TÍTULO ORIGINAL
Il brigante
AÑO
1961
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
143 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Renato Castellani
GUIÓN
Renato Castellani (Novela: Giuseppe Berto)
MÚSICA
Nino Rota
FOTOGRAFÍA
Armando Nannuzzi (B&W)
REPARTO
Francesco Seminario, Adelmo Di Fraia, Serena Vergano, Anna Filippini, Giovanni Basile, Mario Ierard, Filomena Scandale, Renato Terra, Francesco Mascario
PRODUCTORA
Cineriz, Rizzoli Film
GÉNERO
Drama
Premios
1961: Festival de Venecia: FIPRESCI
Il popolo calabrese alzò la testa
Ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto in Calabria alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il film racconta la storia di Nino, un ragazzino che assiste più o meno consapevolmente agli eventi tragici che scorrono davanti ai suoi occhi, a partire dall’apparizione di Michele Rende, l’unico suo paesano capace di agire controcorrente, fino alle estreme conseguenze… [sinossi]
Film su un popolo e sulle sue millenarie ed eterne sofferenze, ma anche film di massa e di complesse raffinatezze psicologiche, Il brigante di Renato Castellani – diretto tra il ’60 e il ’61 e ripresentato in questi giorni alla 29esima edizione del Cinema ritrovato nell’ambito dell’omaggio al cineasta ligure e in una versione di tre ore recuperata grazie al restauro della Cineteca Nazionale – è un melodramma storico che ambisce a costruirsi come grande racconto popolare. E che riesce magnificamente nel suo intento.
Castellani è un regista senz’altro da riscoprire – come del resto tantissima parte del nostro cinema del passato che non sia diretta filiazione dei grandi autori o di certa serie B -, troppo spesso ingiustamente collegato al neorealismo rosa per via di Due soldi di speranza (1952), che nulla aveva in comune con quel sottogenere ma ebbe l’unico torto di servire da modello per Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini. Si pensi soltanto a un film come Nella città l’inferno, robusto dramma carcerario tutto al femminile (con una gigantesca e gigioneggiante Anna Magnani), per intuire come questo regista seguisse un percorso ben preciso e assolutamente personale, in una linea che discendeva certamente dal neorealismo e che lo declinava soprattutto come approccio morale prima ancora che stilistico, sempre alla ricerca di realtà e vicende che fossero il più possibile in disparte.
Ne è per l’appunto un eccellente esempio Il brigante che è ambientato in Calabria e ha per protagonista il mondo contadino; due dimensioni/entità spesso trascurate dal nostro cinema. In particolare, la Calabria, recentemente rimessa in scena con Anime nere, è spesso stata negletta rispetto ad altre ben più codificabili realtà regionali. Si pensi solamente alla Sicilia e alla curiosa coincidenza del film di Francesco Rosi, Salvatore Giuliano, girato quasi in contemporanea con Il brigante. E con il suo stile innovativo, nervoso e documentaristico, che aggiornava per l’appunto le istanze neorealistiche, Rosi finì senz’altro per oscurare il il film di Castellani, che forse apparì all’epoca più tradizionale (e probabilmente lo era anche, ma solo perché vi si seguiva un’altra strada). Senza parlare poi delle questioni mitologiche: la vicenda del criminale siciliano è decisamente più nota e conosciuta di quella del “piccolo” brigante calabrese.
Anche Castellani, come Rosi, si ispira ad una storia realmente accaduta tra gli ultimi anni del fascismo, il periodo della guerra e quello immediatamente successivo. Ma, traendo spunto dal romanzo omonimo di Giuseppe Berto (edito nel 1951), quel che interessa al regista di Due soldi di speranza è la dimensione epica e romanzesca del racconto, visto che lavora con notevole capacità di narratore su come tenere desta l’empatia del pubblico nei confronti dei suoi protagonisti.
Non siamo poi troppo lontani da una dimensione melodrammatica alla Visconti, si pensi ad esempio a Rocco e i suoi fratelli o a tutta la funerea parte finale del film, che ricorda in parte la conclusione di Ossessione. Scevro però dall’intellettualismo viscontiano, Castellani impronta il suo racconto su un disvelamento che fa degli strumenti del romanzesco (a partire dalla letteraria voice over che racconta la vicenda) il grimaldello attraverso cui squadernare il reale, senza che al contempo vi siano possibili – ideologiche o meno – vie di fuga praticabili (manca, ovviamente, il personaggio di Ciro, che nel film di Visconti è la coscienza politica, colui che crede nel PCI). Non vi è insomma nessuna speranza nelle magnifiche e sorti progressive, se non una vaga redistribuzione delle terre per i braccianti che viene annunciata verso il finale, ma che appare solo come l’ennesima messa in scena operata dal potere per continuare a sfruttare i più poveri.
Molto forte è il punto di vista attraverso cui Castellani sceglie di mostrare la vicenda, quella di Nino, un ragazzino (i bambini vi/ci guardano, secondo tradizione neorealista), che assiste ai cambiamenti che avvengono davanti ai suoi occhi e che, in un modo o nell’altro, vi prende anche parte. Il suo eroe è Michele Rende, un giovane paesano incapace di accettare le regole non scritte dei baronati e dei proprietari terrieri. Ma Rende si oppone al potere non certo per via di una qualche convinzione ideologica, quanto piuttosto per un’istintiva tensione verso la libertà, tensione che riuscirà subito a trasmettere a Nino, il quale finirà naturalmente per confrontare questa figura eroica con quella, ben più debole, del padre. Siamo comunque ancora in una fase del racconto in cui dimora il fascismo e in cui Rende è completamente isolato. È solo dopo l’8 settembre che Rende sembra trovare la sua dimensione nel mondo. I compaesani scoprono il profumo della libertà e si arrischiano a occupare le terre, trascinati da questo novello Masaniello. Tutto fallirà, ovviamente, e allora il nostro eroe dovrà effettivamente conformarsi al titolo del film, cucendosi addosso il ruolo del “brigante”.
La parabola narrativa de Il brigante supera per certi aspetti il gattopardismo viscontiano: è vero che tutto cambia per restare uguale, ma quanto sangue lasciato per strada nel tentativo di cambiare davvero, quanta sofferenza rimossa e riposta in soffitta, dimenticata. La Storia distrugge quel che, come il temperamento di Michele Rende, può dare fastidio ai suoi immutabili ingranaggi e travia chi vuole ribellarsi al destino, finendo per farlo passare dalla parte del torto, in modo tale da poterlo più facilmente condannare.
Come capita raramente in questo tipo di racconti, in cui spesso prevale o lo sfondo o la storia dei singoli, Castellani trova un miracoloso equilibrio tra le due istanze. Lontano da tentazioni di film a tesi o da una qualche schematica volontà di denuncia, Il brigante tiene sempre vivo il suo sostrato politico facendolo emergere continuamente attraverso la carne e il sangue dei suoi personaggi, tutti indimenticabili: dall’appuntato dei carabinieri che, per troppa consapevolezza dell’umana sofferenza, viene alla fine allontanato dall’arma, al bracciante Pataro, che piace alle donne e ha due mogli e chissà quanti figli e che nella sua ingenua saggezza appare il personaggio più commovente del film, fino alla sorella del piccolo Nino che non può non finire per innamorarsi del brigante.
E tutto questo Castellani lo sostiene con una messa in scena geometrica e rigorosa, piena di invenzioni visive (il terriccio e la polvere che svolazzano sulla piazza del paese mentre emerge per la prima volta l’insondabile funzionamento del potere, sembrano anticipare di vent’anni le soluzioni visive di I cancelli del cielo di Cimino), dove ogni movimento di macchina – dai carrelli laterali a quelli in avanti – ha un suo senso e un suo valore simbolico; si pensi soltanto al magnifico carrello laterale che, nel pre-finale, precede Michele Rende e la sua donna braccati dalla polizia, un movimento che per il modo in cui è angolata la macchina da presa ci permette di vedere come i due stiano letteralmente fuggendo sul bordo del precipizio.
In chiusura, vien voglia di citare di nuovo Anime nere, con cui il film di Castellani ha in comune una sorta di repulisti finale, che viene messo in pratica a suon di proiettili. Ma, laddove in Anime nere questo passaggio è pesantemente ideologico e moralistico e non ha una vera giustificazione narrativa, in Il brigante è perfettamente connaturato al racconto e appare, a quel punto, come l’unica soluzione possibile per un uomo – e un popolo – che non ha più vie di fuga.
Dovremmo, insomma, ricominciare tutti quanti – critici, registi e sceneggiatori – a studiare per bene il nostro cinema del passato. C’è veramente tanto da imparare.
Alessandro Aniballi
https://quinlan.it/2015/07/04/il-brigante/
Critica
« ...Un'opera non completamente rettilinea, ma certamente coraggiosa e apprezzabile: il primo apprezzabile film contadino fatto in Italia... Michele e il sud, schiavo di un'ingiustizia antica che l'Italia unita non ha eliminato. E' la povertà...la lotta spesso disperata...spesso inutile che il sud ha dovuto sempre sostenere per la propria esistenza... ».
L. Micciche, l'Avanti ! 31/09/1961 ©
Voce agli Interpreti
« Moltissimi interni li abbiamo girati a Roma. La cosa più curiosa per me era quando aprivo una porta in Calabria dove c'era solo la parete, e poi a Cinecittà la aprivo di nuovo per entrare nella stanza che era stata costruita nel teatro di posa. All'inizio non capivo bene come era possibile, poi mi hanno spiegato che col montaggio sembrava di essere sempre nello stesso posto... ».
Francesco Seminario (nel film il piccolo Nino) intervistato da Giovanni Scarfò nel marzo 1990
Curiosità
Il film aveva una durata di tre ore e mezzo, ma, dopo il festival di Venezia, furono eliminate diverse sequenze.
Durante le riprese nella capitale il giovanissimo attore calabrese Francesco Seminario fu ospite nella residenza romana del regista ligure Castellani.
http://www.calabriainciak.it/2010/12/il-brigante-italia-1961.html
Muchas gracias
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