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jueves, 10 de octubre de 2013

Un Amleto di meno - Carmelo Bene (1973)


TITULO ORIGINAL Un Amleto di meno
AÑO 1972
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Inglés (Separados)
DURACION 64 min
DIRECCION Carmelo Bene
ARGUMENTO Jules Laforgue, William Shakespeare
GUION Carmelo Bene
FOTOGRAFIA Mario Masini
MONTAJE Mauro Contini
MUSICA (Coordinada por Carmelo Bene) Modest Musorgksij (Quadri di un’esposizione), Gioacchino Rossini (Ouvertures: "La gazza ladra", "Il turco in Italia", "L’italiana in Algeri"), Igor Fédoroyic Stravinskij (L’histoire du soldat), Richard Wagner (Tannhäuser)
ESCENOGRAFIA Carmelo Bene, los laberintos de Elsinore son de Alberto Paoli preparados por Vittorio Lazzari y realizados por la empresa "Gazebo"
REPARTO Carmelo Bene, Lydia Mancinelli (Kate), Alfiero Vincenti (Claudio), Pippo Tuminelli (Polonio), Franco Leo (Orazio), Luciana Cante (Gertrude), Isabella Russo (Ofelia), Luigi Mezzanotte (Laerte), Sergio Di Giulio (William)
FILMADO Cinecittà
PRODUCCION Anna Maria Papi per la Donatello Cinematografica
GENERO Drama / Comedia

SINOPSIS Dal racconto Amleto ovvero le conseguenze della pietà filiale che nel 1939 C. Granval trasse da Moralités imaginaires (1887) del poeta J. Laforge con J.-L. Barrault. Il principe di Danimarca è più preoccupato di affermarsi come autore drammatico a Parigi che di compiere la vendetta alla quale lo chiama il fastidioso fantasma del padre. Corteggia la prima attrice e fa dire il famoso monologo all'amico Orazio. Soprattutto grande teatrante, Bene ha rivisitato al cinema personaggi mitici rimessi in discussione come occasione per il proprio narcisismo. Colori squillanti, spesso stridenti tra loro, scenografie al limite del delirio figurativo. Esercizio di alta acrobazia stilistica e trasgressiva. (Il Morandini)
Subtítulos (Inglés)

Caratteristiche del film
Ciò che resta della versione shakespeariana sono senz'altro i nomi dei personaggi (Amleto, Orazio, Yorick, Ofelia, ... oppure nomi di luoghi, Elsinor, ...) che non svolgono però lo stesso ruolo che hanno nel teatro classico della rappresentazione (dal periodo elisabettiano fino al novecento). Anche alcune situazioni particolari restano superficialmente invariate, come l'assassinio del padre di Amleto, premeditato dalla regina a dallo zio Claudio, la morte di Ofelia, ecc., ma anche queste sono stravolte, oltre che dal mélange delle due versioni (Shakespeare e Jules Laforgue), anche da inserzioni indebite, come quella di Gozzano, oppure una scena ove appaiono i cavalieri della tavola rotonda; insomma c'è questa idiosincrasia temporale e immaginifica dove vediamo inoltre Laerte che si diverte a mettere a punto la sua pistola non proprio d'epoca e il suo coltellaccio serramanico.
Amleto è un tipo scaltro, tutt'altro che dedito al dovere filiale, o assillato dal dubbio o invischiato nelle responsabilità che gli competono. Allo stesso modo del Pinocchio beniano che non ne vuole sapere di crescere, Amleto non vuole questa parte, troppo seriosa, impegnativa, o chissà cosa, e la scantona; cerca invece il divertimento, magari insieme ai due sicari Rosenkrantz e Guildenstern (interpretati da figure che appaiono femminili), messi alle sue costole dallo zio Claudio, da cui cerca, in un modo o nell'altro, riuscendoci, di farsi cinicamente pagare il suo silenzio. Di questo suo comportamento Orazio è sdegnato oltremisura, costretto a leggere per di più dei fortuiti pezzi strappati dalle pagine del copione del dramma, che Amleto gli recapita puntualmente; sono le parti caratterizzanti il ruolo che ha Amleto nel dramma della rappresentazione classica, e che Orazio è costretto a leggere e dunque a recitare al posto di Amleto, rendendo quasi esilarante la situazione, come nel monologo dell' essere o non essere che suscita prima ilarità e poi il consueto sdegno in Orazio, che sotto la neve, speranzoso, in attesa di un districamento della situazione, si vede recapitato, gettato dalla finestra questa volta, il solito pezzettino di cartastraccia da leggere; all'"essere o non essere" da lontano, pensando già ad altro, ribatte cinicamente Amleto "avere o non avere, questo è il problema".
Polonio è un vecchio che istruisce chissà chi, bisbigliando in modo logorroico, la storia di Edipo e Giocasta, raffrontandola con le teorie freudiane, da vero intenditore, vestendo inconsistentemente e svestendo la regina.
A sconvolgere la possibile relazione con Ofelia è una figura laforguiana, e il monologo questa volta ad Amleto gli viene suggerito proprio dalla spregiudicata e forse non meno cinica Kate, vestitissima. L'intera commedia shakesperiana è praticamente sconvolta dalle fondamenta.
Anche i dialoghi appaiono piuttosto come monologhi. Le parti femminili in genere sono svolte da attrici abbastanza discinte, in modo tale che spesso le parti, sia drammatiche che comiche, a causa dell'inquadratura di certi dettagli scabrosi, perdono la loro valenza e il senso che avrebbero dovuto avere.
Con la morte di Amleto per mano di Laerte, vediamo Kate come sperduta, non avendo più ragione di esistere o di avere il suo ruolo, e così tutti gli altri personaggi, più o meno allo stesso modo, si tolgono o sono tolti di scena, ricondotti finalmente nei bauli di partenza, con tanto di etichetta: Paris Express. Tutti i personaggi spariscono così. Siamo alla fine. Avanzano a piedi soldati corazzati fin verso la figura del re il quale togliendosi la celata appare senza volto. Si riadagia dunque la corona sulla testa, lui che non è, in quanto assente, ma essendo lo spettro e la causa per cui si è svolto il dramma.
Il film inizia con una visione esplicita di sesso, della regina col re (con tanto di elmo sormontato da due grandi corna), con la voce fuori campo che ripete ossessiva "io sono l'anima di tuo padre", poi allo stesso modo le altre frasi, ugualmente ripetitive ed ossessive, "se mai mi amasti", "vendica il mio assassinio", "addio!". Il sesso, simboleggiato dal nudo più o meno integrale femminile, è una costante che si attua per l'intero film, che, come si è detto, fa perdere (diciamo così) o attenua abbastanza il risvolto drammatico, investendolo altrove, specialmente nella phoné, che comunque è sempre ecceduto.

Alcune delle "incongruenze" rispetto alla trama originale
• Lo spettro del padre ossessiona Amleto per una causa diversa da quella della trama originale. Amleto non vuole vivere con questo fantasma, poiché lo distrae dalla sua opera, dai suoi divertimenti e progetti, e tenta, in un modo o nell'altro di eliminarlo, di relegarlo nel dimenticatoio. Lo spettro però appare sovente sotto forma di un dipinto che ricorda Dalì, raffigurato con un elmo vichingo dal quale spuntano due enormi corna.
• Orazio è la coscienza, per così dire, che richiama Amleto al suo dovere filiale (sempre disatteso), o se vogliamo, al suo ruolo drammatico prescritto che gli compete, quasi fosse il tutore del testo a monte.
• Amleto da una gabbia prende uno delle bianche colombe in essa contenute e la stritola, lanciandola poi verso Ofelia, che si segna veloce. Amleto chiede scusa recitando il noto monologo laforghiano: Perdono, perdono, non l'ho fatto apposta. Ordinami qualsiasi espiazione. Ma sono così buono, ho un cuore d'oro e non ce n'è più come il mio. Tu mi capisci non è vero?... Ofelia vendicativa cerca con la mano di afferrargli le parti basse come per stritolargliele. Amleto si curva su se stesso accusando il colpo e prorompe: "tuo padre sta male per caso?...". Ofelia annuisce di no, al che Amleto esclama: "Peccato!..."
• Fra le croci del cimitero poste sulla battigia si aggira Amleto. Nell'acqua c'è una stampa che raffigura Ofelia distesa supina nello stagno che a quanto sembra dovrebbe corrispondere al dipinto preraffaelita di John Everett Millais. E qui Amleto fa il suo monologo laforguiano "... deve essere piena d'acqua come un otre; sporcaccioncella ripescata alla fogna... ecc."
• La classica scena del duello fra Amleto e Laerte (e i conseguenti avvelenamenti), viene evitata inaspettatamente quando Laerte, nel cimitero lungo la battigia, preso da un raptus di feroce rabbia, a causa delle risposte evasive, canzonatorie e insolenti di Amleto, gli sferra una pugnalata all'addome. Le ultime parole di Amleto morente, prima di accasciarsi al suolo, riecheggiano quelle di Nerone: "Qualis artifex pereo". Laerte pentito e tra le lacrime esclama "compagno!" e bacia sulla bocca l'ormai cadavere di Amleto.

Il non-senso
Le opere di Carmelo Bene, sia filmiche che teatrali, sono degenere, cioè non sono fruibili in modo tradizionale né come dramma, né come tragedia, né come commedia, poiché il senso specifico che li dovrebbe determinare viene smentito nel teatro stesso e nel suo attuarsi-disfarsi; si smarrisce il senso poiché si è nel porno (da non confondere con pornografia), ovvero nell' eccesso del desiderio. Il comico viene ecceduto, così come il tragico. C'è questo germe della risibilità nella tragedia, sospesa e mai risolta; e allo stesso modo vi è del tragico nella commedia. Non è un semplice melange, ma è un sottrarsi alla specificità dell'azione e del suo senso, sia essa o no drammatica, è un venir meno più che un mescolarsi. Lo stesso Carmelo Bene dice quasi con un filo di ironia: "ogni trovata è persa". Allo stesso modo ogni aggiunta è sottratta, ogni senso viene disatteso, ogni dramma viene scongiurato.
http://tntvillage.scambioetico.org/?showtopic=252863
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C’era una volta… Carmelo Bene: Un Amleto di meno
Un Amleto di meno di Carmelo Bene viene girato nel 1972 e presentato al Festival di Cannes l’anno successivo. I principali attori che accompagnano Bene in questa pellicola sono: Lydia Mancinelli, Alfiero Vincenti, Luigi Mezzanotte, Franco Leo, Pippo Tuminelli, Sergio Di Giulio, Isabella Russo e Luciana Cante. Questo film si inserisce in una numerosa serie di lavori che CB realizzò sull’Amleto, con produzioni che spaziano tra teatro, televisione, radio, registrazioni audio e, appunto, cinema. Lo stesso artista si definiva proprio per questa specifica prolificità un “Amleto del novecento”.
La sceneggiatura di Un Amleto di meno è composta da Bene stesso partendo dallo studio e dalla ripresa di diversi testi: l’Amleto di Shakespeare, Amleto, o le conseguenza della pietà filiale e Lamento dello sposo oltraggiato di Jules Laforgue, e infine una piccola parte della poesia di Gozzano intitolata La signorina Felicita ovvero la Felicità. Il soggetto non è la messa in scena dell’Amleto ma piuttosto la realizzazione di un saggio su questo personaggio. Questo modo di lavorare si spiega meglio facendo attenzione a un punto fondamentale in Laforgue, che Bene fa visceralmente suo: il principe di Danimarca è un artista, e per di più attore, che non riesce ad agire e a compiere ciò che gli è chiesto dalla storia; allo stesso modo nella poetica di Bene l’attore deve sempre lavorare sulla sospensione dell’agire e restare nell’impossibile per non cadere nella rappresentazione. Il titolo, allora, con questo di meno, sottolinea la non volontà di creare una nuova icona di Amleto, andando piuttosto a istituire un processo di scarnificazione e sottrazione sull’orlo dell’agire. Inoltre proprio parlando dei suoi Amleti in Opere con l’Autografia d’un ritratto, l’artista salentino definisce l’operetta del principe artistoide il refrain delle vite che ha vissuto.
La complessità di questo testo non mette di certo in secondo piano il montaggio e le immagini. Fra le più interessanti fra queste si va dalle onde del mare iniziali a uno spazio completamente bianco popolato dagli altri personaggi che sfoggiano costumi, pensati dallo stesso regista, davvero incredibili nei volumi e nei colori; molto interessanti poi dei troni che giochi di inquadrature fanno sembrare le gonne di alcuni personaggi femminili, finché sapienti movimenti della macchina da presa rivelano che in realtà le attrici sono nude dal bacino in giù, e che noi spettatori siamo stati vittime della fuga prospettica. Non manca certo la biblioteca colma di enormi pile di libri e, sicuramente, non si può non nominare il cimitero sulle rive del mare. Il montaggio è spesso serrato, donando al tutto un effetto disorientante e frastornato: alcune immagini procedono l’una di seguito all’altra senza raccordi, con zoom velocissimo, oppure passando dall’estremamente vicino al molto lontano con un unico stacco; ma anche cambi di punto di vista e di luogo si sussegono inesauribili, avendo come effetto la completa distruzione della storia amletica.
Non può mancare una considerazione finale sulla figura di Polonio, a cui è affidata una spassosa, quanto estremamente morbosa, parodia della lettura freudiana di Amleto.
Lasciamoci quindi cullare dalle onde del mare di questo Amleto di meno, fino alla prossimo appuntamento mensile che vedrà protagonista ciò che resta del principe di Danimarca in Hommelette for Hamlet.
http://www.cinemaerrante.it/2012/08/16/cera-una-volta-carmelo-bene-un-amleto-di-meno/


Un Amleto di meno viene girato nell’autunno del 1972 in 35mm con il sistema 2P (pellicola a doppia perforazione) in Techniscope e in Technicolor. Il prologo è in bianco e nero e, a eccezione degli esterni del "cimitero marino" è stato girato quasi interamente a Cinecittà in due teatri di posa: uno completamente bianco "foderato di pelle d’uovo, (...) e illuminato dall’alto a luce diffusa", l’altro completamente nero. La fotografia è di Masini, il montaggio di Contini. Il film è stato prodotto da Anna Maria Papi per la Donatello Cinematografica con il ricorso all’art. 28, ed è stato presentato in concorso al Festival di Cannes nel maggio 1973. L’Italnoleggio non ne ha consentito la distribuzione sino al 1974. Nell’opus di Bene Amleto è una sorta di "ipertesto", con le sue varianti e combinazioni di varianti. Bene stesso sostiene che "dall’Hamlet, Hommelette, all’ Hamlet Suite (...) l’operetta del principe artistoide è il refrain delle vite che ho svissuto. La frequentazione assidua, persecutoria del bell’argomento (cinque esecuzioni sceniche sempre cangianti – ’61,’67, ’74, ’87,’94 – (...) un film (’72), due diversissime edizioni televisive e registrazioni radiofoniche, audiocassette e compact-disc) mi "definisce" Amleto del novecento" (cit. C. Bene, Opere, 1995, p. 1351). Oltre alle varianti teatrali del 1961 al Teatro Laboratorio a Roma, del 1967 al Teatro Beat 72 a Roma, i fondamentali "pretesti" di riferimento sono: l’Amleto di Shakespeare; il racconto "Amleto, o le conseguenze della pietà filiale" (Moralità leggendarie) e il "Lamento dello sposo oltraggiato" (Les complaintes) di Jules Laforgue e infine un frammento di "La signorina Felicita ovvero la Felicità" (I colloqui) di Gozzano. L’Amleto inaugura il metateatro moderno, ma quella che nell’opera di Shakespeare è solo una virtualità, vale a dire l’esser artista di Amleto (al di là della simulazione della follia "ad arte", III, IV, si ricordi il discorso agli attori sull’arte drammatica II, II) si attualizza, compiendosi, con levità e ironia, nel racconto di Laforgue: Amleto è un artista. Ora, nella riscrittura dei "materiali" shakespeariani e laforguiani, talvolta montati in contrappunto, talaltra ibridati e soprattutto alterati, Bene introduce un’impasse. Amleto vede se stesso chiuso in un circuito d’impossibilità, "la propria vita fatta teatro e alienata nel teatro fatto fare agli attori". L’esitazione, l’incapacità "patologica" all’agire di Amleto diviene nell’opera filmica l’impossibilità di essere artista ovvero il suo delinquere (dal lat. delinquere "sottrarsi al dovere") in quanto artista (come accade al poeta di Capricci).
Un Amleto di meno diventa così un film sul metateatro o forse è il metateatro di un film che si colloca – in un non-luogo tutto cinematografico – tra due siti mentali: "Elsinore" e "Parigi". Amleto è l’autore-attore della suite di "opere" messe in scena dagli "attori" della troupe di Kate e William, di cui re Claudio è il produttore-impresario con intenti registici che proprio nella regia si sostituisce ad Amleto. Se nell’opera shakespeariana Amleto è il regista e nel racconto laforguiano è l’autore, nel film di Bene egli è autore-attore-spettatore. Un Amleto di meno attiva una serie di slittamenti di senso e si fa dispositivo di spostamenti del contenuto: il film non significa là dove ci si potrebbe aspettare, ma contro l’aspettativa spettatoriale spinge la propria significazione altrove.
Invece di cominciare con "il dovere di rammentare l’orrido evento" – evento che in Shakespeare è rivelato al giovane Amleto dallo Spettro del padre assassinato (I, V) – Un Amleto di meno comincia laddove il dovere di ricordare da parte di Amleto fils si sprogetta nell’immaginare e "forzare insieme", in un’allucinazione visiva e acustica, la "scena primaria" e "l’uccisione del padre". Un inserto mentale, in bianco e nero sgranato (quasi si trattasse di un’ interpolazione video) funge da incipit all’impossibilità ad agire di Amleto. L’inazione di Amleto già shakespeariana (presente anche nei "palintesti" Histoires tragiques di Francis de Belleforest e nell’originaria leggenda nordica delle Gesta Danorum di Saxo Grammaticus) diviene nel racconto di Laforgue impossibilità ad agire per onore e per pietà filiale, a seguito dell’"irregolare decesso" "in istato di peccato mortale" di Amleto père; Amleto fils può prendere l’orrido evento e la pietà filiale solo quali occasioni di argomenti per l’opera estetica: "Avevo cominciato con il dovere di rammentarmi l’orrido, orrido, orrido evento. Per esaltare in me la pietà filiale, per far gridare l’ultimo grido al sangue di mio padre, per riscaldarmi il piatto della vendetta.
Ed ecco invece ho preso gusto all’opera. Poco a poco mi scordai che si trattava di mio padre assassinato, di mia madre prostituita, del mio trono. Andavo avanti a braccetto con le finzioni di un bell’argomento: e l’argomento è bello".
Un "bell’argomento" che il film porta all’estremo del teatrale: vi si annuncia la sospensione del tragico. In un certo senso Un AmIeto di meno comincia laddove finisce l’Amleto di Laforgue, cioè quando Laerte – straripando fuori "dall’inesplicabile anonimato del suo destino" – pugnala il giovane principe non prima di avergli detto: "quando si finisce con la pazzia è segno che s’è cominciato con il cabotinage". Ed è appunto ciò che fa l’Amleto di Bene: fare di se stesso il proprio cabotin, un buffone che boicotta il "grande attore-autore" e che trasforma il tragico in ridicolo. L’ironia depotenzia e rende risibile qualsiasi tentativo di rappresentazione, qualsiasi azione scenica, qualsiasi azione, qualsiasi spettacolo. Amleto è la crisi dell’artifex, l’impasse dell’artista, ma soprattutto il paradosso dell’autore-attore della serie di "opere" messe in scena dal film (gli "Amleto" di Bene costituiscono i diversi siti testuali in cui si mostra la "perfetta fusione autore-attore").
(…) In Un Amleto di meno le "situazioni" sono anzitutto "attori" e i loro rapporti sono sempre "rapporti di scena". La "situazione" Amleto (Carmelo Bene) si presenta secondo alcuni tratti iconografici del racconto di Laforgue: "capelli castani che scendono a punto (...) e che ricadon giù lisci e fiacchi, spartiti da una pura e diritta scriminatura (...); maschera imberbe senza parer glabra, dal pallore un po’ artificiale ma giovanile... ".
La raffigurazione di Orazio (Franco Leo) consiste non tanto in ciò che resta della coscienza amletica, quanto nell’autoconoscenza teatrale tradita di e su Amleto: legge, suo malgrado, i monologhi shakespeariani che Amleto-Bene gli passa e, vestendosi di nero, ne assume il "rigore" (vestito di nero è anche l’Amleto laforguiano, ma per Bene quand’anche Amleto sia vestito di nero lo è per una "necessità di rigore, mai certamente un lutto per suo padre").
(…) Un Amleto di meno procede per sottrazione-addizione. Come ricorda Grande, la sottrazione, "l’uno di meno" è anche "il cominciamento di una erosione, il primo avanzo di una sottrazione e di un esaurimento’". Lerosione non intacca tanto il mito letterario o la tradizione culturale del testo letterario drammatico, quanto la "forma spettacolare" che s’incarica di attualizzarlo; e in tal senso laforguianamente, ebbene sì, "un Amleto di meno; ma la razza non s’è estinta, lo si sappia!". Il film si presenta sia come sperimentazione-anticipazione del "teatro senza spettacolo", sia come anticipazione dell’opera video.
(…) Il film opera uno spostamento di forme e linguaggi diversi; esso consiste nei continui slittamenti da una forma di espressione a un’altra che producono a loro volta alterazioni, mutazioni all’interno della forma cinematografica ospitante. La generazione di relazioni originali, idiolettali, fanno dei set una scena o-scena, investita dalla doppia modalità, di sguardo dell’a(u)ctor Bene contemporaneamente "al di là" e "al di qua" della m.d.p.; ma in Un AmIeto di meno l’essere contemporaneamente ‘fuori" e "dentro" la scena scarta di livello e preannuncia la simultaneità del "vedere" e del "vedersi visti" che è propria del linguaggio video. Nel cinema di Bene è l’immagine a essere presa tra voce, silenzio e parola. Il divenire delle immagini, con le loro proliferazioni, addensamenti e improvvise rarefazioni, produce figure che rilasciano sonorità, che richiedono l’ascolto. La successiva opera video trasporterà tutto ciò che accade in scena o in studio (set teatrale) dal visivo al sonoro, all’acustico, fuori dalla forma, fuori dal linguaggio.
Cosetta G. Saba, Carmelo Bene, Il castoro cinema
http://www.municipio.re.it/manifestazioni/ufficio_cinema/Archivio_schede/schede_tutte/Bene/AmletoDiMeno.htm

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