nihilismo sigue siendo hoy día un poderoso agente, pero se ha vulgarizado hasta tales extremos que ya le hemos perdido el respeto. Morir de puro exceso no es ya un problema moral, sino sanitario. Lo que, paradójicamente, ha hecho que esta película aparentemente pesimista resulte hoy incluso divertida. Lo único que queda en pie de sus posibles mensajes es la constatación de nuestras limitaciones: el placer (sexual, gastronómico, intelectual) es un continente inabarcable. La lucha por la muerte tiene algo de competición: el primer perdedor (Mastroianni) es el más ansioso, el mujeriego empedernido, el impaciente; luego cae el enamorado (Piccoli, en el que adivinamos una pasión secreta por el primer caído); en tercer lugar, el artista (Tognazzi); finalmente, el prisionero de los convencionalismos (Noiret). Que la maestra, Andréa Férreol, sobreviva a todos no parece encerrar ningún mensaje feminista. Si acaso, un chiste privado de los guionistas, un guiño al espectador masculino (que no puede dejar de sentirse afectado por la sensualidad desbordante de esta hermosa mujer gorda) y una afirmación de que la felicidad presupone una buena dosis de estolidez animal conscientemente asumida.

Y para qué negarlo: esta película cargada de intelectualismo afecta nuestras pasiones más primarias. Nos excita. Y, sobre todo, nos abre el apetito.
Además de poner en marcha nuestra la pulsión escópica, el cine estimula la nostalgia, de ahí­ que cada tanto nos demos el gusto de volver a ver una antigualla. La grande bouffe es una alegorí­a que participa de ese breve momento de “terribilití ”
que se apoderó de los directores europeos “cultos” a mediados de los años 70 del pasado siglo, cuya culminación se encuentra en Salí² o le centoventi giornate di Sodoma (1975), pelí­cula con la que el malogrado Pasolini escandalizó a las buenas conciencias de la cultura llamada progresista casi tanto como con las circunstancias de su propia muerte. En Salí², entre escenas de coprofagia y sadismo, unos fascistas malí­simos y de lo más groseros encerraban en un castillo a un grupo de jóvenes de ambos sexos y se dedicaban a sodomizarlos sistemáticamente, una y otra vez, entre consignas nihilistas y saludos con el brazo en alto.
Aquello era también “muy” alegórico.
Lo mismo que la obra de otro director italiano “comprometido”, Elio Petri, filmaba en 1970: Investigación sobre un ciudadano libre de toda sospecha, pelí­cula en la que un jefe de la policí­a polí­tica (Gian-Maria Volonté) se daba a un sofisticado acto de narcisismo: asesinaba a su amante (Florinda Bolkan) y dejaba deliberadamente toda clase de indicios para autoinculparse del crimen. Sospechaba -con alguna razón- que el sistema represivo del cual era él una pieza fundamental y decisiva, no era capaz de echarle el guante si él mismo era el criminal. Moraleja incontrovertible: la justicia sólo persigue a unos mientras que otros siempre quedan impunes, sobre todo si son los encargados de impartirla.
La alegoría es la figura preferida de la crítica social, prima hermana de la propaganda y de la publicidad, y fórmula preferida de la iconografía del barroco, figura que se hace más ceñida y discreta -y tanto más insoportable- cuando tiene connotaciones ideológicas o cuanto más torpe o más dogmático es quien la concibe y la diseña.
Pues nada, si se vuelve sobre La grande bouffe se comprueba que es una pelí­cula italiana alegórica en la que se propone una mirada “descarnada” sobre la burguesí­a. La protagonizan actores franceses e italianos, pero el guión es de un español, Rafael Azcona. Sin embargo, su marca inconfundible, su modelo y hasta su forma caracterí­stica es de Luis Buñuel, que no figura en los créditos, pero que sin lugar a dudas es el inspirador del escenario goyesco así­ como de la trama escueta, casi inexistente, del filme: cuatro individuos masculinos de mediana edad y buena posición, un piloto de aviones (Marcello Mastroianni) un director de publicidad (Michel Piccoli) un chef (Ugo Tognazzi) y un juez (Philippe Noiret) se reúnen en una casona y encargan en las mejores proveedurí­as de Parí­s una cantidad incalculable de comida. Enseguida entiende el espectador que la intención de estos amigos no es tanto gastronómica como perversa: se proponen zamparse todo aquello, pero lo que en verdad quieren es comer hasta reventar.
Al cabo de unos dí­as de comilona ininterrumpida y tras contratar a unas prostitutas para unirse a la juerga, entran en contacto con una maestra del pueblo llegada al jardí­n de la casona a jugar con sus niños, y la invitan a cenar. Sin pensárselo dos veces, la maestra (Andréa Ferréol, una actriz gordita y sensual) se apunta al festí­n con los cincuentones y las putas, y se queda en la casa. Poco a poco, con el correr de los dí­as, las respectivas dispepsias de los cuatro amigos van convirtiéndose en empachos, y los empachos en retortijones; empiezan los meteorismos, una incontenible flatulencia y los vómitos, lo que no disuade a los protagonistas que siguen con las comilonas, de modo que al final llega el colapso. Las prostitutas, asqueadas por las costumbres un tanto exageradas y extravagantes de este puñado de descerebrados (y además porque -cómo si no, tratándose de un guionista español de mediados de los años 70- son lesbianas), abandonan la escena y sólo la maestra gordita, convertida en alegorí­a de la muerte, los acompaña hasta el final. Mueren uno tras otro, entre los sones de una melodí­a de cabaret, acompañados por la maestra jardinera que no sólo se suma de buena gana a la comilona, sino que copula con cada uno de ellos y los ayuda a morir. La trama -quizá porque ya es suficientemente alusiva- no introduce ninguna razón y, como no hay nudo, tampoco hay desenlace. No hace falta explicar nada porque no pasa nada que no deba ser “autoevidente” para el espectador. Así­ pues, de esas muertes inopinadas uno atina a pensar que ejemplifican una especie de suicidio de la burguesí­a, pensada como una clase “decadente” que sólo existe para suicidarse y, naturalmente, atragantándose con sus propias comilonas. Se presupone que guionista y espectador comparten la idea de que el destino de clase de los burgueses es colapsar o reventar como ví­ctimas irredimibles de su propia gula.
Por supuesto que esto es lo primero que el tiempo desmiente. Y aunque el absurdo de base es buñuelesco -efectivamente, en El discreto encanto de la burguesía (1972, Luis Buñuel)- hace enlazar los episodios de su relato haciendo que sus personajes se reencuentren, tras cada situación dramática, en sucesivos encuentros gastronómicos; y en otra pelí­cula del célebre aragonés, El ángel exterminador (1962), se alude al progresivo enclaustramiento de los burgueses como una pauta de clase- la fórmula literal de Azcona/Ferreri más que a Buñuel se parece a un típico buñuelo: un bollo que parece exquisito pero que en el fondo es una ordinariez. Sin embargo, no recuerdo que en su momento nadie advirtiese la patraña”, acompañado por comentarios tales como “una crítica despiadada a nuestras sociedades ahítas y opulentas”. Al cabo de treinta años la pelí­cula deja ver su torpe modelo crítico y su candidez, porque mientras tanto la burguesía sigue allí­, con el añadido de que ahora cuida el colesterol, come alimentos balanceados y algas japonesas, y hace deporte. Es que la burguesía no tiene nada que ver con la “gourmandise” de unos cincuentones acomodados; y sus costumbres son bastante más complejas que el comer a saco, una hipérbole un tanto trivial salida de la mente de un típico guionista hispánico que da demasiado valor a la comida, pero sobre todo a la cantidad.
El tiempo destroza todas las alegorías. Sin embargo las películas de Buñuel todavía resisten los años y en cambio esta película, juzgada en su momento como radical e implacable crítica de la costumbres “tardocapitalistas”, se ve ahora como una parodia escatológica salida del cine “gore”.
¿Por qué razón una obra queda atrapada en el contexto que le dio sentido o razón y en cambio otras son eternas, y parece como si atravesaran las barreras de las lenguas, los tópicos y las modas y los prejuicios del momento? ¿Por qué razón se soporta el Napoleón de Abel Gance y en cambio Godard se nos revela como un pelmazo cantamañanas más grande que una catedral? Uno tiende a pensar de manera idealista que es la inasible relación entre la forma y el contenido, y recurre a las teorí­as sobre la espiritualidad del arte, el canon y la Forma, pero seguramente la explicación es otra. Una obra, hasta la más mala e insignificante, deja siempre una huella en la tradición. Y esa huella enlaza con otras para constituir itinerarios que sirven para reconstruir nuestra memoria o para orientarnos en el bosque de signos en busca del sentido. Pero el tiempo fatalmente borra las huellas y los rastros se interrumpen o se confunden. Así­ pues las alegorí­as envejecen y las metáforas se vací­an hasta convertirse en pasos perdidos, “cul-de-sac”, ví­as muertas. De modo que cuando, en un acto de nostalgia, de memoria o de investigación, volvemos a ellas gracias a que la cultura es un archivo, ya no encontramos ningún sentido en sus programas no porque sean absurdas o inescrupulosas o inconsistentes sino porque nos hemos “hecho” de otros significados. No han cambiado las coordenadas de la obra, hemos cambiado nosotros, y muchas veces de acuerdo con esa obra (o contra ella).
El hombre es un ser genérico, decía Marx, un ser que tiene la cualidad de construirse a sí­ mismo como individuo y como especie. Parece veleidoso y superficial pero sus veleidades no son cambios de gusto o de patrones estéticos. Cuando cambia, lo que cambia es su historia.
http://www.claqueta.es/1973-1975/la-gran-comilona-la-grande-bouffe.html

7 comentarios:

  1. ¡Genial! La conocía como La grande bouffe, en francès. Ya tardaba en salir en este magnífico blog. Gran trabajo.

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  2. Muy buena la copia. Solo un problemita en el segundo disco: el sonido esta codificado extrañamente, solo conseguí leerlo con VLC pero imposible comprimirla en un DVD. El primer disco está perfecto.

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  3. Amarcord, estan fuera de linea los subtotulos de los dos cd. Por favor, cuando puedas resubilos o alguien que la haya bajado y vea esto si pueden resuban. Gracias Amarcord, disculpa la molestia.

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    1. Elías
      Cambiados los enlaces.
      Un abrazo.

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    2. Amarcord: No funcionan los enlaces de los subtitulos, el resto de enlaces van muy bien, tiene arreglo?. Gracias

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  4. Cambiados los enlaces de los subtítulos.

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