ESPACIO DE HOMENAJE Y DIFUSION DEL CINE ITALIANO DE TODOS LOS TIEMPOS



Si alguién piensa o cree que algún material vulnera los derechos de autor y es el propietario o el gestor de esos derechos, póngase en contacto a través del correo electrónico y procederé a su retiro.




martes, 15 de febrero de 2022

La casa del tappeto giallo - Carlo Lizzani (1983)

TÍTULO ORIGINAL
La casa del tappeto giallo
AÑO
1983
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Francés (Separados)
DURACIÓN
84 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Carlo Lizzani
GUIÓN
Filiberto Bandini, Lucio Battistrada, Aldo Selleri
MÚSICA
Stelvio Cipriani
FOTOGRAFÍA
Giuliano Giustini
REPARTO
Erland Josephson, Béatrice Romand, Vittorio Mezzogiorno, Milena Vukotic
PRODUCTORA
R.P.A. Cinematografica, Radiotelevisione Italiana (RAI)
GÉNERO
Thriller. Intriga. Terror | Giallo

Sinopsis
Franca y Antonio, una joven pareja que vive en una moderna urbanización, reciben un día la visita de un misterioso hombre que está muy interesado en comprar una alfombra amarilla que hay en la casa. Una vez realizada la venta, la vida de la pareja se convertirá en una auténtica pesadilla.
 
1 
2 

Carlo Lizzani, uomo di cinema a tutto tondo capace di passare dalla critica storica di una materia alla sua realizzazione, ci manca ormai dal 2013. Restano le sue opere, una fondamentale Storia del cinema italiano, i primi film di taglio neorealista, i documentari, gli sceneggiati televisivi ispirati a capolavori letterari (Fontamara, Un’isola), molti lungometraggi importanti. Il suo primo lavoro nel cinema è Il sole sorge ancora (1946), da interprete (don Camillo, il prete fucilato) e sceneggiatore; subito dopo, la collaborazione con Rossellini per Germania anno zero e il debutto da documentarista (Nel mezzogiorno qualcosa è cambiato, Modena, Togliatti è tornato). Sceneggiatore prolifico, autore di Riso amaro, Il mulino del Po, Caccia tragica, Non c’è pace tra gli ulivi, debutta da regista con il neorealista Achtung! Banditi!, per rievocare la resistenza. Regista impegnato politicamente, si dedica a un cinema di denuncia dei mali della società contemporanea (delinquenza, banditismo, prostituzione, terrorismo, violenza giovanile) senza tralasciare l’aspetto spettacolare. Tra i suoi film memorabili: Banditi a Milano (1968), Roma bene (1971), Torino nera (1972), Mussolini ultimo atto (1973), San Babila ore 20: un delitto inutile (1975), L’addio a Enrico Berlinguer (1984), Celluloide (1996).

La casa del tappeto giallo (1982) potrebbe sembrare un film minore nel contesto di una produzione socialmente impegnata: a prima vista si tratta di un giallo quasi completamente girato all’interno di un appartamento, ispirato a una pièce teatrale di Aldo Selleri (Teatro a domicilio). Paolo Mereghetti non lo reputa degno di alcuna considerazione, lo tratta con disprezzo intellettuale definendolo soltanto un giallo. Molto meglio Morando Morandini, che mette in evidenza una confezione perfetta sia da un punto di vista scenografico che di scrittura.

In breve la trama, complessa e ricca di colpi di scena. Franca (Romand) è tormentata da incubi notturni nei quali rivive il rapporto intimo con il patrigno; il marito Antonio (Mezzogiorno) si è reso conto di tutto da tempo, spia i sogni della moglie e per gelosia medita persino di ucciderla. La coppia mette un’inserzione sul giornale per vendere un ingombrante tappeto giallo, regalo del patrigno ed elemento importante di certi sogni erotici. Un sabato mattina il marito deve uscire per un contrattempo; alla porta si presenta uno strano professore (Josephson) che – dopo aver convinto Franca che vuol comprare il tappeto – mette in scena un inquietante teatro per farle rivivere le sue fantasie erotiche. La donna, in uno scatto d’ira, giunge a uccidere l’uomo con un coltello lasciato incustodito; subito dopo si presenta la moglie dello strano personaggio (Vukotic), che definisce il marito un mitomane, un ex attore decaduto e malato che vaga di casa in casa improvvisando ruoli che nessuno più gli assegna. Niente è come sembra, l’uomo è ancora vivo, intriso di sangue si alza e si avvicina a Franca, che sviene per il terrore. La scena cambia. Vediamo il marito rientrare a casa e cercare di convincere la moglie che si è trattato di un incubo, niente è accaduto di quel che sta immaginando, si tratta solo di fantasie. Un ulteriore colpo di scena fa capire come sia stato Antonio a organizzare tutto, chiedendo aiuto a due psichiatri sperimentali per far rivivere gli incubi alla moglie e liberarla da un’insana passione. Non è ancora finita: lo strano personaggio è davvero un ex attore uxoricida, e la compagna psichiatra ne ha ottenuto la tutela dopo un periodo passato in manicomio criminale. Il piano è stato architettato con una variabile finale, una pillola, consegnata ad Antonio in caso di necessità, da usare soltanto se la moglie avrà nuove crisi, come ultimo atto della commedia. La pillola, in realtà, è un potente veleno che una volta assunto non lascia tracce, solo che a prenderla non sarà la donna, ma il marito, rincuorato dal fatto che gli incubi erotici sul patrigno sono terminati.

Commedia teatrale e psicologica, claustrofobica, sceneggiata alla perfezione, un colpo di scena dopo l’altro: a tratti sembra di assistere a una pièce di Ionesco o di Beckett, ma siamo pur sempre nella struttura di un giallo. Una spruzzata di Antonioni sull’incomunicabilità del mondo maschile e femminile, soprattutto l’utilizzo del genere, come abitudine di Lizzani, per fare spettacolo e al tempo stesso dire altro.

Regia perfetta, uso del piano sequenza nelle scene iniziali e finali, molte soggettive, primi piani, inquadrature originali e insolite, soprattutto nel convulso finale. Musica intensa di Stelvio Cipriani, da cinema thriller, per contribuire al crescendo enigmatico di tensione. Fotografia cupa di una Roma periferica che si intravede con i suoi condomini popolari nelle prime sequenze e alla fine del film, come in un romanzo circolare, proustiano.

Tutto si svolge all’interno di un appartamento, dove il protagonista sembra proprio un ingombrante tappeto giallo con tutti i segreti erotici che contiene. La trama è messa in scena da quattro ottimi attori. Erland Josephson (doppiato da Renato Mori) è un grande interprete svedese che ha lavorato con Bergman e Tarkovskij, perfetto con il suo sguardo allucinato come inquietante professore, finto psichiatra ed ex attore uxoricida. Milena Vukotic è teatrale al punto giusto, prima nel ruolo di moglie, poi come compita psichiatra, infine perversa complice di un folle individuo. Vittorio Mezzogiorno, scomparso a soli 52 anni, è diligente nei panni di un marito geloso e innamorato. La franco-algerina Béatrice Romand (doppiata da Anna Rita Pasanisi) è la più giovane ma non la meno brava e, anche se non ha lavorato molto nel cinema, si ricorda per alcune opere di Éric Rohmer (Racconto d’autunno -1998 – è il suo ultimo film).

Un giallo psicologico, cinema da camera, se mi si passa il termine, dove la messa in scena è l’elemento fondamentale, così come il rapporto tra realtà e finzione. Lizzani mette sul piatto di un thriller ben confezionato la complessità delle relazioni interpersonali, la vita quotidiana di una coppia che abita in un condominio periferico romano, il senso pirandelliano della vita come commedia di maschere, il sogno e l’apparenza che danno il cambio alla concretezza della vita.

Un film da rivalutare, da rivedere senza pregiudizi intellettuali, sgombrando il campo dalla ben nota idiosincrasia dei nostri critici più conformisti nei confronti del cinema di genere.

Gordiano Lupi
 

Sulla falsariga di quanto si vedrà (con risultati decisamente più convincenti) nell’altro semi-sconosciuto La morte avrà i suoi occhi, “La casa del tappeto giallo” (produzione R.P.A. Cinematografica, RAI e SACIS dei primi anni ottanta) indaga psicologicamente sul vissuto dei personaggi, in particolare della protagonista Franca, ossessionata dalla figura del patrigno ed in crisi coniugale col marito. Una terza figura si frappone all’improvviso tra i due, esasperando le difficoltà della donna…

In breve. Singolare thriller italiano a basso costo, anche di discreta qualità e davvero interessante per certe trovate: non è abbastanza valorizzato dalle interpretazioni e da un’ambientazione troppo poveristica, per cui rischia di annoiare l’appassionato di cinema mainstream, e di confinarsi come oggetto di culto per pochi eletti.

Tratto da un dramma teatrale di Carlo Selleri (“Teatro a domicilio“), bisogna premettere che ne eredita parte dell’impostazione scenica dato che, al posto di un palcoscenico, è ambientato in un singolo appartamento. Un singolo locale fatto di stanze separate piuttosto rigidamente tra loro, quasi ad evocare l’impianto scenico che potremmo vedere in un dramma, dal vivo, dalla diretta voce dei protagonisti. Questo aiuta fin da subito a costruire un’atmosfera fortemente claustrofobica, che si ispira chiaramente ai fasti del giallo all’italiana (La Dama Rossa uccide sette volte, Giornata nera per l’ariete, Quattro mosche di velluto grigio), con cui “La casa del tappeto giallo” eredita vari punti: i personaggi ambivalenti, gli omicidi efferati, i colpi di scena continui, il doppio finale. Probabilmente, pero’, il genere era già in declino in quegli anni, e forse anche per questo il risultato si fa apprezzare solo fino ad un certo punto: il film di Lizzani riesce a sorprendere soltanto in parte, e probabilmente il suo sottotesto (che è di natura finemente psicologica) si fa apprezzare solo dal pubblico più esigente.

Un po’ poco per chi divora film di genere ogni giorno senza badare a certi sottosignificati, che magari andrebbero relegati più a documentari di psichiatria che a thriller: idea originale, comunque, a cui va dato atto di aver posto, forse involontariamente, per la prima volta certe idee su uno schermo. E se le spiegazioni labirintiche riescono a piacere e devono, anzi, far parte di questo tipo narrazione, in queste circostanze sembrano vagamente artificiose e fin troppo elaborate, specialmente negli ultimi dieci minuti in cui vi è una vera e propria “gara” al finale a sorpresa (le rivelazioni che ho contato sono almeno quattro, e forse già la terza rischia di stancare). Curioso, poi, il fatto che il film conti solo quattro personaggi attivi (più una comparsata), uscendone comunque in maniera dignitosa.

Ad ogni modo, se la prima parte del film si carica di presupposti accattivanti, con lo sconosciuto che entra in casa ed inizia ad esercitare la propria pressione psicologica sulla protagonista – ed è qui che evoca tremendamente, secondo me, il duello “mentale” visto ne La morte avrà i suoi occhi, molto simile nei presupposti a questo, per quanto “La casa del tappeto giallo” sia uscito cinque anni prima! – realizzando un buon film che, per carità, non sarà il Funny Games italiano – sarebbe troppo pensarlo – ma è comunque accattivante, fuori dal coro e tarato al punto giusto anche oggi. Il tutto, pur riconoscendone pacificamente i limiti di budget e di recitazione, cosa non da poco in un lavoro di questo tipo, ma tant’è.

https://lipercubo.it/la-casa-del-tappeto-giallo-c-lizzani-1983.html


Memorial Carlo Lizzani

Carlo Lizzani, per un cinefilo che abbia un approccio nocturniano alle cose, era, è, un personaggio complicato da abbordare, che spaventa: da una parte, la sua storia affonda profondamente le radici dentro il terreno del neorealismo – è lo sceneggiatore, pur sempre, di Riso amaro – con tutto quello che di accademico e anche di un po’ iniziatico, questo comporta. Poi, Lizzani era un uomo di sinistra, dichiaratamente di sinistra, e ho sempre avuto l’impressione – forse un po’ bambinesca – che registi di questo tipo, engagé, ossia impegnati, fossero della stessa pasta di quelle cose che si studiavano per gli esami all’Università – parlo dell’Università di trent’anni fa, quella seria. Insomma, il concetto potrebbe essere “un autore mattone”, ideologizzato, che se lo affronti ti tocca affrontare anche tutto ciò che di pachidermico e di mastodontico, come storia, anzi come Storia, si porta dietro.

Sto parlando, attenzione, del Lizzani in astratto, quello che si annusava nell’aria, dell’istituzione Lizzani. Poi, però, c’era il Lizzani, come dire?… de facto, pragmatico, che faceva i film che vedevamo, quindi non l’idea platonica ma la sua incarnazione. E i film erano grandiosi, poderosi, non avevano nulla di intellettualistico o di noioso. Lizzani non era Maselli o roba di quel tipo. Certo, per noi nocturniani, magari non Il processo di Verona ma Svegliati e uccidi!, la biografia di Lutring; non Lo svitato o L’oro di Roma, ma Banditi a Milano o Roma bene. Quindi, il secondo Lizzani più del primo: praticamente la sua opera omnia degli anni Settanta e gran parte di quella degli anni Ottanta; per alcuni fino al film sul caso Dozier del 1993 ma secondo me anche più in su, spingendosi fino al 1998, anno di un ottimo film televisivo giallo con Antonella Fattori, di cui oggi in pochi hanno memoria, purtroppo: La donna del treno.

Dal neorealismo si era portato evidentemente dietro il gusto di raccontare i fatti della vita, non quale scabra cronaca ma riuscendo a dargli dignità di racconto senza tuttavia snaturarne la forza di verità. Un equilibrio difficile da raggiungere ma che Lizzani sapeva compiere, coniugando il dato nudo e crudo, la registrazione, con l’elaborazione fantastica che lo fa diventare Cinema. Le storie nere lo attraevano e aveva una predisposizione naturale a saperle narrare: nel 1960 girò Il gobbo, sulle vicende del celebre Gobbo del Quarticciolo, interpretato da uno splendido Gérard Blain, il personaggio che, al netto di tutte le idiozie che si sono dette e scritte, fu il punto di partenza del successivo Gobbo di Tomas Milian.

Pier Paolo Pasolini faceva un ruolo, era Leandro detto er monco. E a parte nei propri film, Pasolini non accettò mai di fare l’attore per nessuno tranne che per  Lizzani, qui e nel successivo western Requiescant. Il che vuole certamente dire qualcosa. Lizzani continuò lungo la medesima linea nera con due cronache criminali di prim’ordine come Svegliati e uccidi!, la biografia di Luciano Lutring, “il solista del mitra”, e Banditi a Milano, ricostruzione ad armi ancora fumanti e sangue ancora caldo delle gesta delinquenziali della banda Cavallero. A parte deprecare l’assurdità per cui film del genere non sono disponibili su nessun supporto e da considerarsi, quindi, “rari”, sia il primo sia il secondo, ma più il secondo del primo sono il manifesto del Lizzani migliore e rappresentano l’atto fondativo del dramma d’azione interfacciato con la contemporaneità in Italia. In Banditi a Milano c’è praticamente già tutto: tutte le Roma violente e a mano armata a venire. Gli altri hanno rifinito, Lizzani ha creato.

Il bello del film, al netto di Volonté e della sua strabordante caratterizzazione di Cavallero (un delinquente sanguinario con personalità istrionica), che poteva rischiare di oscurare tutto il resto, è che mantiene sugli eventi una visione distanziata e non paternalistica, non ideologica (è un regista di buon senso, da non confondere con i buonsensai) e inserisce cose che altri con la medesima estrazione politica di Lizzani avrebbero giudicato sconvenienti o corrive. Mi torna sempre in mente la telefonata in Questura della ninfomane interpretata da Carla Gravina: non ho idea se si tratti di pura finzione o se si siano documentati e una telefonata del genere fosse storica, fatto sta che è un bell’intervallino morboso, forse inutile, in stile Cronaca vera, ma Lizzani ce lo mette e ci sta bene, perché ci racconta anche questo un pezzetto della società in cui Cavallero tracciò il suo cammino di sangue. In questo scarto, anche in questo scarto, ossia nel non rifiutare a priori il “basso” sta la grandezza di Lizzani, che più avanti, nel cuore degli anni Settanta, non si vergognerà di firmare film crudi e scorretti come Storie di vita e malavita o come San Babila ore 20 un delitto inutile. I critici tipo manico-di-scopa-su-per-il-culo, non gradivano, perché trattare di prostituzione minorile con quei toni esacerbati e seminando nudi ovunque, rappresentava una deminutio capitis. Il pubblico la pensava diversamente, però, e anche Lizzani, che giunse a realizzare nel 1977 lo stranissimo Kleinhoff hotel, dove si faceva intendere che Corinne Cléry e Michele Placido, sul set e sotto l’occhio della mdp, lo avessero fatto per davvero. Anche se poi Lizzani, con una battuta, sosteneva di non averlo diretto lui, quel film, ma che lo aveva girato un collega.

Uomo alto ed elegante come quasi tutti gli uomini alti, che raramente sono intelligenti – secondo quanto recita l’antico proverbio – ma quando lo sono, sono intelligentissimi, Lizzani aveva in sé quel quid di malvagità che fa la differenza tra un buon regista e qualcosa più di un buon regista. La terza parte di un ideale trittico sulle personalità criminali, dopo Svegliati e uccidi! e Banditi a Milano, rappresentata da Barbagia (La società del malessere) è una di quelle anse segrete della filmografia lizzaniana, penalizzata, come già detto, da ampie zone di odierna invisibilità (ora però qualche anima pia ha caricato il film su Youtube). Lizzani vi ricostruiva la storia di Graziano Mesina facendolo interpetare a Terence Hill, con sprezzo del pericolo e del ridicolo e con risultati, tuttavia, non indegni; perché vi è questo da dire del regista, che non è mai stato al di sotto dei propri standard anche nei film che consideriamo minori solo perché meno noti degli altri. Penso a Roma bene, che trova parecchi giusti estimatori, nonostante la sua circolazione sia stata affidata sostanzialmente a dei circuiti carbonari di collezionisti. Un discorso sulla cattiveria di Lizzani dovrebbe passare attraverso l’analisi di questa storia, sceneggiata da Luciano Vincenzoni e Nicola Badalucco, che con gli occhi di Manfredi, un commissario di polizia, e del suo assistente Enzo Cannavale, spolpa l’alta società capitolina fatta di marchettari, mignotte, assassini e truffatori. Un’umanità sommersa che nell’allucinante parte finale viene anche fisicamente sommersa e affogata in una celebre sequenza dove tutti gli occupanti di uno yacht si gettano in acqua dimenticandosi, ahiloro, di calare anche la scaletta per tornare a bordo. Benché l’esercizio di crudeltà meglio riuscito sia quello su cui culmina Storie di vita e malavita negli ultimi, allucinanti, metri di pellicola. Non dico che cosa accade: andatevelo a vedere.

Lizzani era un grande direttore di attori e non soltanto quando si circondava di fuoriclasse come Volonté, a proposito del quale è memorabile un aneddoto legato a Mamma Ebe. Mentre il regista stava preparando il film, interpellò per un ruolo Volonté, il quale rispose che avrebbe accettato solo se gli fosse stato concesso di essere lui Mamma Ebe. Purtroppo, la cosa non andò. Ma Lizzani – e in questo era persino meglio di Damiano Damiani – riusciva a fare recitare anche i sassi.Di Terence Hill già si è detto. Anche l’altra parte della storica coppia, Bud Spencer, si trovò ad essere diretto da Lizzani in un noir non bellissimo ma dal cast bizzarro assai e sufficiente ragione per disseppellirlo e onorarlo di una visione, che comprendeva, oltre a Pedersoli, il cantante Nicola Di Bari e il Pinocchio televisivo Andrea Balestri: Torino nera del 1972. Nel suo unico film americano, che Lizzani gira di lì a un paio di anni con la produzione di De Laurentiis, Crazy Joe, riesce a rendere credibile il Fonzie di Happy Days, Henry Winkler, con un paio di baffi, in una parte nemmeno troppo semplice. La formazione neorealista lo aiutava a maneggiare materiale grezzo per cavarne il meglio, come risulta evidente guardando Storie di vita e malavita dove tutte le giovani protagoniste, eccetto un paio, sono completamente vergini al cinema. E Lizzani riesce a far fare loro cose incredibili.

Quando all’inizio degli anni Ottanta Lizzani comincia a lavorare per la Rai, nella sua filmografia si apre una fase nuova, interessante e importante, sebbene oggi chi la voglia valutare o riscoprire debba fare fatica, poiché i film restano perlopiù inaccessibili. Per un Fontamara, da Silone, che è stato pubblicato quest’anno in dvd, è pressochè impossibile procurarsi quell’Inverno di malato, da Moravia, inserito all’interno della serie Dieci registi italiani, dieci racconti italiani che la Rai produsse e trasmise nel 1983. Chi scrive lo rammenta però ancora bene, ambientato in un sanatorio e con protagonista Giovanni Guidelli. Una direttrice che da letteraria si fa storico-politica con Un’isola (1986), la biografia di Giovanni Amendola, ma sempre con l’occhio fisso ai fatti contemporanei: come nel complesso apologo sul fenomeno del terrorismo rappresentato dal dimenticatissimo Nucleo zero (1984), che nasceva dal romanzo omonimo di Luce D’Eramo scritto nelle settimane del sequestro Moro. Anche qui, il Lizzani migliore, diretto e conciso pur nella fluvialità della lunga durata televisiva e con attori che si ricordano eccellenti, soprattutto Patrick Bachau e Antonella Murgia che Lizzani si era portato appresso da Fontamara. A questo ganglio temporale, ed esattamente al 1983, risale il primo lungometraggio girato da Lizzani dopo il quadriennato di direttore della Mostra del Cinema di Venezia: un thriller, strutturato nella forma di uno psicodramma, asfissiante e tagliente, La casa del tappeto giallo, da molti considerato come l’ultimo grande esemplare italiano di questo genere, insieme a Tenebre di Argento, con tutto ciò che di assurdo comporta accoppiare due film e due filosofie di regia che più distanti sarebbe impossibile.

Lizzani fece anche altri gialli per la televisione, Assicurazione sulla morte (da James Hadley Chase) del 1987, con protagonista Patricia Millardet che era stata lanciata dalla Piovra, La trappola (1989), con Johnny Dorelli, Mario Adorf e Florinda Bolkan (per chi volesse deliziarsi con un prodotto fine anni Ottanta, è visibile su Youtube) e, con un salto temporale di dieci anni, La donna del treno (1998), dal quale era difficile non restare colpiti da una visione contemporanea, per l’ingegnoso impianto della storia (scritta da Lizzani con Romolo Guerrieri e Roberto Gianviti): una donna magistrato trascorre una notte d’amore con un ragazzo incontrato casualmente su un treno, trovandosi poi coinvolta nelle indagini relative a un omicidio di cui il suo amante occasionale potrebbe essere responsabile. E per l’ottima tenuta drammatica garantita dalla regia di Lizzani e dall’interpretazione della protagonista (anche nuda) Antonella Fattori. Non dimenticherei, però, Stato d’emergenza, la ricostruzione lizzaniana dei giorni del rapimento del generale Dozier condensata in un film televisivo del 1993, che sfrondava tutte le dietrologie e le teorie di complotti internazionali, concludendo per un tentativo esperito dalle sole BR nostrane di alzare il tiro e il livello del loro attacco.

Domandano a Lizzani, in un intervista tra le molte reperibili su Yt, di esprimere una riflessione sui suoi film “politici”. E Lizzani, che stringe tra le mani il suo libro autobiografico: Il mio lungo viaggio nel secolo breve, risponde operando un distinguo tra i suoi film in cui la politica è un elemento interno e quelli in cui essa è invece qualcosa di esterno. Citando titoli come Mussolini ultimo atto, Il processo di Verona, Il gobbo e Fontamara, Lizzani argomenta che possono essere definiti film politici in quanto si muovono all’interno di temi come il fascismo e l’antifascismo e attingono a personaggi reali. Nell’altra categoria, alla quale appartengono, per esempio, film come Cronache di poveri amanti, la politica fungerebbe come una sorta di reagente per far emergere vicende umane di personaggi immaginari. Io credo che questa distinzione non esista, sia un sofisma, e che Lizzani abbia fatto solo dei grandi film che non accettano di venire scissi in componenti più o meno precise. Mussolini ultimo atto è un film poderoso che non si riesce ad accettare possa essere ridotto nel letto di Procuste dell’aggettivo “politico”. Tantomeno con il significato rozzo e degradato con cui il termine potrebbe venire speso oggi sulle pagine di un qualsiasi Giornale di un Feltri qualsiasi.

Al viatico dei lavori fin qui citati (e con la precisazione che il Lizzani cineasta e documentarista storico di prim’ordine, non lo abbiamo colpevolmente ricordato e lo facciamo così en passant), necessari per farsi un’idea di cosa sia stato il cinema di Lizzani, piacerebbe aggiungere anche un’opera collettiva: si tratta dell’Addio a Enrico Berlinguer, girato in occasione dei funerali del segretario del Partito Comunista il 13 giugno del 1984. Quaranta cineasti, tra i quali Lizzani, ripresero tutte le fasi di qualcosa che restituito dagli schermi così come dovette essere anche nella realtà, possedeva l’aspetto di un evento monumentale ed epocale. Un filmato apocalittico, che ha a che vedere con la fine dei tempi, con una morte che non è dramma singolo ma catarsi collettiva. Trovate questo reperto.Può insegnare molto.Anche su Lizzani.

Davide Pulici
https://www.nocturno.it/memorial-carlo-lizzani/
 

No hay comentarios:

Publicar un comentario