TITULO ORIGINAL La condanna
AÑO 1990
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Italiano (Separados)
DURACION 92 min.
DIRECCION Marco Bellocchio
GUION Marco Bellocchio & Massimo Fagioli
MUSICA Carlo Crivelli
FOTOGRAFIA Giuseppe Lanci
REPARTO Vittorio Mezzogiorno, Claire Nebout, Grazyna Szapolowska, Claudio Emeri, Paolo Graziosi
PREMIOS
1991: Festival de Berlín: Oso de Plata - Premio Especial del Jurado
1990: Premios David di Donatello: Nominada Mejor fotografía
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia-Suiza
GENERO Drama
AÑO 1990
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Italiano (Separados)
DURACION 92 min.
DIRECCION Marco Bellocchio
GUION Marco Bellocchio & Massimo Fagioli
MUSICA Carlo Crivelli
FOTOGRAFIA Giuseppe Lanci
REPARTO Vittorio Mezzogiorno, Claire Nebout, Grazyna Szapolowska, Claudio Emeri, Paolo Graziosi
PREMIOS
1991: Festival de Berlín: Oso de Plata - Premio Especial del Jurado
1990: Premios David di Donatello: Nominada Mejor fotografía
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia-Suiza
GENERO Drama
SINOPSIS Lorenzo Colaianni (Vittorio Mezzogiorno) es un arquitecto que se queda encerrado en un museo con una chica, hacen el amor y ella lo denuncia cuando descubre que él tenía las llaves del museo. (FILMAFFINITY)
Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
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Subtítulos (Italiano)
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Sandra, dopo la visita ad un Museo, rimane chiusa nell’edificio e qui a sera, fra statue e quadri, l’architetto Colaianni le capita alle spalle, le fa da guida e poi la violenta. E una notte di passione e all’alba l’uomo propone a colei che ha sedotta di uscire. Infatti, con grande sorpresa di lei, egli ha le chiavi. L’incredibile dichiarazione è percepita come un meschino inganno e subito la ragazza presenta una denuncia per violenza carnale. Al processo, Colaianni respinge l’accusa: a suo dire, l’orgasmo provocato in Sandra, raggiunto in una fase di pressoché totale incoscienza, dona al rapporto sessuale tutta la bellezza desiderabile. Durante la propria deposizione, la ragazza ammette che consensualmente cedette allo sconosciuto che ebbe ampiamente a soddisfarla. Il Pubblico Ministero Malatesta, ottenuta la condanna del violentatore a due anni (pochi, come presto gli rimprovera il suo superiore), entra però in crisi familiare. È un uomo ancora giovane e sessualmente turbato perchè la moglie Monica lo tormenta, accusandolo di non saperla portare all’orgasmo che il condannato ha assicurato alla ragazza del Museo. Sandra durante un ricevimento, inopinatamente, scaraventa in faccia a Malatesta una torta alla panna in segno di disprezzo. Malatesta, la cui normalità e il cui equilibrio di vita sono ora turbati da una serie di "perchè", consulta l’uomo che ha mandato in galera, ma non ne ottiene che risposte per lui incomprensibili e inaccettabili. Provocato un giorno su un campo di mietitori da una procace contadina il Magistrato si ritrova davanti a lei irresoluto ed inerte: non accetta il gioco invitante e quel desiderio, che per lui consisterebbe solo in violenza da parte propria. Monica, che ha lasciato il marito, torna poi con lui, ma alla pochezza di un rapporto già pigro e non esaltante, si aggiunge ora anche il disprezzo. Irriso e sconfitto dalle tre donne, la vera condanna colpisce Malatesta, che circostanze di vita hanno travolto in una penosa ricerca sul piano fisico ed umano.
L’ultimo film del regista piacentino non si occupa di violenza sessuale, lo stupro non è il nocciolo della questione. Qualcuno ha frainteso: La Repubblica del 22.2.91 titolava Viva la violenza? Bellocchio e il nuovo superuomo, manifestando perfino un fraintendimento del pensiero di Nietzsche. Paradossalmente, è più facile indicare che cosa la pellicola non sia: esprime dubbi, inquietudini, ambiguità, sottigliezze che fatalmente generano incomprensioni. Meno arduo evidenziare indubbie qualità tecniche, in particolare il direttore della fotografia Beppe Lanci e il montatore Mirco Garrone si rivelano bravissimi.
Il film è la storia, vagamente ispirata dalla cronaca, di un architetto (Vittorio Mezzogiorno) e di una ragazza (Claire Nebout) che, volutamente o per caso (qui il film è intenzionalmente oscuro), si ritrovano rinchiusi nello splendido palazzo Farnese di Caprarola e trascorrono un’intensa notte di passione nel maestoso castello tra quadri di Leonardo e immagini goyesche. Magistrale il piano-sequenza dell’avvicinamento dei due amanti, le incalzanti pressioni del "violentatore", l’inevitabile, necessario epilogo.
Quando, dopo l’amore, Lorenzo confessa di possedere le chiavi del castello, Sandra lo denuncia per stupro e l’architetto subirà una "condanna", trascorrerà due anni in carcere. Lo sguardo dello spettatore si trasferisce dagli ambienti rinascimentali del museo ai primi piani di giudici e magistrati in un’aula di tribunale. Il pubblico ministero (l’attore polacco Andrzej Seweryn) coprotagonista e alter ego dell’accusato, è un personaggio complesso, contraddittorio: raffigura molti individui, almeno quelli che tentano di capirsi e di capire. Non demonizza l’imputato pur non giustificandone il comportamento; la vicenda processuale lo costringe a una tormentata autoanalisi; privato e pubblico si sovrappongono, lottano nella psiche del giudice. La moglie (l’attrice polacca Grazzyna Szapolowski, deliziosa interprete di Non desiderare la donna d’altri di Kieslowski) gli dice: "Tu mi violenti ogni volta che mi deludi". Il giudice comprende quanto sia difficile stabilire limiti alla volontà in amore, quanto la passione sia felicemente incontrollabile. Il fatto che la stessa "violentata", durante una festa (memorabili le ripetute, sempre più accelerate inquadrature della sequenza del1 ballo), lo colpisca con la classica torta in faccia, sembra confermare tale tesi. Anche la vittima svela la sua duplicità, le sue incongruenze: prima denuncia poi flagella il giudice che ha colpevolizzato l’oggetto del suo desiderio; a sua volta "condanna" l’uomo che ha fatto dichiarare illegale l’autentico piacere di quel rapporto. L’ignobile equivoco per cui se una donna è "puttana" non c’è violenza da parte dell’uomo, non è l’oggetto del film.
Tale problema è triste occupazione di avvocati abietti, giudici corrotti, violenti e femministe arrabbiate. Bellocchio e Fagioli hanno altri interessi, pongono e si pongono interrogativi profondi, non aspirano a soluzioni, non indicano rimedi, soprattutto non vogliono individuare colpevoli. Rappresentano, questa volta senza le involuzioni formali e i cerebralismi di La visione del Sabba, i labilissimi margini tra conscio e inconscio, l’irrisolta dialettica piacere-realtà, il conflitto tra impulsi e convenzioni, il contrasto tra passioni e norme. Senza dubbio, non ipocrita, Bellocchio mette sullo stesso piano le smagliature di entrambi i sessi, rileva sia le sciagure di secoli sessuofobici che le incoerenze di superficiali emancipazioni.
Oltre a ciò i due protagonisti – questo è il pregio del film – hanno pari spessore, uguale efficacia rappresentativa, incarnano posizioni opposte, ma dialetticamente valide. Opportunamente assente il punto di vista morale, La condanna non è un film manicheo, ma bensì un tentativo di comprensione, una riuscita autoanalisi. Tranne la pleonastica sequenza del campo di grano, nel quale si assiste a un tentativo di stupro da parte di un gruppo di extracomunitari ai danni di una improbabile contadina (per lo psicanalista-neosceneggiatore Massimo Fagioli "l’inconscio che non parla ma vive"), La condanna è cinema nobile, più ingegnoso del peraltro giustamente premiato La casa del sorriso di Marco Ferreri.
"L’infelicità è legata a non avere il coraggio del proprio desiderio"; "Tutto in nome della bellezza incosciente, dell’orgasmo": le frasi, rispettivamente rivolte dall’architetto alla ragazza e al giudice, sono difficilmente confutabili. E ancora "Ciò che è fuori dalla norma si paga sempre"; "Le donne costrette ad essere sé stesse poi stanno bene". Sono battute che fungono da stimolo intellettuale; il loro energico punto di vista promuove nello spettatore reazioni indignate o concordi ma vitali, intense. Si tratta di affermazioni provocatorie, ma meritevoli in quanto alimentano quesiti, si augurano autentiche verifiche.
Gli attori, tutti eccellenti, soprattutto l’accusatore, perfetto nel manifestare il suo travaglio, devono molto al regista. Bellocchio è in primo luogo un maestro nella direzione degli attori. Dalle ribellioni di I pugni in tasca e di In nome del padre al più recente e delicato Il diavolo in corpo, la sua filmografia conferma queste doti. Per di più negli ultimi anni la pratica psicoanalitica gli consente di scavare nella psicologia degli attori, base di interpretazioni convincenti.
La realtà è doppia, se non multipla, i tentativi di eccessiva comprensione conducono verso forme di involontaria comicità; le posizioni troppo nette mascherano problemi personali irrisolti, traumi non superati, paure non vinte. Inoltre non è sensato protestare per le presunte violenze del film e subire passivamente la cialtroneria, l’insolente cinismo, la vincente ipocrisia degli innumerevoli e autenticamente pornografici ritratti femminili che i serials televisivi senza pudore propongono. Agli autori di La condanna il merito, nonostante la delicatezza dell’argomento e gli annunciati abbagli frutto di affermati pregiudizi, di aver delineato, con inattuale leggiadria, le svariate aporie che il tema implica.
Massimo Reale, Cinema Sessanta n. 2/3, marzo-giugno 1991
http://www.municipio.re.it/manifestazioni/ufficio_cinema/archivio_schede/schede_tutte/Bellocchio/Condanna.htm
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