ESPACIO DE HOMENAJE Y DIFUSION DEL CINE ITALIANO DE TODOS LOS TIEMPOS



Si alguién piensa o cree que algún material vulnera los derechos de autor y es el propietario o el gestor de esos derechos, póngase en contacto a través del correo electrónico y procederé a su retiro.




sábado, 25 de agosto de 2012

Un uomo da bruciare - Paolo e Vittorio Taviani, Valentino Orsini (1962)


TITULO ORIGINAL Un uomo da bruciare
AÑO 1962
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 92 min.
DIRECCION Valentino Orsini, Paolo Taviani e Vittorio Taviani
GUION Valentino Orsini, Paolo Taviani, Vittorio Taviani
FOTOGRAFIA Toni Secchi
ESCENOGRAFIA Piero Poletto
MUSICA Gianfranco Intra
MONTAJE Lionello Massobrio
PRODUCCION Moira - Giuliani G. De Negri per Ager Film, Sancrofilm, Alfa Cinematografica
REPARTO Gian Maria Volontè (Salvatore), Didi Perego (Barbara), Spyros Fokas (Jachino), Turi Ferro (Vincenzo),  Lydia Alfonsi (Francesca)

SINOPSIS Salvatore, giovane contadino, dopo due anni di continente torna in Sicilia per riprendere la lotta contro la mafia, i privilegi, l'ingiustizia. Lo eliminano. Le intenzioni dei registi esordienti non sono sempre risolte a la sincerità e l'energia morale da una parte, la forza plastica delle immagini e la compattezza della narrazione dall'altra approdano a esiti di incontestabile vigore espressivo. Liberamente ispirato alla figura del sindacalista socialista Salvatore Carnevale. Premiato dalla critica a Venezia. 1° ruolo di protagonista per Volonté. (Il Morandini)


Dopo l'esordio al lungometraggio col documentario "L'Italia non è un paese povero" (co-diretto con l'olandese Joris Ivens), Paolo e Vittorio Taviani approdano alla regia di "Un uomo da bruciare". Per questo progetto, insieme a loro dietro la macchina da presa c'è l'esordiente Valentino Orsini ("Corbari", "Uomini e no"), che lavorerà di nuovo coi fratelli toscani subito l'anno successivo, per "I fuorilegge del matrimonio".
"Un uomo da bruciare" è ambientato in Sicilia ed è ispirato alla figura del sindacalista socialista Salvatore Carnevale che nel 1955, a soli 32 anni, fu ucciso dalla Mafia perché impegnato nella lotta per i diritti dei braccianti agricoli. Similmente a Carnevale, anche il protagonista della pellicola dei Taviani e di Orsini (ben interpretato da un giovane Gian Maria Volonté) torna in Sicilia dopo due anni di vita sul continente e mette in pratica la sua esperienza extra-siciliana per portare i lavoratori ad ottenere gli stipendi e la diminuizione del numero delle ore di lavoro da 12 a 8.
Nonostante il film si perda in alcuni passaggi in cui il ritmo cala un po' troppo, facendo abbassare l'attenzione dello spettatore, per il resto il lavoro dei registi è molto buono e riesce al contempo sia a narrare la vita di un'importante personaggio italiano poco conosciuto e poco citato, sia ad avanzare una forte denuncia nei confronti della Mafia. I vari caratteri sono presentati in maniera molto realistica, così da far render bene conto a chi guarda che i mafiosi e i loro affari fanno parte della realtà di tutti i giorni e sono profondamente radicati nella società e nelle istituzioni.
Particolari note di merito vanno inoltre alla regia - che sfrutta bene sia i grandi spazi aperti dei campi e delle colline, sia i luoghi meno ampi, come la piazza e le case del paesino di Salvatore - ed alle belle musiche scritte e dirette da Gianfranco Intra, molto adatte in ogni contesto.
"Un uomo da bruciare" vinse il Premio della Critica, il Premio Cinema Nuovo ed il Premio Cinema 60 alla 23.a edizione del festival di Venezia, dove ottenne anche la menzione della giuria per il Premio Opera Prima.
Maurizio Macchi
http://www.pellicolascaduta.it/wordpress/?p=1857
---
Dopo una decennale attività teatrale e documentaristica, nel 1962, Paolo e Vittorio Taviani dirigono con Valentino Orsini, il film d'impegno civile "Un uomo da bruciare".Il protagonista, Salvatore, ritorna in Sicilia dopo due anni trascorsi a Roma. Lasciatosi alle spalle un'appassionata avventura sentimentale, Salvatore vuole riprendere il contatto con la terra d'origine, organizzando le lotte contadine. Giunto in paese scopre però che i suoi compagni stanno già per occupare le terre ancora controllate dalla mafia. Egli, d'altra parte, sostiene che l'occupazione non è sufficiente: le terre infatti vanno lavorate, solo così diventeranno di effettiva proprietà dei contadini. Agendo ai limiti della legalità, Salvatore riesce a imporre la sua posizione. Pur avendo riportato una prima vittoria sulla mafia, al congresso delle Leghe contadine, viene isolato: i suoi metodi infatti sono reputati troppo rischiosi. Deluso e amareggiato, Salvatore finisce con l'accettare il posto di capo cantiere offertogli dalla mafia. Sul lavoro, si mostra duro e inflessibile, ma la sera stessa, al termine della sua prima giornata di lavoro, sfida pubblicamente la mafia sulla piazza del paese. Sarà ucciso poco più tardi. Liberamente ispirato alla vita del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, il film si inserisce nel filone di denuncia del contropotere mafioso ed è sostenuto da una forte ispirazione ideologica (l'uccisione di un sindacalista che aveva organizzate le lotte dei contadini spinge questi ultimi a prendere coscienza). Gli autori definiranno questo film "un atto d'amore verso il Neorealismo", della cui lezione i registi hanno conservato il lato piú valido e attuale: quello dell'attinenza alla realtà, la realizzazione di un cinema umano. Un uomo da bruciare è, però, anche un'opera aperta a ulteriori e molteplici suggestioni: dagli insegnamenti brechtiani alla psicanalisi, all'adozione di una pluralità di stili, alla pittura dell'astrattismo, che preconizzano l'evoluzione dei registi verso una dimensione stilistica sempre più visionaria.
http://www.italica.rai.it/scheda.php?monografia=cinema&scheda=cinema_film_bruciare
---
Trama
Salvatore, un giovane attivista sindacale di ispirazione marxista, rientra al paese natale in Sicilia. A Roma lascia una vita allettante e una relazione appassionata. Nel piccolo centro isolano si propone di capeggiare i suoi compaesani nell'occupazione forzata di un fondo, in contrasto con la mafia, decisamente avversa all'impresa. Ben presto i suoi compagni di fede e di azione si lasciano intimorire e rinunciano alla lotta. Salvatore usa ogni mezzo per scuotere i suoi seguaci, arrivando persino a fare il doppio gioco con la mafia. Questa tuttavia ben presto scopre le vere intenzioni di Salvatore e ne decreta la morte per mano di un sicario. Il sacrificio di Salvatore stimola la coscienza e la ribellione dei proletari intorpiditi.

Critica
"La evidente ispirazione marxista del soggetto e del regista deforma completamente il risultato globale del film, che troppo scopertamente si piega alle esigenze polemiche invano mascherate dalla volontà di demitizzare alcune realtà ed alcuni personaggi chiave dell'attuale società italiana, ivi compresa la figura del protagonista. Una spiccata povertà d'invenzione cinematografica, l'inconsistenza dei dialoghi, un'interpretazione piuttosto manierata, una narrazione deficitaria (nonostante qualche pagina di corale incisività) nonché la mancanza di gusto e misura in alcune scene riducono l'opera ad un tentativo approssimativo e mal riuscito." ('Segnalazioni cinematografiche', vol. 52, 1962)

Note
- PREMIO DELLA CRITICA, PREMIO CINEMA NUOVO, PREMIO CINEMA 60 ALLA XXIII MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (1962).
http://www.cinematografo.it/pls/cinematografo/consultazione.redirect?sch=12525

Uno spaccato della realtà siciliana negli anni Cinquanta: “Un uomo da bruciare” - “Salvatore Giuliano”

All’inizio degli anni ’60 fu presentato il film “Un uomo da bruciare”, diretto da tre giovani registi al loro esordio: Valentino Orsini, Paolo e Vittorio Taviani (autori questi ultimi quindici anni dopo dell’esemplare “Padre padrone”, e ancora di altre memorabili opere tra cui “La notte di San Lorenzo”), nel quale rappresentarono un’interpretazione dell’uccisione del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale attraverso la descrizione del contesto sociale in cui quel delitto maturò e fu consumato, intorno alla metà degli anni ’50 (1).
Il superamento del pragmatismo neorealista avviato da Visconti con “La terra trema” trova un perfetto ed intelligente riscontro nell’opera prima dei tre giovani cineasti i quali propongono allo spettatore attento ed interessato una chiave di lettura critica della realtà presa in esame (uno spaccato emblematico della Sicilia di quegli anni), necessario presupposto per gli ulteriori sviluppi cui il cinema di indagine sociale sarebbe pervenuto grazie a Francesco Rosi autore nello stesso periodo dell’esemplare prova data nel suo “Salvatore Giuliano”, e del successivo “Le mani sulla città” che ha per tema la speculazione edilizia a Napoli, e le sue connessioni con la camorra(2).
Nei primi anni Sessanta, infatti, “…la cultura che si esprime attraverso il linguaggio cinematografico ha compiuto passi decisivi. La realtà non è più guardata con gli occhi ingenui e sbalorditi del neorealismo ma con maggiore riflessione critica e una più accurata documentazione. Non ci si accontenta più di farsi commuovere o Suggestionare da quel che si scopre (il dolore – tema dominante del neorealismo – ci fece vedere soltanto i disastri della guerra e gli effetti della arretratezza sociale italiana). Non ci si fida più della osservazione pura, della emozione che sciocca come una scintilla alla vista delle sofferenze e delle ingiustizie. Si ricorre alla sociologia, per comprendere. O alla storia, o anche solo al giornalismo. O perfino alla letteratura, come stimolo per la ricerca delle radici culturali della realtà”(3).
Nel prosieguo della sua carriera, dopo quel film – limpido esempio di cinema politico, appassionante e non retorico – che suscitò tanto scalpore e roventi polemiche alla sua presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia dove pure fu premiato con il Leone d’oro, Rosi ha affrontato ripetutamente temi scottanti dell’attualità socio-politica nazionale, contribuendo a delineare ed impinguare con il suo apporto originale quanto prezioso quel cinema che la critica ha definito di impegno civile, al pari di autori, meno rigorosi sul piano stilistico e dell’indagine sociale ma altrettanto efficaci per la rilevanza dei problemi trattati e per gli esiti ottenuti, ali Petri e Damiani. Un contributo, quello di Rosi, che è cresciuto ed è progressivamente maturato nel corso degli anni, passando dalle prime prove registiche – “La sfida”, “I magliari” – improntate ai canoni della decodifica della realtà propri del cinema post-neorealistico, ad opere – “Il caso Mattei”, “Cadaveri eccellenti” – di notevole interesse non solo intrinseco, per la tematica di indubbio spessore politico e sociale,
ma specialmente per la maturazione da parte di Rosi di un suo personalissimo stile di indagare il ‘problema’ nella complessità delle sue diverse e spesso divergenti componenti, e di uno specifico linguaggio filmico risultante dalla ben calibrata commistione della struttura espositiva di tipo documentaristico con gli stilemi narrativi propri della comunicazione per immagini.
“Portare avanti il discorso sui temi dell’impegno civile – ha scritto Edoardo Bruno – significa muoversi costantemente nella tradizione del neorealismo che è stato e resta un fatto concreto di rovesciamento delle forme e dei contenuti, una affermazione di rottura in direzione di una costante ricerca di una cifra espressiva, di un modo di rendere tangibili le nuove esigenze di contenuto, di concreta rappresentazione dell’uomo nella sua società.”(4)
Seppur non derivate immediatamente dall’attualità, ma da essa comunque indotte e frutto di una riflessione Ampliata ad alcuni dei temi più controversi della storia nazionale più o meno recente, meritano di essere ricordati anche “Uomini contro”, “Veemente dramma antimilitarista…”(5) tratto da “Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu, “Cristo si è fermato a Eboli” che, sulla scorta dell’omonimo romanzo autobiografico di Carlo Levi, “…scava profondamente nell’animo umano e in quello di una nazione alla deriva”(6), “La tregua” in cui Rosi, rispettando la volontà di Primo Levi autore dell’omonimo libro, “…si è affidato al doppio registro della commozione e della contemplazione, del coinvolgimento emotivo e della meditazione sull’esempio morale che se ne può ricavare”(7).
A modo loro anche i fratelli Taviani hanno ‘letto’ – con minore enfasi indagatoria, e con un più pacato ritmo espositivo dato dall’oggettività della rappresentazione degli eventi – la realtà depurandola per così dire dei colori della minuta quotidianità in opere quali “San Michele aveva un gallo”, “Allonsanfan”, e specialmente “La notte di San Lorenzo”, in cui la metafora storica è finalizzata alla riflessione su momenti e situazioni del tempo presente.
“Un uomo da bruciare” racconta di un giovane contadino, Salvatore, il quale, tornato dal continente dove è stato a contatto con una realtà sociale e con sistemi di lavoro ben diversi da quelli in uso in Sicilia, tenta di dare una struttura sindacale ai rapporti di lavoro dei suoi compagni. Ma la sua lotta impari con le forze della reazione, della mafia e della corruzione politica, lo porta alla morte violenta.
“Il 16 maggio 1955, a Sciara, in provincia di Palermo, veniva ucciso a lupara il segretario della Camera del Lavoro, Salvatore Carnevale. Mai delitto politico era stato firmato in tutte lettere come questo: mandanti e autori materiali avevano operato in pieno giorno, su terreno scoperto in un luogo di frequente passaggio, affinché tutti potessero vedere e riflettere.”(8) Ricco di vigore drammatico, il film di Orsini e dei fratelli Taviani imposta la figura del protagonista sul registro del marcato semplicismo psico-ideologico. Come ‘Ntoni de “La terra trema”, Salvatore sembra guidato nella sua azione, anch’essa rivoluzionaria per il contesto non dissimile in cui si esplica e per lo scopo che la sorregge (dare una struttura sindacale ai rapporti di lavoro dei suoi compagni), da un bisogno evangelico di giustizia sociale che, però, non tiene conto di quale sia la realtà nella quale egli opera, piuttosto che da una meditata scelta politica. Il che nel film è confermato dall’opinione che Salvatore ha di sé, di essere un martire predestinato dell’umana solidarietà (“Forse qui hanno bisogno della mia morte”), un Cristo redivivo (“Chi ammazza me è come se ammazzasse Cristo”); ed in maniera ancor più evidente dalla sua incapacità di calarsi nella concreta dimensione dei problemi che pretende di risolvere, e dalla conseguente contestazione, da parte degli stessi contadini, del suo “cervello caldo” che lo fa giudicare un isolato quanto pericoloso sobillatore.
Sono passati appena otto anni dall’analisi viscontiana; e se il riduttivismo ideologico dei due protagonisti combacia nell’ambito di una situazione storica non dissimile nella quale le forze del progresso non si sono ancora adeguatamente fortificate per le autonome battaglie della riscossa, è certo che in quella stessa realtà – otto anni dopo – le opposte potenze della conservazione e della restaurazione post-restistenziale hanno già trovato il tempo e il modo di ricomporre la propria rete degli intrighi e delle connivenze economico-politici, così da soffocare qualsiasi alito innovatore al suo primo spirare. E, difatti, nel film di Orsini e dei Taviani la realtà socio-politica del piccolo paese del palermitano, Sciara, specchio per diversi aspetti della Sicilia degli anni ’50, risente meno di conflitti soggettivi rispetto a quella indagata da Visconti ad Acitrezza, essendosi essi, ora, in certo modo oggettivizzati politicizzandosi.
Per gli autori del film la società in cui Salvatore avvia la sua lotta è caratterizzata dalla pesante presenza del potere mafioso il quale condiziona non soltanto la vita dell’intero proletariato bracciantile attraverso il controllo capillare delle fonti di lavoro (le campagne e la cava di pietra), ma le stesse scelte politiche di taluni rappresentanti del popolo ‘democraticamente’ eletti nei cui confronti può permettersi di ribadire, al di fuori di ogni metafora, che se la poltrona di parlamentare è a Roma i voti per conquistarla e conservarla sono lì, nelle zone sottomesse al proprio controllo.
Nel suo libro di memorie siciliane “Le parole sono pietre” Carlo Levi così sintetizza la vicenda del sindacalista la Sciara: “Carnevale era segretario degli edili e chiese le otto ore dovute per contratto mentre se ne lavoravano undici, e il pagamento dei salari arretrati. Scrisse a Palermo, fece comizi attaccando la mafia, venne di nuovo minacciato e infine ucciso mentre andava al lavoro. L’assassinio era, per così dire, firmato, con la simbologia delle uccisioni di mafia: i colpi al viso, per sfigurare il cadavere, in segno di spregio; e il giorno seguente il furto di quaranta galline, per il banchetto tradizionale. Ma tutto sarebbe finito nel silenzio, come tutte le altre volte. L’autorità avrebbe fatto le viste di indagare, nessuno avrebbe parlato. Si sarebbe, come tutte le altre volte, parlato di un delitto privato, per ragioni personali, o di onore, o di interesse, o di vendetta. Ma questa volta, per la prima volta nella storia della Sicilia, non è stato così. La madre di Salvatore ha parlato, ha denunciato esplicitamente la mafia al tribunale di Palermo. È un grande fatto, perché rompe il peso di una legge, di un costume il cui potere era sacro. Qualche cosa è davvero cambiato. Il giorno della morte di Carnevale il paese era terrorizzato, nessuno osava andare a vedere il morto, abbandonato all’obitorio. La denuncia ha scacciato il terrore, al funerale c’erano tutti, si sentivano solidali e sulla strada giusta, come al centro del mondo”.(9)
Pur essendo “…un atto d’amore per il neorealismo...”(10), “Un uomo da bruciare” tuttavia se ne distacca per “…il carattere ironico e antipopulistico della narrazione e del personaggio: non un eroe ‘positivo’, ma un uomo problematico e contraddittorio, talvolta rozzo e violento, sempre egocentrico al limite dell’esibizionismo e della mitomania…”(11).
“Un uomo da bruciare” si avvale della estroversa recitazione di Gian Maria Volontè nel ruolo del protagonista al quale l’attore, interprete dei più significativi film di quel cinema di ‘indagine sociale’ che si sarebbe affermato nei decenni successivi, regalò il giusto arpeggio della mistica lucida ‘follia’ intellettuale; nonché del contributo per i dialoghi del poeta dialettale Ignazio Buttitta che alla figura del sindacalista assassinato ha dedicato i versi accorati del suo “Lamentu pi Turiddu Carnivali”: “Ancilu era e non avìa ali / non era santu e miraculi facìa, / ncelu acchianava senza cordi e scali / e senza appidamenti nni scinnìa; / era l’amuri lu so capitali / e sta ricchizza a tutti la spartìa: / Turiddu Carnevali nnuminatu / e comu Cristu murìu ammazzatu… / Dissi a lu jurnateri: “Tu sì nnuru, / e la terra è vistuta a pompa magna; / tu la zappi e ci sudi comu un mulu /e sì all’additta siccu na lasagna; / veni la cota ed a corpu sicuru / lu patroni li beni s’aggrafagna / e tu chi fusti ogni matina all’antu / grapi li manu ed erricogghi chiantu… / Dissi: “La terra è di cu la travagghia, / pigghiàti li banneri e li zappuna!” / E prima ancora chi spuntassi l’arba / ficiru conchi e scavàru fussuna: / addivintò la terra na tuvagghia, / viva, di carni comu na pirsuna; / e sutta la russa di li banneri / parsi un giganti ogni jurnateri… / Sidici maggio, l’arba ncelu luci, / e lu casteddu àutu di Sciara / taliàva lu mari chi straluci / comu n’artàru supra di na vara; / e fra mari e casteddu una gran cruci / si vitti dda matina all’aria chiara, / sutta la cruci un mortu, e cu l’aceddi / lu chiantu ruttu di li puvireddi…” (in “Il poeta in piazza”, Milano, Feltrinelli, 1974) (“Angelo era e non aveva ali / non era santo e miracoli faceva, / saliva in cielo senza corde e scale / e senza sostenersi ne scendeva; / era l’amore il suo capitale, / questa ricchezza a tutti la spartiva: / Turiddu Carnevale era chiamato / e come Cristo morì ammazzato… / Disse al giornaliero: “Tu sei nudo, / e la terra è vestita in pompa magna; / tu la zappi sudando come un mulo / e stai all’impiedi secco una lasagna; / viene il raccolto e a colpo sicuro / il padrone ci mette le sue zanne / e tu che fosti lì sempre al lavoro / apri le mani e ci raccogli pianto… Disse: “La terra è di chi la lavora, / prendete le bandiere e gli zapponi!” / E prima ancora che spuntasse l’alba / fecero conche e scavarono fossi: / la terra sembrò tavola imbandita, / viva, di carne come una persona; / e sotto il rosso di quelle bandiere / parve un gigante ogni giornaliero… / Sedici maggio, l’alba in cielo splende, / e il castello dall’alto di Sciara / di lì guardava il mare che luceva / come un altare sopra di una bara; / e tra mare e castello quel mattino / una croce si vide all’aria chiara, / sotto la croce un morto, e con gli uccelli / il piangere dei poveri a dirotto …”), Da un identico spaccato socio-politico-economico era nata e aveva preso corpo la vicenda del bandito Salvatore Giuliano il quale, però, per salvaguardare gli interessi dei ceti più umili dalle sopraffazioni e dalle angherie cui erano costretti da coloro che negli anni del secondo conflitto mondiale speculavano sulla loro miseria aveva scelto la strada del crimine.
Nel film che ne ha ricavato, Rosi “…indica, con la sintesi dell’autentico narratore e la capacità di comunicazione del grande giornalista, i problemi, le piaghe, le cancrene dell’isola.
È il film di Rosi più ambizioso e potente, con pagine non indegne di un Ejzenstejn, come la sequenza della strage dei contadini di Portella della Ginestra (…) e il pianto della madre di Giuliano al cimitero. La cronaca viene innalzata a storia e si trasforma in tragedia sociale”(12).
“Perciò Salvatore Giuliano non è tanto il ritratto di un bandito famoso che negli anni immediati del dopoguerra tenne in scacco le forze dell’ordine con plateale arroganza e sicurezza. È un film sulla Sicilia del dopoguerra, 1943-1960, su una situazione storica localizzata in Sicilia ma con problemi irrisolti che superano l’ambito regionale per inquadrarsi nel più vasto panorama dell’Italia e mettono a nudo piaghe antiche, secolari eredità di ingiustizie, vessazioni e omertà, rimaste gravi e pesanti anche dopo la cacciata dei Borboni e il processo di unificazione nazionale.”(13)
Di Giuliano lo storico Denis Mack Smith ha scritto: “Questo popolare eroe di molte ballate cominciò la sua carriera uccidendo un poliziotto che lo aveva sorpreso a portare della farina di contrabbando alla sua famiglia nel 1943. Rifugiatosi sulle colline come un fuorilegge, egli riunì intorno a sé una banda di altri ricercati e finanziò l’operazione imponendo la sua protezione a chiunque fosse in grado di pagare. All’inizio la sua fu solo una delle tante bande di briganti che infestavano le campagne; ma, per la sua spietatezza, la sua ostentata generosità verso alcuni poveri, la sua fortuna e il suo straordinario istinto pubblicitario, divenne presto leggendario. Grazie alle sue considerevoli qualità di capo e ad alcuni utili legami politici, il suo apoggio poteva essere comprato a buon mercato da chi poteva permetterselo e, sebbene avesse notoriamente ucciso molti poliziotti, ricevette straordinari favori dalle autorità”.(14)
“Salvatore Giuliano” di Francesco Rosi prende l’avvio dal fatto di cronaca – il ritrovamento del corpo del bandito nel cortile della casa dell’avvocato De Maria a Castelvetrano all’alba del 5 luglio 1950 – per condurre una serrata inchiesta sulle condizioni generali della Sicilia del dopoguerra (“Sicilia 1943-’60” era, infatti, il titolo pensato da Rosi e usato durante la lavorazione), che avrebbe prodotto una riflessione lucida e attenta sulle trasformazioni del fenomeno mafioso.
Il film ha una struttura insolita per ciò che attiene ai modelli di linguaggio filmico proposti fino ad allora in Italia. Rosi, infatti, rinunciò alla costruzione di una storia in senso tradizionale, e si servì dei documenti del processo di Viterbo e delle cronache del tempo, e ancora delle testimonianze raccolte dai suoi collaboratori per ricomporre la storia degli ultimi venti anni di vita siciliana: per tale fine ritenne più funzionale optare per il racconto a rovescio e ad incastri detto ‘narratage’ già sperimentato in America. “…al racconto impiegato per introdurre l’informazione si sostituisce l‘informazione fatta racconto, la documentazione che diventa essa stessa materia drammatica, l’identificazione diretta e totale della vicenda narrata con la materia da analizzare e da discutere (…) Rosi si esprime usando i verbi al presente storico. Tutta la struttura narrativa dell’opera, infatti, è tesa a rompere un certo ordine cronologico per sostituirgli l’ordine logico che li raccorda l’uno all’altro… (…) L’andamento antinarrativo del film, insomma, ha una sua logica interna, pienamente rispondente alla costruzione di quel ‘presente storico’ attraverso cui il far rivivere gli avvenimenti passati significa coglierne criticamente la continuità nel presente.”(15)
Il passato è costituito dagli antefatti che determinarono la morte violenta di Giuliano. A proposito della quale si disse che il bandito era caduto nello scontro con le forze dell’ordine che gli avevano teso un agguato. Ma questa versione, a giudizio di Pantaleone, non convinse nessuno perché “…sul corpo del bandito furono trovate, oltre alle ferite prodotte dal mitra di Perenze (l’ufficiale dei carabinieri che aveva diretto l’operazione, n.d.a.), altre lacerazioni più vecchie, evidentemente prodotte da colpi di arma da fuoco sparati a bruciapelo…” dalle quali il sangue “… anziché scorrere verso il punto più basso del corpo supino, saliva verso l’alto”.(16)
La confusione narrativa, apparente ad una lettura disattenta del racconto cinematografico, non solo “…svolge … una funzione di decondizionamento, nel senso che serve ad evitare le suggestioni del mito …”(17), ma è rappresentativa essa stessa della più generale confusione degli interessi economici e politici di quegli anni nel cui ordito era ardua impresa individuare i legami esistenti tra le radici sotterranee degli avvenimenti e gli avvenimenti stessi.
Per tale fine è estremamente funzionale l’assenza fisica del bandito relegato a fuggevoli apparizioni contestuali e mai soggettive. Nella sua puntuale analisi Di Giammatteo osserva che “in alcuni punti il film si distende nel ritmo della narrazione epica, sullo sfondo dei paesaggi suggestivi che Germi aveva già fotografato con grande abilità nel suo ‘In nome della legge’. Pensiamo soprattutto ai due capitoli più belli dell’inchiesta: la dispersione della banda nella vallata pietrosa, dopo che l’esercito ha smantellato a cannonate il rifugio sulla vetta del monte; la fuga dei contadini sotto i colpi dei fuorilegge nella piana di Portella. Queste masse che corrono disperate, sciamando come un volo di uccelli spaventati dal cacciatore, posseggono – vorremmo dire – un significato simbolico. Esprimono la debolezza degli uomini che fanno gruppo per difendersi ma che in effetti rimangono pecore senza volontà”18. Il critico ritiene, infatti, che il senso generale del film sia da ricercare nella visione del popolo come vittima fino a quando non prende coscienza della propria forza, ricollegandosi per questa via al tema de “La terra trema”. Osserva, infatti, Zambetti: “…non siamo di fronte ad un film su Salvatore Giuliano, bensì a un film sulla Sicilia, meglio ancora su una situazione storica e politica localizzata in Sicilia, ma implicante problemi che superano l’ambito regionale per inquadrarsi nel più vasto panorama dell’Italia di quei vent’anni, un paese di cui la guerra ha messo a nudo come non mai le antiche piaghe e nel quale le cicatrizzazioni sono servite solo a lasciare inalterata la sostanza del male.”(19)
Il mito di Giuliano già aleggiava tra i conterranei. Il bandito era visto come il simbolo della rivolta popolare contro lo Stato “…ridotto al carabiniere (…) e per di più ad un carabiniere che ha le mani legate nei confronti dei forti e che riesce ad esercitare la sua autorità solo con i deboli”(20); della vendetta sociale, della redenzione dei poveri. A Rosi evidentemente non interessava la singolare vicenda di un uomo, per quanto di non poco rilievo in quel contesto storico; al contrario, gli premeva indagare sul ruolo delle forze politiche, degli interessi economici, che avevano manovrato i fili dell’attività del bandito nella fase ‘politica’ della sua azione di rivolta. La quale, secondo Pantaleone, “…cominciò nel 1945 quando, sotto l’accorta regia di Calogero Vizzini e della mafia di Palermo e Monreale, egli fu spinto ad aderire all’EVIS, l’esercito costituito dall’ala destra del partito separatista, che faceva capo alla nobiltà terriera di Palermo e Catania”(21).
“Sul piano politico Giuliano, come Vizzini, appoggiò in un primo tempo il separatismo e nel 1945 fu colonnello nell’esercito siciliano d’indipendenza; ma quando il separatismo non potè più garantirgli sussidi e protezione nelle alte sfere, si notò che nella sua zona di influenza i voti erano passati in misura significativa ai monarchici e poi, anche qui come nel caso di Vizzini, ai democristiani.”(22)
Nell’ambito di questi fatti storicamente accertati per Rosi e per i suoi collaboratori Suso Cecchi D’Amico, Enzo Provenzale e Franco Solinas diventava urgente indagare sui mandanti della strage di Portella della Ginestra che, come si ricorderà, fu compiuta dalla banda di Giuliano il 1° maggio 1947 allorchè gli uomini del fuorilegge spararono contro i lavoratori inermi e le loro famiglie riuniti per la celebrazione della festa del Lavoro, uccidendone 11, tra cui 2 bambini, e ferendone 2723. La strage, della quale Giuliano era un esecutore per così dire coatto essendo entrato in un gioco politico più alto e complesso dell’ordinaria vicenda banditesca, era una risposta alla grande vittoria delle sinistre nelle elezioni regionali dell’aprile di quell’anno, e alla conseguente approvazione della legge che fissava in 200 ettari il limite massimo consentito delle proprietà agrarie, decisa dal patronato siciliano e dai grandi feudatari, non potendo essi rimanere inerti di fronte al pericolo rappresentato dall’avanzata delle forze politiche democratiche, e all’attacco già avviato ai loro secolari privilegi. Il clima generale era arroventato, inoltre, da altri incombenti pericoli costituiti dal risorgente fascismo e dalle lotte separatiste in atto nell’isola. Quella descritta nel film è, dunque, una realtà tormentata, complessa, aggrovigliata, “…che si aggruma talora attorno ad un nome ribelle, ma va al di là dei
Giuliano, dei Pisciotta, dei Mannino per diventare tragedia di una società di cui non è facile districare il millenario groviglio imbastito da fenici, greci, romani, arabi, normanni, borbonici”(24), una realtà non facile da imbrigliare nei confini del documento cinematografico: ed infatti, chiudendosi sulle immagini di un altro delitto, “…il film tende così a prolungarsi oltre i limiti della sua stessa durata, nel vivo della società a cui rivolge il suo discorso” (Ferrero)(25).
Il merito principale di Rosi – oltre a quello di avere affrontato con coraggio una materia ancora scottante – “consiste nell’aver saputo svolgere, restando sempre addosso ai fatti ma senza cadere mai nel piatto documentarismo, una relazione, insieme globale e sintetica, su una vicenda particolarmente rivelatrice della questione meridionale, mettendone a fuoco i molteplici e interdipendenti nodi (le interessate connivenze tra banditismo-mafia-polizia-magistratura-potere politico locale e centrale; gli antagonismi di classe tra proprietari terrieri e contadini; l’occultamento del vero e la diffusione di menzogne per manipolare l’opinione pubblica), e stabilendo i nessi tra il passato e il presente per dimostrare che il primo ancora persiste nel secondo…”(26).
Confermando implicitamente l’opinione di Torri, Bruno sottolinea che “il racconto nasce dai fatti, è in terza persona, è antiletterario, sta dentro le cose, con una razionalità rigorosa: muove da un linguaggio preciso, cinematografico, legato all’uomo, a questa sua umanità fatta di istinto e di riflessione. ‘Salvatore Giuliano’ – conclude il critico – è la più bella pagina cinematografica di questi anni, e la dimostrazione che la strada maestra del cinema è sempre il realismo”(27).
Grazie alla sua impostazione “Salvatore Giuliano” offre un quadro nitido e per quanto possibile esauriente della realtà siciliana di quegli anni, cogliendo anche di essa, in rapidi cenni significativi, gli aspetti più inquietanti del sottosviluppo, della depressione e della barbarie sociali che intessevano il sostrato umano nel quale la mafia e il banditismo attecchirono. “Il coraggio del film sta nell’aver mostrato i ‘fatti’ più scabrosi e clamorosi, e in questo senso il regista va davvero fino in fondo, retto da quella sua indignazione civile.”(28) Nelle sequenze del processo di Viterbo “…tornano sullo schermo, in chiave interpretativa e critica, le velleità separatiste, le azioni banditesche, la miseria dei picciotti, i fatti mafiosi di costume, le collusioni politiche, con una logica interna di discorso che continua a provocare lo spettatore, a costringerlo a un impegno critico di fronte allo schermo”(29).
Non manca nel film il riferimento ai risvolti del ‘caso Giuliano’, alle sue ripercussioni in Parlamento, attraverso l’inserimento di ampie sequenze del materiale documentario riguardante le numerose interpellanze e le relative risposte del Ministro degli Interni. “Cinema storico allora, quello di Rosi? Si, nel senso di un cinema critico, che dalla storia prende le mosse per una interpretazione dei fatti; no, nel senso di un cinema documentario, che dalla storia vuol riprodurre l’apparenza fenomenica.”(30) Alla fine lo spettatore si ritrova in possesso di tutte le tessere necessarie per ricomporre in autonomia il mosaico della situazione sociopolitica nazionale di quel primo scorcio di vita repubblicana: da esso, per naturale scaturigine, si ricavano – come è stato notato – la debolezza delle istituzioni, il disgregarsi dell’autorità dello Stato e delle sue leggi, e della stessa concezione del parlamentarismo come prima espressione della democrazia, sotto l’urto di forze eversive che aspiravano ad assumere un ruolo di primo piano, e che nel prosieguo degli anni avrebbero ferito la civile convivenza con crimini a quel tempo inimmaginabili. Tutte queste componenti, sostenute e irrobustite dal linguaggio secco delle immagini e dalle appropriate tecniche figurative pensate dal regista31, fanno di “Salvatore Giuliano” il migliore film di Rosi e dell’intera produzione cinematografica degli anni ’60; e, ancora, uno dei più significativi incontri del cinema con la realtà siciliana. “…bellissimo, intenso film; mai la Sicilia era stata rappresentata nel cinema con così preciso realismo, con così minuziosa attenzione.
E ciò discendeva da un giusto giudizio – morale, ideologico, storico – sul caso Giuliano.”(32) Sia “Un uomo da bruciare” che “Salvatore Giuliano”, insieme a poche altre opere filmiche, sono la dimostrazione inequivocabile di come il cinema, quando si fa carico dei problemi della società civile con serietà professionale ed onestà di intenti, sappia utilizzare gli strumenti di cui dispone, rinnovandoli a seconda dei bisogni di volta in volta emergenti, e finalizzare il proprio interesse ad un servizio da rendere in primo luogo alla collettività siciliana e nazionale, favorendone la conoscenza critica della realtà effettuale, contrapponendo la propria documentata riflessione alla convinzione – altrove passivamente ribadita – che sia impossibile modificare quella realtà, all’acquiescenza di fronte ai problemi grandi e piccoli di ogni giorno, che per il loro stesso perdurare sempre identici sono diventati più gravi e talvolta irrisolvibili.
Alla domanda se ‘ha fiducia oggi nel cinema di denuncia sociale, nel cinema politico’, Rosi ha risposto così: “Io ho sempre avuto molta fiducia nella funzione del cinema come testimonianza sulla realtà che ci circonda, come mezzo per far riflettere, come stimolo e proposta: non per caso i miei film più direttamente sociali e politici hanno la forma dell’inchiesta, di una indagine aperta che pone domande allo spettatore. Negli anni del dopo la guerra, della ricostruzione e della speranza, ci siamo chiesti se il cinema non fosse l’arma più popolare ed efficace per coinvolgere gli spettatori e suscitarne la reattività”(33).

(1) “Come primo film – ricorderanno in seguito Paolo e Vittorio Taviani – pensavamo a un film autobiografico, su un personaggio che cercava di comprendere la realtà. L’incontro col personaggio storico di Salvatore Carnevale ci diede l’occasione di liberarci dai pericoli dell’autobiografia”, in De Poli, PAOLO E VITTORIO TAVIANI, Milano, Moizzi Editore, 1977
(2) Alla domanda sui motivi per i quali ha scelto di fare film nel Sud, Rosi ha ri- sposto. “Per necessità. Ho sempre avuto l’ambizione di raccontare il mio Paese: come avrei potuto farlo meglio che realizzando film nel Sud, come avrei potuto soffrire la condizione del ritardo meridionale e non viverlo nel mio mestiere che è quello della rappresentazione? Certo non ero il solo. (…) Per decenni il cinema italiano, drammatico o grottesco, è stato molto meridionaleggiante: De Sica, Germi, Scola, Petri, Damiani, Monicelli, altri… Magari anche perché il Sud si presentava più pittorescamente, ma soprattutto perché le situazioni limite erano lì, lì era tutto chiaro, tutto estremo: come se il Sud fosse il depositario della storia italiana su cui più si voleva riflettere e far riflettere”. Intervista a L. Tornabuoni, in “La Stampa”, 13 ottobre 1993
(3) Di Giammatteo, CINEMA PER UN ANNO, Padova, Marsilio, 1963
(4) Bruno, TENDENZE DEL CINEMA CONTEMPORANEO, Roma, Samo- nà & Savelli, 1965
(5) Bertarelli, “Il Giornale”, 8 aprile 2003
(6) in www.film.spettacolo.virgilio.it
(7) Bolzoni, “Rivista del Cinematografo”, marzo 1997
(8) Pantaleone, MAFIA E POLITICA, Torino, Einaudi, 1972
(9) Levi, LE PAROLE SONO PIETRE, Torino, Einaudi, 1955
(10) P. e V. Taviani, in De Poli, op. cit.
(11) De Poli, op. cit.
(12) “Il MORANDINI – Dizionario dei film”, in www.kataweb.it
(13) Pesce, CINEPROPOSTE, Brescia, La Scuola, 1978
(14) Mack Smith, STORIA DELLA SICILIA MEDIEVALE E MODERNA, Bari, Laterza” 1970
(15) Zambetti, FRANCESCO ROSI, Firenze, La Nuova Italia, 1976
(16) Pantaleone, op. cit.
(17) Zambetti, op. cit.
(18) Di Giammatteo, cit.
(19) Zambetti, op. cit.
(20) Zambetti, op. cit.
(21) Pantaleone, op. cit.
(22) Mack Smith, op. cit.
(23) “La vecchia credeva che fossero mortaretti e cominciò a battere le mani festosa. Rideva. Per una frazione di secondo continuò a ridere, allegra, dentro di sé, ma il suo sorriso si era già rattrappito in un ghigno di terrore. Un mulo cadde con il ventre all’aria. A una bambina, all’improvviso, la piccola mascella si arrossò di sangue. La polvere si levava a spruzzi come se il vento avesse preso a danzare. C’era gente che cadeva, in silenzio, e non si alzava più. Altri scappavano urlando, come impazziti. E scappavano, in preda al terrore, i cavalli, travolgendo uomini, donne, bambini. Poi si udì qualcosa che fischiava contro i massi. Qualcosa che strideva e fischiava. E ancora quel rumore di mortaretti. Un bambino cadde colpito alla spalla. Una donna, con il petto squarciato, era finita esanime sulla carcassa della sua cavalla sventrata. Il corpo di un uomo, dalla testa maciullata, cadde al suolo con il rumore di un sacco pieno di stracci. E poi quell’odore di polvere da sparo. La carneficina durò in tutto un paio di minuti. Alla fine la mitragliatrice tacque e un silenzio carico di paura piombò sulla piccola vallata. In lontananza il fiume Jato riprese a far udire il suo suono liquido e leggero. E le due alture gialle di ginestre, la Pizzuta e la Cumeta, apparvero tra la polvere come angeli custodi silenti e smarriti. Era il 1° maggio 1947 e a Portella della Ginestra si era appena compiuta la prima strage dell’Italia repubblicana.” “La strage di Portella della ginestra: l’infanzia delle trame”, in www.misteriditalia.com
(24) Pesce, op. cit.
(25) in Zambetti, op. cit.
(26) Torri, CINEMA ITALIANO: DALLA REALTÀ ALLE METAFORE, Palermo, Palumbo, 1973
(27) Bruno, op. cit.
(28) Baldelli, SOCIOLOGIA DEL CINEMA, Roma, Editori Riuniti, 1963
(29) Pesce, op. cit.
(30) Rondolino, “I nuovi registi italiani”, in Spinazzola (a cura di), FILM 1963, Milano, Feltrinelli, 1963
(31) “Io voglio che la fotografia abbia tre toni diversi: un tono evocativo per le vicende del passato, un tono da servizio fotografico per Castelvetrano, un tono addirittura cronistico, televisivo, per le scene del processo” (in Zambetti, op. cit.)
(32) Sciascia, “La Sicilia nel cinema”, in LA CORDA PAZZA, IV ed., Torino, Einaudi, 1970
(33) Intervista a L. Tornabuoni, in “La Stampa”, 13 ottobre 1993
http://62.77.39.126/ISN_icbalsamo_it/Upload/a6b7d2bb-7d20-4622-a40b-d67dd2392844.pdf

1 comentario:

  1. Esta sí que no la tenía ni registrada
    La primera época de los Taviani es muy poco accesible
    Lástima la falta de subtítulos, pero igual se podrá apreciar
    Muchas gracias por su generosidad, amigo Amarcord
    Abrazo

    ResponderEliminar