TITULO ORIGINAL Un giorno della vita
AÑO 2011
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 87 min.
DIRECCION Giuseppe Papasso
GUION Giuseppe Papasso
MUSICA Paolo Vivaldi
FOTOGRAFIA Ugo Menegatti
REPARTO Maria Grazia Cucinotta, Alessandro Haber, Pascal Zullino, Ernesto Mahieux, Mia Benedetta, Domenico Fortunato, Daniele Russo, Nando Irene, Massimo Sorrentino, Matteo Basso, Francesca D'Amico
PRODUCTORA GFC Production
GENERO Drama | Años 60
SINOPSIS Basilicata, 1964. Con catorce años Salvatore termina en un reformatorio por culpa de su pasión por el cine. Una pasión que hace que vaya cada día en bicicleta a un pueblo cercano junto a sus amigos para poder visitar una pequeña sala de cine. Un día, el anuncio de la venta de un viejo proyector de 16mm hace nacer en Salvatore la idea de crear un pequeño cine, pero el proyecto tiene un fallo: la falta absoluta de dinero. Salvatore compra el proyector sustrayendo de las cajas de la sección local del Partido Comunista el dinero recaudado por los militantes para enviar una delegación al funeral de Togliatti... (FILMAFFINITY)
Enlaces de descarga (Cortados con HJ Split)
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Nuovo Cinema Parrocchiale
Basilicata 1964. A dodici anni Salvatore finisce in riformatorio a causa della sua divorante passione per il cinema. Una passione che lo spinge a raggiungere ogni giorno in bicicletta, insieme agli amici Alessio e Caterina, il paese vicino al suo per poter assistere ai film di una saletta di terza visione. Salvatore deve poi affrontare quotidianamente l'ostilità di suo padre, un contadino comunista che vede come fumo negli occhi la passione del figlio. Un giorno, l'annuncio della vendita di un vecchio proiettore 16 mm fà nascere in Salvatore l'idea di creare un piccolo cinema. Il progetto però ha una falla: la mancanza assoluta di denaro. Salvatore acquista il proiettore sottraendo alle casse della locale sezione del Partito comunista i soldi raccolti tra i militanti per inviare una delegazione ai funerali di Togliatti. La felicità dei ragazzi dura poco: le faccende degli adulti, le beghe politiche del paese, andando a intrecciarsi con il loro ingenuo sogno, portano alla scoperta del furto di Salvatore... (sinossi)
Non si può dire di certo che gli 85 minuti - tanto dura Un giorno della vita, opera prima di Giuseppe Papasso che si getta nelle sale nostrane come un kamikaze nell’affollatissimo cartellone post-natalizio - volino via come una folata di vento. Il film del regista calabrese si trascina a fatica dal primo all’ultimo fotogramma, restituendo al pubblico di turno una visione altrettanto faticosa. Il risultato solleva dubbi legati ai temi quanto agli stilemi proposti ed utilizzati per portarlo sul grande schermo, demerito di una commistione di elementi drammaturgici e tecnici che assemblati non raggiungono minimamente i buoni propositi esternati dai suoi autori. Non basta il tono semplice della favola dal gusto retrò che avvolge il plot e le atmosfere (i paesaggi mozzafiato della lucania che fecero da sfondo al bellissimo Io non ho paura di Salvatores), infatti, ad evitare che la soporifera successione di minuti si faccia sentire con tutto il suo peso sulle fragili spalle degli spettatori. Se poi ci si mettono anche l’onnipresente e invasiva colonna sonora (praticamente impossibile scovare una sequenza che non vi si affidi, lasciando spazio di conseguenza al puro sound effect o ai dialoghi) e una certa punteggiatura di editing (vedi l’uso del ralenti) a rincarare la dose, enfatizzando in maniera fin troppo marcata il tutto (evitiamo di scomodare la soap opera anche se ce ne sarebbe bisogno), allora la barca e l’intero equipaggio a bordo non può che naufragare nel “mare” della mediocrità (compresi i personaggi eUn_giorno_della_vita_testo gli attori chiamati a interpretarli, con a capo la Cucinotta che ricopre per l’ennesima volta lo stesso ruolo). Da parte sua, Papasso contribuisce alla disfatta con una regia priva di spunti e iniziative tecnico-stilistiche, mettendo così in risalto tutti i limiti di un esordio dietro la macchina da presa nel lungometraggio di finzione dopo una lunga e prolifica carriera da documentarista.
Vero tallone d’Achille dell’opera è senza alcun dubbio lo script, fragile e strutturalmente di poco spessore, che si aggrappa con le unghie e con i denti ad una storia che non brilla certo per originalità. Bambini e cinematografo sono stati fin troppe volte associati e nella mente dello spettatore, quanto in quella dell’addetto ai lavori, il rimando al celebrato Nuovo Cinema Paradiso diventa inevitabile e scontato. Anche pellicole successive in tal senso hanno saputo fare di meglio rispetto a quello che è stato in grado offrire Papasso, basta pensare al pregevole Rosso come il cielo. Inutile tirare in ballo la questione dell’omaggio sentito e della citazione al capolavoro firmato da Tornatore nel 1988 (non è un caso che i protagonisti si chiamano entrambi Salvatore), poetica elegia sulla morte del cinema in sala dalle cadenze tipiche del melodramma popolare, perché si finisce in questo modo con il rendere ancora più inutile la genesi del progetto. Siamo in territori già ampiamente battuti e narrativamente logori, che non ha senso rispolverare se non si ha nelle mani uno scritto, dei personaggi e soprattutto una storia, che ne giustifichino quantomeno il tentativo. E non è sicuramente il caso di Un giorno della vita.
La nostalgia di ciò che è stato intreccia le sue “corde” temporali ed empatiche con fenomeni culturali, politici e di costume, che hanno segnato profondamente la nostra Storia (il 1964 è l’anno della scomparsa di Togliatti). Il cinema di quegli anni, al quale il film di Papasso prova in maniera sbiadita e poco entusiasmante a rendere omaggio chiamando a raccolta filmografie e interpreti dell’allora presente e passato (ma scomoda anche la letteratura di Giovanni Guareschi e dei suoi indimenticabili personaggi che hanno poi trovato spazio nella Settima Arte), ne è stato testimone e allo stesso tempo testimonianza, ma nemmeno questo basta a risollevare le sorti di un progetto del quale francamente non se ne sentiva affatto l’esigenza, specialmente dopo quello che è riuscito a combinare Gian Paolo Cugno nel pessimo La bella società.
Francesco Del Grosso
http://www.cineclandestino.it/it/film-in-sala/2011/un-giorno-della-vita.html
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Pur ambientato negli anni cruciali che vedono la massima espansione delle sale parrocchiali e la diffusione della televisione tra le classi meno agiate, l’omaggio al cinema di Papasso preferisce a qualsiasi riflessione sul ruolo del mezzo cinematografico o sul suo uso da parte della politica e della Chiesa la poesia forzata dei primi piani e una nostalgia sincera ma che finisce per risultare imposta
Basilicata, 1964. Il dodicenne Salvatore, rinchiuso in riformatorio per furto su richiesta del padre, un operaio comunista, racconta a un giornalista la propria storia. Non ha rubato una macchina da scrivere come Antoine Doinel (cui il regista dichiara di essersi ispirato), ma i soldi necessari per acquistare un proiettore: è la sua passione per Maciste e per Chaplin ad averlo spinto a sottrarre alle casse della sezione locale del PCI i risparmi faticosamente raccolti tra i militanti per inviare una delegazione ai funerali di Togliatti e a tradire la causa paterna tentando di avviare una sala cinematografica nella parrocchia dell’odiato sacerdote del paese. L’esordio del documentarista e saggista Giuseppe Papasso, che richiama quello truffautiano unicamente nel pretesto narrativo, pesca invece abbondantemente in un preciso immaginario cinematografico nostrano. Se la rievocazione della spaccatura ideologica e culturale di quegli anni attinge alle due maschere – Don Camillo e Peppone – che nella memoria popolare rimangono tre le incarnazioni più concrete e colorite delle due anime che hanno segnato un periodo cruciale della nostra storia, la rappresentazione di un mondo infantile incompreso dagli adulti, le amicizie tra coetanei e le corse in bici negli assolati paesaggi lucani rimandano alle atmosfere del Salvatores di Io non ho paura. Ma la favola sul cinema e su un mondo scomparso che Papasso ha l’ambizione di raccontare guarda dichiaratamente a Giuseppe Tornatore. A Nuovo cinema Paradiso, prima di tutto, che omaggia direttamente nel nome e nella passione cinefila del protagonista, vissuta come insostituibile evasione nel sogno e fruita in termini e modi (la censura, i fumosi cinema di provincia, le sale parrocchiali) completamente perduti. Tuttavia, sono forse gli echi di un’opera come Baarìa a risuonare più chiaramente nel film di Papasso: per il suo carattere di malinconico amarcord, accentuato dalle musiche ridondanti e dai toni fin troppo caldi della fotografia, e soprattutto per una visione (consapevole o meno) della Storia come luogo immobile, a cui si può guardare con rimpianto ma dove appare inutile rintracciare le radici del nostro presente. Pur ambientato negli anni cruciali che vedono la massima espansione delle sale parrocchiali e la diffusione della televisione tra le classi meno agiate, l’omaggio al cinema di Papasso preferisce a qualsiasi riflessione sul ruolo del mezzo cinematografico o sul suo uso da parte della politica e della Chiesa la poesia forzata dei primi piani e una nostalgia sincera ma che finisce per risultare imposta. Vorrebbe fare del protagonista, l’unico in grado, pur nella sua ingenuità, di attribuire al cinema un’importanza incomprensibile a chiunque lo circondi, il vero cuore “rivoluzionario” del film; eppure il sogno di Salvatore, annacquato nell’abbraccio riconciliatore di famiglia e istituzioni, non riesce a vibrare di vita autentica, ma ci arriva come una semplice cartolina su un mondo che non c’è più.
http://www.sentieriselvaggi.it/290/40147/%E2%80%9CUn_giorno_della_vita%E2%80%9D,_di_Giuseppe_Papasso.htm#sthash.62XyKtbp.dpuf
Basilicata, 1964. Il dodicenne Salvatore, rinchiuso in riformatorio per furto su richiesta del padre, un operaio comunista, racconta a un giornalista la propria storia. Non ha rubato una macchina da scrivere come Antoine Doinel (cui il regista dichiara di essersi ispirato), ma i soldi necessari per acquistare un proiettore: è la sua passione per Maciste e per Chaplin ad averlo spinto a sottrarre alle casse della sezione locale del PCI i risparmi faticosamente raccolti tra i militanti per inviare una delegazione ai funerali di Togliatti e a tradire la causa paterna tentando di avviare una sala cinematografica nella parrocchia dell’odiato sacerdote del paese. L’esordio del documentarista e saggista Giuseppe Papasso, che richiama quello truffautiano unicamente nel pretesto narrativo, pesca invece abbondantemente in un preciso immaginario cinematografico nostrano. Se la rievocazione della spaccatura ideologica e culturale di quegli anni attinge alle due maschere – Don Camillo e Peppone – che nella memoria popolare rimangono tre le incarnazioni più concrete e colorite delle due anime che hanno segnato un periodo cruciale della nostra storia, la rappresentazione di un mondo infantile incompreso dagli adulti, le amicizie tra coetanei e le corse in bici negli assolati paesaggi lucani rimandano alle atmosfere del Salvatores di Io non ho paura. Ma la favola sul cinema e su un mondo scomparso che Papasso ha l’ambizione di raccontare guarda dichiaratamente a Giuseppe Tornatore. A Nuovo cinema Paradiso, prima di tutto, che omaggia direttamente nel nome e nella passione cinefila del protagonista, vissuta come insostituibile evasione nel sogno e fruita in termini e modi (la censura, i fumosi cinema di provincia, le sale parrocchiali) completamente perduti. Tuttavia, sono forse gli echi di un’opera come Baarìa a risuonare più chiaramente nel film di Papasso: per il suo carattere di malinconico amarcord, accentuato dalle musiche ridondanti e dai toni fin troppo caldi della fotografia, e soprattutto per una visione (consapevole o meno) della Storia come luogo immobile, a cui si può guardare con rimpianto ma dove appare inutile rintracciare le radici del nostro presente. Pur ambientato negli anni cruciali che vedono la massima espansione delle sale parrocchiali e la diffusione della televisione tra le classi meno agiate, l’omaggio al cinema di Papasso preferisce a qualsiasi riflessione sul ruolo del mezzo cinematografico o sul suo uso da parte della politica e della Chiesa la poesia forzata dei primi piani e una nostalgia sincera ma che finisce per risultare imposta. Vorrebbe fare del protagonista, l’unico in grado, pur nella sua ingenuità, di attribuire al cinema un’importanza incomprensibile a chiunque lo circondi, il vero cuore “rivoluzionario” del film; eppure il sogno di Salvatore, annacquato nell’abbraccio riconciliatore di famiglia e istituzioni, non riesce a vibrare di vita autentica, ma ci arriva come una semplice cartolina su un mondo che non c’è più.
http://www.sentieriselvaggi.it/290/40147/%E2%80%9CUn_giorno_della_vita%E2%80%9D,_di_Giuseppe_Papasso.htm#sthash.62XyKtbp.dpuf
E' l'estate del 1964, quella di "Sei diventata nera", della morte dell'amatissimo leader del PCI Palmiro Togliatti a Yalta (e dei funerali romani cui partecipa un milione di persone), del primo topless e della diffusione nella penisola delle sale cinematografiche parrocchiali, i cosiddetti "pidocchietti". In un paesino lucano, Salvatore, 12 anni, subisce suo malgrado i tentativi del padre comunista di imporgli la militanza nel partito. In realtà a lui interessa soltanto una cosa: l'eterna macchina dei sogni, il cinema. Con due coetanei - il figlio di un benestante e la figlia di una donna che il paese guarda con riprovazione per i suoi comportamenti "scandalosi" - ogni giorno percorre 5 chilometri in bicicletta per raggiungere il cinema più vicino, dove si imbottisce di robuste dosi dei peplum con Maciste, antenato dei moderni supereroi. Quando in città arriva La dolce vita, il film di Fellini del 1960, preceduto dagli anatemi del clero e vietato ai minori di 18 anni, Salvatore riesce a intrufolarsi alla proiezione. Ma tanto amore per il mondo in celluloide gli riserva una brutta sorpresa: dopo i furtarelli per procurarsi i soldi per il biglietto, amorevolmente coperti dalla madre, quando scopre che un proiettore a 16 mm è in vendita a 150.000 lire, pensa di portarsi il cinema più vicino a casa, e per comprarlo ruba dalle casse del Partito i soldi destinati a ben altra "missione". Da lì iniziano i suoi guai, dai quali lo toglie, alla fine, una specie di angelo custode, un giornalista interessato a raccontare la storia.
La storia, le atmosfere, i volti di Un giorno della vita, raccontano un'Italia che chi è stato bambino negli anni Sessanta ancora ricorda. In un film ambientato in questo periodo sembra inevitabile la trasfigurazione della nostalgia, che lo dipinge come epoca felice, piena di oggetti di culto ed eternamente giovane. L'ottica con cui il regista Giuseppe Papasso confeziona questa sua opera prima, però, non è prevalentemente quella nostalgica. Anche se il filtro del suo racconto è quello della fiaba, il contesto in cui questa viene rappresentata è accurato e realistico. Si capisce così quanto fosse difficile, dura e piena di contrasti l'Italia dell'epoca, un paese diviso in schieramenti netti, in "Chiese" contrapposte, che ragionava spesso per dogmi e frasi fatte, ma aveva al tempo stesso ideali profondi capaci di mobilitare masse di persone. E' questo ritratto di un paese scomparso quello che abbiamo preferito nell'ennesimo film italiano indipendente e povero di soldi ma non di idee, cui auguriamo di sfuggire alla sorte dell'invisibilità toccata ad altri suoi confratelli. Ma non è il suo unico pregio: ci sono piaciute molto le facce vere dei suoi protagonisti, dal piccolo Matteo Basso al bravissimo Pascal Zullino che interpreta il padre, ai membri del Partito e alle donne, che sembrano riprendere corporeità uscendo dalle foto in bianco e nero sui giornali dell'epoca. Ci sono piaciute le interpretazioni di un cast di sconosciuti che si integrano alla perfezione coi volti noti di attori generosi come l'irresistibile Ernesto Mahieux nel ruolo del parroco alla Don Camillo, la "mammosa" Maria Grazia Cucinotta e il sempre affidabile Alessandro Haber. E non è nemmeno impresa da poco partire da modelli dichiarati, esplicitamente citati e noti come I quattrocento colpi di François Truffaut, l'opera di Giovanni Guareschi e il Nuovo cinema Paradiso di Tornatore, per stemperarli in una storia piccola, diversa e personale senza diventare per questo pretenziosa.
Per sgombrare il campo da eventuali equivoci, Un giorno della vita non è un capolavoro o un film senza difetti, ma sicuramente vederlo ci dà una sensazione di sollievo e il piacere di scoprire che esiste un'alternativa, anche da noi, alle grosse produzioni con i soliti quotatissimi e pagatissimi attori. Protagonista assoluto della vicenda, al di là dei personaggi, è il cinema, non solo nella sua veste di creatore di emozioni e miti, ma anche in quella "strumentale": il cinema serve al prete per riavvicinare alcune persone alla Chiesa e ai comunisti per rivivere un evento che sembrava perduto per sempre. E nel finale diventa anche potente mezzo di riconciliazione famigliare. Non può che farci piacere, in questo senso, che come trama dell'ordito dei nostri sogni di celluloide Papasso metta al fianco dei film d'autore i misconosciuti classici popolari che spesso rendevano possibile, col loro grande successo, la realizzazione delle opere dei grandi registi. Accanto al nome di Federico Fellini, per una volta, fa piacere insomma rivedere quello di Tanio Boccia. In fondo, tra l'esuberanza fisica di Anita Ekberg e la possanza fisica del Maciste di Kirk Morris, il pubblico di massa del boom economico non faceva tante distinzioni: l'immaginario cinematografico è fatto di molti volti, e ce n'è uno per i gusti di ciascuno di noi.
Daniela Catelli
http://www.comingsoon.it/News_Articoli/Recensioni/Page/?Key=4950
La storia, le atmosfere, i volti di Un giorno della vita, raccontano un'Italia che chi è stato bambino negli anni Sessanta ancora ricorda. In un film ambientato in questo periodo sembra inevitabile la trasfigurazione della nostalgia, che lo dipinge come epoca felice, piena di oggetti di culto ed eternamente giovane. L'ottica con cui il regista Giuseppe Papasso confeziona questa sua opera prima, però, non è prevalentemente quella nostalgica. Anche se il filtro del suo racconto è quello della fiaba, il contesto in cui questa viene rappresentata è accurato e realistico. Si capisce così quanto fosse difficile, dura e piena di contrasti l'Italia dell'epoca, un paese diviso in schieramenti netti, in "Chiese" contrapposte, che ragionava spesso per dogmi e frasi fatte, ma aveva al tempo stesso ideali profondi capaci di mobilitare masse di persone. E' questo ritratto di un paese scomparso quello che abbiamo preferito nell'ennesimo film italiano indipendente e povero di soldi ma non di idee, cui auguriamo di sfuggire alla sorte dell'invisibilità toccata ad altri suoi confratelli. Ma non è il suo unico pregio: ci sono piaciute molto le facce vere dei suoi protagonisti, dal piccolo Matteo Basso al bravissimo Pascal Zullino che interpreta il padre, ai membri del Partito e alle donne, che sembrano riprendere corporeità uscendo dalle foto in bianco e nero sui giornali dell'epoca. Ci sono piaciute le interpretazioni di un cast di sconosciuti che si integrano alla perfezione coi volti noti di attori generosi come l'irresistibile Ernesto Mahieux nel ruolo del parroco alla Don Camillo, la "mammosa" Maria Grazia Cucinotta e il sempre affidabile Alessandro Haber. E non è nemmeno impresa da poco partire da modelli dichiarati, esplicitamente citati e noti come I quattrocento colpi di François Truffaut, l'opera di Giovanni Guareschi e il Nuovo cinema Paradiso di Tornatore, per stemperarli in una storia piccola, diversa e personale senza diventare per questo pretenziosa.
Per sgombrare il campo da eventuali equivoci, Un giorno della vita non è un capolavoro o un film senza difetti, ma sicuramente vederlo ci dà una sensazione di sollievo e il piacere di scoprire che esiste un'alternativa, anche da noi, alle grosse produzioni con i soliti quotatissimi e pagatissimi attori. Protagonista assoluto della vicenda, al di là dei personaggi, è il cinema, non solo nella sua veste di creatore di emozioni e miti, ma anche in quella "strumentale": il cinema serve al prete per riavvicinare alcune persone alla Chiesa e ai comunisti per rivivere un evento che sembrava perduto per sempre. E nel finale diventa anche potente mezzo di riconciliazione famigliare. Non può che farci piacere, in questo senso, che come trama dell'ordito dei nostri sogni di celluloide Papasso metta al fianco dei film d'autore i misconosciuti classici popolari che spesso rendevano possibile, col loro grande successo, la realizzazione delle opere dei grandi registi. Accanto al nome di Federico Fellini, per una volta, fa piacere insomma rivedere quello di Tanio Boccia. In fondo, tra l'esuberanza fisica di Anita Ekberg e la possanza fisica del Maciste di Kirk Morris, il pubblico di massa del boom economico non faceva tante distinzioni: l'immaginario cinematografico è fatto di molti volti, e ce n'è uno per i gusti di ciascuno di noi.
Daniela Catelli
http://www.comingsoon.it/News_Articoli/Recensioni/Page/?Key=4950
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Felicidades por tu gran trabajo.
Paolo dal Messico
No se que pasó. Lo soluciono a la brevedad.
EliminarCambiados los enlaces.
EliminarTodo perfecto ahora. Gracias. Paolo
ResponderEliminarMuchas gracias por tu trabajo, podria alguien subir los subtitulos en español o ya de perdis ingles por favor
ResponderEliminarMuy agradadecido estare se ve muy buena la pelicula