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sábado, 5 de febrero de 2022

Tre storie proibite - Augusto Genina (1952)

TÍTULO ORIGINAL
Tre storie proibite
AÑO
1952
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
No
DURACIÓN
113 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Augusto Genina
GUIÓN
Augusto Genina, Vitaliano Brancati, Sandro De Feo, Ruggero Maccari, Ercole Patti (novela), Ivo Perilli
MÚSICA
Antonio Veretti
FOTOGRAFÍA
Aldo Graziati (B&W)
REPARTO
Gabriele Ferzetti, Roberto Risso, Antonella Lualdi, Charles Fawcett, Eleonora Rossi Drago, Gino Cervi, Frank Latimore, Lia Amanda, Isa Pola, Bruno Vecchi, Giulio Stival, Barbara Brecht-Schall, Luciana Vedovelli, ver 7 más
PRODUCTORA
Electra Film Productions Inc
GÉNERO
Drama | Sketches

Sinopsis
Tres episodios que narran la historia de tres muchachas, refugiadas en el hueco de la escalera de un palacio deshabitado, que esperan una oferta de trabajo. (FILMAFFINITY)
 
2 

Messo in secondo piano dal contiguo Roma ore 11 (Giuseppe De Santis, 1952), che col passare degli anni continua a stupire per rigore e passione, Tre storie proibite si ispira allo stesso fatto di cronaca: il crollo di una scalinata in cui circa duecento donne erano ammassate per fare un colloquio di lavoro. A differenza di De Santis, che incaricò Elio Petri di compiere un’inchiesta sulla vicenda, con l’obiettivo di partire dalle esperienze di vita delle ragazze per tracciare un ritratto sulla disperazione postbellica delle classi più umili, Augusto Genina sceglie tutt’altro approccio.

E non potrebbe essere altrimenti, giacché era più che distante dagli strumenti del neorealismo per realizzare il suo cinema fieramente popolare con lo stile di chi ha fatto esperienza fuori dai confini nazionali. Ora, affrontare oggi Tre storie proibite senza considerare il capolavoro di De Santis è particolarmente ostico, anche perché il trascurato film di Genina segue una strada meno facile da inquadrare. Come detto dal titolo, trattasi di film ad episodi con un occhio rivolto allo spirito di Nessuno torna indietro (Alessandro Blasetti, ’43) e un legame esplicito con quel cinema melodrammatico piccoloborghese alla Domani è troppo tardi (Léonide Moguy, ’50).

Ricoverate dopo il crollo, tre ragazze ripercorrono la loro vita precedente al dramma: due ne parlano fra loro, la terza, in fin di vita, esplode sotto i ferri in ricordi dovuti alla somministrazione dell’anestetico. La prima storia, molto mélo, è quella di Renata (Lia Amanda), che in seguito ad una violenza infantile non riesce a fidarsi degli uomini, fino all’incontro con un ingegnere (Gabriele Ferzetti), la cui famiglia sembra esserle ostile. Quindi è il turno di Anna Maria (Antonella Lualdi), malmaritata ad un ricco industriale nullafacente, maligno e radioamatore (Enrico Luzi), un racconto grottesco e quasi assurdo. Infine, la parabola crudele di Gianna (Eleonora Rossi Drago), figlia di un blasonato docente di Diritto romano (Gino Cervi), precipitata nel gorgo del peccato.

Per storie proibite s’intendono i percorsi delle ragazze fuorviate dalle meschinità della vita che devono compiere un percorso di redenzione per poter vivere senza inganni. A non convincere è la cornice: perché scomodare la tragedia della scalinata, cioè il segno dell’esigenza di un lavoro per emanciparsi dalla miseria, per giungere alla conclusione che solo il matrimonio può salvare le ragazze? Il destino della povera Gianna, tra l’altro, sta lì proprio a dimostrare quale sia, in una visione moraleggiante, l’unica espiazione possibile per chi pecca. Certo, Genina e i suoi sceneggiatori hanno l’ardire di trattare temi abbastanza spinosi (specie la tossicodipendenza, benché la messinscena dei festini sia troppo condizionata dalla censura preventiva), ma Tre storie proibite pare un’occasione mancata.

Lorenzo Ciofani
https://www.cinefiliaritrovata.it/cinema-ritrovato-2017-tre-storie-proibite/

Partono dallo stesso fatto di cronaca, il crollo di una scalinata in cui circa duecento donne erano ammassate per fare un colloquio di lavoro, ma mentre Roma ore 11 di Giuseppe De Santis, 1952 continua, col passare degli anni, a stupire per rigore e passione, Tre storie proibite sembra non dialogare più col suo pubblico se non sulla superficie di una fragile empatia retrò.

A differenza di De Santis, che incaricò Elio Petri di compiere un’inchiesta sulla vicenda (ne trasse anche un libro), con l’obiettivo di servirsi delle reali esperienze di vita delle ragazze per tracciare un ritratto sulla disperazione postbellica delle classi più umili, Augusto Genina scelse tutt’altro approccio. E non poteva essere altrimenti, giacché era più che distante dagli strumenti del neorealismo.

In una certa misura, la storia si presta bene al suo  progetto di cinema fieramente popolare, realizzato con lo stile di chi ha fatto esperienza fuori dai confini nazionali, essendo Genina regista davvero cosmopolita che, prima della parentesi fascista, raggiunse il successo con il francese Miss Europa, sceneggiato da René Clair e Georg Wilhelm Pabst. Nel suo background ci sono, insomma, le stimmate di un cineasta di caratura europea, capace anche nel periodo finale di parlare una lingua sprovincializzata.

Affrontare oggi Tre storie proibite senza considerare il capolavoro di De Santis è particolarmente ostico, anche perché film di Genina segue una strada meno facile da inquadrare. Come detto dal titolo, trattasi di film ad episodi con un occhio rivolto allo spirito di Nessuno torna indietro di Alessandro Blasetti e un legame esplicito con quel cinema melodrammatico piccoloborghese alla Domani è troppo tardi di Léonide Moguy, in voga nei primi anni cinquanta.

Ricoverate dopo il crollo, tre ragazze ripercorrono la loro vita precedente al dramma: due ne parlano fra loro, la terza, in fin di vita, esplode sotto i ferri in ricordi dovuti alla somministrazione dell’anestetico. La prima storia, molto mélo, è quella di Renata (Lia Amanda), che in seguito ad una violenza infantile non riesce a fidarsi degli uomini, fino all’incontro con un ingegnere (Gabriele Ferzetti), la cui famiglia sembra esserle ostile.

Quindi è il turno di Anna Maria (Antonella Lualdi), malmaritata ad un ricco industriale nullafacente, maligno e radioamatore (Enrico Luzi, incredibilmente inquietante), un racconto grottesco e quasi assurdo. Infine, la parabola crudele di Gianna (Eleonora Rossi Drago, ovviamente), figlia di un blasonato docente di Diritto romano (Gino Cervi), precipitata nel gorgo del peccato.

Per storie proibite s’intendono i percorsi delle ragazze fuorviate dalle meschinità della vita che devono compiere un percorso di redenzione per poter vivere senza inganni. A non convincere è la cornice: perché scomodare la tragedia della scalinata, cioè il segno dell’esigenza di un lavoro per emanciparsi dalla miseria, per giungere alla conclusione che solo il matrimonio può salvare le ragazze?

Il destino della povera Gianna, tra l’altro, sta lì proprio a dimostrare quale sia, in una visione moraleggiante, l’unica espiazione possibile per chi pecca. Certo, Genina e i suoi sceneggiatori hanno l’ardire di trattare temi abbastanza spinosi (specie la tossicodipendenza, benché la messinscena dei festini sia troppo condizionata dalla censura preventiva), ma pare un’occasione mancata, utile soprattutto a inquadrare l’atteggiamento di un regista che tra Cielo sulla palude, L’edera, questo Tre storie, Maddalena e Frou-Frou redige un catalogo femminile di rara crudeltà.
https://lorciofani.com/2018/08/16/italia-50s-10-tre-storie-proibite-augusto-genina-1952/

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Augusto Genina, regista politicamente agli antipodi di De Santis, gira a sua volta un film ispirato al crollo di via Savoia, Tre storie proibite (ottobre 1952; 105 min.), nel quale, coadiuvato da uno stuolo di sceneggiatori (tra cui Vitaliano Brancati) rovescia il punto di vista del regista ciociaro. La sciagura delle dattilografe diviene una cornice (che rende possibile il bellissimo colpo di scena finale) e uno sfondo non irrilevante per i tre episodi (raccontati in flashback) e tuttavia essa risulta solo una tragica fatalità alla quale è inutile addebitare colpe sociali o politiche. Anzi la terza protagonista si viene a trovare al centro del disastro senza avere nulla a che vedere con lo sciame di aspiranti dattilografe ed anzi è proprio questa la svolta narrativa più eclatante del film. Il racconto inoltre è solo formalmente corale; in realtà si tratta di uno dei primi film a episodi degli anni cinquanta (seguito a ruota da I vinti di Antonioni, anch’esso diviso in tre parti e uscito nei primi mesi del 1953).
Genina tocca argomenti estremamente scabrosi – soprattutto per l’epoca – senza peraltro cedere ad eccessivi compiacimenti. Nel primo episodio incontriamo Renata (Lia Amanda) la quale, avendo subìto violenza quando era undicenne, fatica a trovare un sereno rapporto con l’altro sesso. Finalmente si fidanza con un ingegnere (Gabriele Ferzetti) ma una rivale svela il suo assato all’uomo e alla sua famiglia; ne consegue l’inevitabile rottura. Renata, rimasta sola, cerca allora un impiego da dattilografa...
Nel secondo episodio la segretaria Anna Maria (Antonella Lualdi) viene scelta come sposa da Tommaso (Enrico Luzi), un bizzarro milionario che passa le giornate in un beato ozio interrotto solo dalla sua appassionata attività di radioamatore; la fortuna di Anna Maria si trasforma presto in un mezzo incubo poiché il martio non le permette di vedere nessuno (neppure la madre e le amiche), non desidera figli e non vuole uscire di casa (una sontuosa villa con parco) per nessun motivo. Alla disperata Anna Maria non resta che lasciarlo e cercarsi un nuovo lavoro da dattilografa...
Nel terzo episodio l’ambiente muta radicalmente: nessuna dattilografa, bensì Gianna (Eleonora Rossi Drago), una ricercatrice universitaria figlia di un prestigioso accademico (Gino Cervi), la quale è anche una tossicodipendente, schiava del suo amante (Frank Latimore nel ruolo di seduttore come già nel precedente Una donna ha ucciso di Cottafavi), anch’egli drogato. Invano la donna cerca di liberarsi della propria dipendenza: aiutata dal padre accetta la corte di un collega e sta per sposarlo quando ricasca nel solito vizio. Dopo una nottata dissoluta, Gianna esce dal misero appartamento dell’amante con l’intento di precipitarsi a casa e si trova di fronte le centinaia di aspiranti dattilografe sulla scala che sta per crollare...
La pellicola, ben recitata e accompagnata da una curiosa colonna sonora di Antonio Veretti che si basa su varianti e distorsioni del noto tema nuziale di Mendelssohn (dalle musiche di scena composte per Sogno di una notte di mezza estate), non offre momenti alti e tuttavia si differenzia dal contesto dell’epoca per le tematiche estreme ed i personaggi insoliti. In questo contesto ovviamente è del tutto assente qualunque accenno di critica sociale: d’altronde la visione dell’autore tende ad isolare ciascun personaggio nella propria storia e nel proprio contesto esistenziale, evitando di attribuire eccessive responsabilità alle condizioni ambientali. Pertanto si tratta di un film conservatore nella visione politica e, come tale, inevitabilmente maltrattato dalla critica dell’epoca.
Nell’episodio pedofilo l’attenzione verte soprattutto su una sciagurata madre la quale – pur di ottenere raccomandazioni romane da un potente avvocato (in ballo c’è un trasferimento nella capitale) – non esita ad affidare la figlioletta all’ambiguo personaggio con gli esiti noti. Tra l’altro nel prosieguo la famiglia di Renata apparirà separata di fatto: il padre è espatriato e la madre vive con un nuovo amante. Come si nota non sono le condizioni sociali a rendere amara l’odissea di Renata bensì l’avidità e la frustrazione materna, pronta a strumentalizzare tutto e tutti per le proprie fatue necessità.
Anche l’episodio dello stravagante e asociale milionario – una figura divertente anche se estremizzata in direzione macchiettistica – è governato da una  visione tradizionale che sembra ancora governare il matrimonio e che suona oggi del tutto inattuale: ci si sposa per procreare e la stravagante idea del nostro vagamente autistico Tommaso di non volere figli è la goccia che fa traboccare il vaso e che induce la giovane – sostenuta dall’approvazione materna – a mollare tutto. D’altronde per divenire moglie (certamente ricca...) Anna Maria aveva lasciato il proprio lavoro di dattilografa e ad esso fa ritorno solo dopo aver constatato il fallimento del proprio matrimonio. Il lavoro femminile sembra essere, insomma, solo un riempitivo in attesa di occupazioni più importanti. Altri tempi...
La vicenda della tossicodipendente è quella più legata ai recenti successi di Silvana Mangano e ai suoi ruoli “doppi” (in Riso amaro e Anna): per quanto ben recitata essa non offre sorprese con l’eccezione del già citato finale. In fondo lo spettatore si continua a chiedere in quale punto della sua odissea la stimata ricercatrice Gianna abbandonerà tutto e si recherà in via Savoia a chiedere un posto da dattilografa e rimane dunque sorpreso da questa conclusione degna di un grande film poliziesco.
La pellicola ottiene un buon successo mentre il Centro Cattolico - certamente infastidito dall’audacia degli argomenti, nonostante il taglio conservatore del racconto - la bolla con un prevedibile “escluso”.
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