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miércoles, 7 de abril de 2021

Maria Zef - Vittorio Cottafavi (1981)

TÍTULO ORIGINAL
Maria Zef
AÑO
1981
IDIOMA
Italiano (dialecto friulano)
SUBTÍTULOS
Español (Separados) e Italiano (Incorporados)
DURACIÓN
123 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Vittorio Cottafavi
GUIÓN
Siro Angeli, Vittorio Cottafavi (Novela: Paola Drigo)
MÚSICA
Francesco Baseggio
FOTOGRAFÍA
Nando Forni
REPARTO
Siro Angeli, Anna Bellina, Renata Chiappino, Neda Meneghesso, Maurizio Scarsini
PRODUCTORA
Radiotelevisione Italiana (RAI), Sede Regionale per il Friuli
GÉNERO
Drama

Sinopsis
Historia de una campesina de quince años, María, quien baja desde la montaña junto a su madre y su hermana a inicios del verano con el fin de hacer algo de dinero para soportar el duro invierno que se avecina. Ellas viven en una cabaña cubierta de nieve en las montañas. El padre fue a probar fortuna a Norteamérica pero falleció. La madre, exhausta a causa del duro camino, está por morir... (FILMAFFINITY)
 
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Secondo il critico Luc Moullet è un film "fondamentale per la storia del cinema italiano". Secondo la storica Giuliana Muscio è un film "inesorabile e vitale". Un film duro e scomodo, senza dubbio coraggioso, che colpì dritto al cuore l’Italia del 1981 per poi conquistare, nel corso del tempo, lo status di “classico”… Stiamo ovviamente parlando di Maria Zef, il capolavoro di Vittorio Cottafavi...
Una serata speciale per un’opera speciale, icona del cinema friulano, tratta dal romanzo della scrittrice veneta Paola Drigo e rimasta bloccata per molti anni a causa del mancato rilascio del visto da parte del Ministero della Cultura. Cottafavi riuscì a realizzare il progetto di Maria Zef grazie alla nascita della terza rete Rai e alla sede del Friuli Venezia Giulia, che produsse il film. Protagonista, nei panni di Barbe Zef, il poeta, saggista e narratore originario di Cavazzo Carnico Siro Angeli, a cui il regista si era rivolto per la stesura dei dialoghi. Sono friulane anche le altre due principali interpreti, Renata Chiappino e la piccola Anna Bellina, la lingua e, con l’unica eccezione della stazione di Calalzo di Cadore, tutte le località delle riprese: Forni di Sopra, Paluzza, Enemonzo, Pavia di Udine, Villanova di San Daniele, San Odorico, Villaorba di Basiliano.

La trama è nota. Dopo la morte del padre emigrato negli Stati Uniti, Mariute, Rosute e la madre Catine si arrabattano per sopravvivere finché le due sorelle non si ritrovano sole a seguito della morte prematura della madre, invecchiata sotto al peso degli stenti e della fatica. Mariute e Rosute vengono affidate, dopo la breve permanenza presso un convento, allo zio Barbe Zef, interpretato dallo stesso sceneggiatore Siro Angeli: montanaro incattivito dalla miseria, ma non per questo incosciente della sua condizione, il valligiano le accoglie in una casa isolata dove condurranno una vita di sacrifici e privazioni. Una vita in cui la violenza risponderà alla violenza.
https://www.ilfriuli.it/articolo/spettacoli/maria-zef-icona-del-cinema-friulano/7/227537

Film a lungo maledetto, tratto da uno sfortunato romanzo di Paola Drigo del 1936, Maria Zef si prende la sua rivincita e, dopo una prima presentazione in versione restaurata alla Mostra del cinema di Venezia e un passaggio a FuoriOrario fortemente voluto da Enrico Ghezzi, viene riproposto a «I mille occhi». Non si tratta della stessa copia su cui hanno lavorato Teche Rai e Museo del cinema di Torino, proposta a Venezia, ma di un 35mm della RAI conservato alla Cineteca di Gemona. Il film, l’ultimo lavoro di Vittorio Cottafavi, fu proposto in tv (per la precisione Rai 3, allora fortemente identificata con la sua missione regionale) in due puntate nel 1981.

DAL ROMANZO AL FILM
Il romanzo porta la firma di un’autrice veneta, Paola Drigo, che in precedenza aveva scritto solo racconti (e che morì nel 1938, dopo aver inaspettatamente vinto con questo libro il premio Viareggio) ed è un raro esempio di verismo settentrionale. Già adattato per lo schermo, senza lasciare traccia, nel 1953 con il titolo di Condannata senza colpa, per la regia di Luigi Latini De Marchi, questo Maria Zef è stato girato «on location»in Carnia, interpretato da gente del luogo e da attori amatoriali, che recitano in friulano. I dialoghi scritti da Siro Angeli, poeta carnico che interpreta anche Barbe Zef, sono stati tradotti con didascalie in italiano per rendere intellegibile questa difficile lingua, disprezzata da Dante (secondo il quale i friulani «eruttan quel loro ce fastu»). L’asprezza del friulano in versione carnica – lingua non presente nel romanzo, che era stato scritto in epoca fascista, quando cioè la lingua doveva essere italianissima – ben si sposa con la durezza del racconto delle condizioni di vita dei montanari carnici, che si arrangiavano intagliando il legno, confezionando le ciabattine in velluto, oggetto del nuovo lusso pauperistico, oppure emigravano, per ritornare magari, con meno energie e meno sogni di quando erano partiti, come Barbe Zef, – il «cattivo» della vicenda.
Maria Zef ha una trama dura che Cottafavi racconta per sottrazione, scartando il melodramma in cui eccelleva per una presentazione realistica di luoghi, costumi ed eventi, con una precisa osservazione antropologica dei lavori artigianali, della preparazione del carbone, i balli e le musiche, i riti intorno al fogolar, che compete con L’albero degli zoccoli, uscito tre anni prima (ma il tono tragico, la lingua incomprensibile e la verità degli interpreti richiamano piuttosto La terra trema).

STORIE DI DONNE
D’estate tre donne trascinano per le campagne venete un carretto al quale sono appesi cucchiai e mestoli di legno, intagliati dai maschi di famiglia durante l’inverno e che vendono casa per casa. La madre è malata e Rosute, la figlia bambina, ancora spensierata; tutto è quindi sulle spalle di Mariute, una adolescente coscienziosa, costretta a crescere anzitempo. Quando la madre muore le ragazze vengono affidate alle suore, ma lo zio, Barbe Zef, le porta nella sua casetta isolata, sepolta nella neve d’inverno, ma circondata in estate dal verde brillante dell’erba di montagna. Barbe Zef impone alle ragazze un lavoro faticoso, ma concede a Mariute di partecipare a una cena dal ricco possidente del paese, che la fa ballare e le suggerisce l’unica via d’uscita per una donna carnica del tempo: andare a servizio. La ragazza invece rimane con lo zio, sperando di potersi riunire con la sorellina, ricoverata in ospedale, ma l’uomo, ubriaco, la violenta. Mariute scopre da una mammana che anche la madre aveva subito più volte violenza, e che la sorella è frutto proprio di questi stupri ripetuti, eppure resiste, in attesa del ritorno di Rosute. Quando lo zio vuole allontanarla per mandarla a servizio e portare invece a casa Rosute è costretta però a ricorrere alla violenza. Il film – destinato alla televisione – non indulge nella rappresentazione della violenza, perchè, come Hitchcock insegna, il fuoricampo è più terrorizzante del mostrare. Rabbia e ribellione covano sotto una rassegnazione radicata nel passato, una compassione verso i vinti, verso chi non ha alternative, priva però di segno cristiano.

INESORABILE E VITALE
Percorso da un fatalismo tragico ma profondamente vero – e di scuola verista – più vicino ai Malavoglia che alla denuncia sociale, il testo rifiuta infatti il cattolicesimo pietista, che le ragazze rifuggono e che Barbe Zef , la vigilia di Natale, drasticamente esclude: «Se il Signore è venuto al mondo, io non me ne sono accorto».
Inesorabile e vitale come il passaggio delle stagioni, il film usa il paesaggio per mettere i personaggi in rapporto con la natura, come il cerbiatto sgambettante nella neve, che Petoti, vivace cagnetto e unico gioco di Rosute, rincorre invano, o le civette con il loro verso inquietante, gli alberi dorati d’autunno, e il bosco tagliato, che evoca per noi la montagna violata dai tornado invernali di quest’anno.
Una miseria non solo materiale, ma anche morale, che punta il dito sulla durezza cui sono costrette queste donne, senza istruzione e senza vie d’uscita, se non andare a servizio di padroni che le vogliono a servizio completo. L’unico spazio aperto davanti a Mariute è il sentimento per Pieri, un ragazzo poco più vecchio di lei, che è partito per l’America, ma non dimentica di mandarle una cartolina. È con lui che la ragazza può camminare nei boschi, immaginando un futuro possibile, quanto improbabile, negli anni Trenta, come oggi: spopolamento delle montagne, condizione femminile, il bosco devastato.
Giuliana Muscio
https://ilmanifesto.it/maria-zef-donne-friulane-che-non-si-spezzano/

Tratto dal toccante romanzo di Paola Drigo, Maria Zef di Vittorio Cottafavi è un film molto bello, che andrebbe visto per capire a fondo certi aspetti dell'anima carnica e friulana, così come I Malavoglia di Verga ci introducono nel cuore dell'anima siciliana, o come L'albero degli zoccoli ci trasmette la fragranza del vecchio mondo contadino lombardo.
E ciò a dispetto del fatto che Carnici e Friulani, sia davanti al romanzi di Paola Drigo (vincitrice del Premio Viareggio nel 1937), sia di fronte al film di Cottafavi del 1981 (che aveva avuto un precedente con la pellicola del 1953 di Luigi De Marchi Condannata senza colpa), abbiano reagito, in un primo tempo, in maniera decisamente negativa, come se avessero visto la loro terra ridotta allo stereotipo dell'alcolismo e dell'incesto.
Strano destino, per un film che Cottafavi - con intelligenze e coraggiosa intuizione - volle parlato interamente in friulano, con i sottotitoli in italiano; ma, in fondo, lo stesso destino che era già toccato a un altro bellissimo film dedicato alla terra friulana, alla sua aspra solitudine e alla sua pudica malinconia: Gli ultimi di Vito Pandolfi e David Maria Turoldo, del quale ci siamo già altra volta occupati.
Decantata, con il tempo, la prima, istintiva reazione difensiva, alla fine anche i Friulani si sono accorti che né il romanzo, né il film sono diretti contro la loro civiltà; ma che, anzi, costituiscono una preziosa chiave di lettura per comprendere un certo aspetto di essa, peraltro legato a particolari circostanze storiche e geografiche.
Il mondo della Carnia, alla fine dell'Ottocento e ancora ai primi del Novecento, era un mondo indubbiamente arcaico e affascinante, ma anche attraversato da terribili tensioni sociali - ancorché poco evidenti, perché mai gridate e sbandierate - legate alla sua condizione di area depressa. Un mondo aspro e isolato che, se la penna di Giosué Carducci poteva rappresentare con gli stilemi classicheggianti della fiaba didascalica (ne Il Comune ristico), era, in effetti, talmente povero ed emarginato, da divenire terreno di studio psichiatrico per medici e scienziati di robusta fede positivista, come avvenne nel caso delle cosiddette indemoniate di Verzegnis (cfr. F. Lamendola, Le indemoniate di Verzegnis del 1878-79: un caso che sfida la «scienza psichiatrica», consultabile sul sito di Arianna Editrice). Un mondo così povero e dimenticato, da offrire, alla popolazione, che non era in grado di sostentare, la sola alternativa dell'emigrazione, mentre interi paesi delle valli più isolate venivano abbandonati e diventavano dei villaggi fantasma (cfr. F. Lamendola, Una pagina al giorno:  Così muore un paese, di Alcide Paolini, sempre sul sito di Arianna).
Ma quello di Paola Drigo è un gran bel libro, e quello di Cottafavi un gran bel film (prodotto da Rai Tre e mandato in onda in due puntate); l'uno e l'altro avrebbero meritato un successo ben maggiore di quello che hanno avuto, per ragioni contingenti: il primo perché «stroncato» dallo scoppio della seconda guerra mondiale; il secondo, perché annegato nel gran mare consumistico della produzione cinematografica più banalmente volgare.

Eppure, secondo il Morandini,

Cottafavi ha messo la storia di Mariute e Rosute in immagini chiare e distinte di classica trasparenza sotto il segno di una profonda e controllata compassione.

Mentre, per il Mereghetti,

Ambientato agli inizi del secolo, [il film è] un ritratto aspro e sofferto di una povera famiglia carnica devastata dalle piaghe della miseria e dell'incesto, che Cottafavi - al suo ultimo film - racconta giocando sul contrasto tra la sensualità del paesaggio (ripreso nelle varie stagioni dell'anno) e la rassegnata sopportazione di chi sa di non poter cambiare vita («se il Signore è venuto al mondo», dice Barbe la notte di Natale, «io non me ne sono accorto»).

La trama della vicenda è presto detta.
Dopo la morte della madre,  la quindicennne Mariute (Marietta) e la piccola Rosute (Rosetta) vengono dapprima ospitate in un convento di suore, poi accolte nella baita dello zio, Barbe Zef, il quale, mentre la sorellina è ricoverata in ospedale, abusa di Mariute.
Per l'uomo, dedito anche al vizio del bere, specialmente nelle lunghe sere d'inverno, quando la baita è quasi isolata dal resto del mondo, si tratta di un fatto che fa parte delle cose che accadono e che non si devono drammatizzare, perché - in qualche maniera - sfuggono al controllo degli uomini e dipendono dal destino (una sorta di «naturalizzazione dei fenomeni sociali», così come è presente nel Verismo di Giovanni Verga).
La tragedia aleggia lungamente su quella povera umanità avvilita e offesa, immersa in una miseria che non è solo materiale, ma anche morale; interrotta, qua e là, da alcuni momenti di effimera dolcezza, quasi di idillio, che sottolineano il cupo torreggiare del dramma imminente.
Tra questi momenti di pausa, vale la pena di sottolineare il breve idillio fra Mariute e il giovane Pieri, che, per un attimo, sembra schiudere una prospettiva di felicità, o, almeno, di un'esistenza serena per la ragazza carnica; e la presenza affettuosa degli animali, a cominciare dal cane Petòti, che è stato paragonato ad uno spirito benigno sempre presente.
Mariute, però - che, a partire da quella notte fatale, deve subire regolarmente la violenza sessuale dello zio, sforzandosi almeno di preservare l'innocenza della sorellina, ritornata alla baita -  finisce per scoprire che le stesse violenze, prima di lei, le aveva già subite sua madre, e che esse erano all'origine della sua morte; e, a quel punto, sente crescere in sé un sordo desiderio di ribellione, che esploderà ella capisce quando lo zio, ben presto, metterà gli occhi anche su Rosute. Afferrata una scure, ucciderà Ballora arbe Zef per difendere la sorellina e, forse, anche per vendicare lo spirito di sua mamma, andando incontro all'inevitabile castigo della legge.
Eppure, la nota dominante della vicenda, sia nel romanzo che nel film di Cottafavi, non è data dall'odio o dal rancore di  Mariute, ma da un intenso, struggente sentimento di pietà per questi «vinti», e anche di pietà di essi stessi per la propria sorte, che pure accettano con sconsolata rassegnazione. La giovane Mariute, in particolare, pur così maltrattata dalla vita, non odia nessuno nel vero senso del termine, neppure lo zio che la violenta sistematicamente, perché comprende che anch'egli, in fondo, non è che un povero disgraziato, uno straccio d'uomo travolto dalla solitudine, dall'ignoranza e dal vizio del bere. E, quasi certamente, non arriverebbe mai a compiere il gesto estremo contro di lui, se non si trovasse, alla fine, a dover fare i conti con una prospettiva intollerabile: quella di vedere la sorellina degradata allo stesso modo in cui lo è stata lei stessa e, prima di lei, la loro madre.
Mariute sa di non avere alternative, anche perché, a causa di una malattia, sta per lasciare la baita, e sa che la sorellina rimarrà sola con lo zio. Lo zio? Ma è proprio suo zio, o non piuttosto suo padre? Un pensiero che le dà le vertigini assale Mariute, la sconvolge: la somiglianza fisica di Rosute con Barbe Zef; il fatto che ella era nata quando il marito della mamma era lontano. Di colpo, tutto diventa chiaro: Rosute è la figlia di Barbe Zef; e, se lui vorrà abusarne, incattivito dal vino e dalla solitudine - come certamente, una volta o l'altra, avverrà nella baita isolata sui monti dalla neve alta -, la violenza sarà due volte peggiore: sarà un incesto del padre con la figlia.
No, a questo pensiero tutto l'essere di Mariute si ribella, fremendo; ed ella trova il coraggio disperato di por fine, con la violenza, a quella catena di continue violenze.

Riportiamo la scena finale del romanzo di Paola Drigo Maria Zef (Garzanti Editore, Milano, 1982, pp. 189-193):

Dopo avergli apprestato la cena, ella passò nella stanza da letto e cominciò a tirar fuori la sua roba.
Il suo corredo non consisteva che in un altro casacchino e in un'altra gonna del tutto simili a quelli che aveva indosso, e appena appena un po' meno logori. In più possedeva il vestitino da lutto che le signore dell'ospizio le avevano regalato prima della partenza.
Per scendere a Belluno avrebbe potuto mettere quello; ma quale biancheria avrebbe portato, se non aveva che due camicie tutte toppe e rammendi, che facevan vergogna?
Sulla roba di sua madre non c'era da contare: di buono non c'era che lo scialle: il rimanente era costituito da cenci ancora più lisi dei suoi.
Aperse nondimeno il cassone, ed uno per uno prese in mano, guardò e spiegò anche quei poveri panni. Avevano la rigidezza, il colore e l'odore che hanno i vestiti dei morti; ed ella li prendeva, li osservava lungamente, li posava, li riprendeva di nuovo…
In realtà non si rendeva conto ella stessa dei suoi movimenti, non pensava affatto a quello che faceva; da qualche ora era completamente fuori di sé. Sapeva soltanto che se all'improvviso le avessero annunciato che sua sorella era morta, avrebbe provato minore angoscia. Tutto il suo essere urlava, spasimava: «Rosùte no! Rosùte no!».
Ad un tratto, in un angolo del cassone le sue mani urtarono nella bottiglia di grappa che il giorno stesso del loro ritorno alla baita dopo la sosta all'ospizio aveva scoperto nel pagliericcio del letto e, avvolta in un cencio, aveva nascosto in mezzo alle sue robe. La prese e la guardò: era quasi a metà piena ancora di grappa.
Pochi mesi dal giorno in cui aveva trovato e nascosto quella bottiglia!…Pochi mesi, ed un tempo e uno spazio infiniti…Benché allora avesse perduto da così poco sua madre, quanto, quanto, allora, era meno infelice di oggi! Poteva ancora sperare, credere, avere fiducia… Allora non era malata; allora aveva Rosùte!
Il pensiero della sorella le trafisse nuovamente il cuore come una pugnalata.  L'indomani a quell'ora la piccola sarebbe stata sola alla baita con Barbe Zef…Avrebbe molto sofferto e pianto in principio, senza di lei; poi, le settimane, i mesi, sarebbero passati, e si sarebbe abituata… Finché un giorno sarebbe venuto - ella ne era certa! - come era venuto per la mâri, come era venuto per lei… Un giorno…
Ma… Rosùte di chi era figlia?… di chi? Quando era nata, il vero marito della loro madre, Gaspari Zef, non era più con loro… ma la donna della Malga Varmòst aveva parlato soltanto di maternità soffocate, soppresse… Perché non l'aveva interrogata? Perché non aveva osato affrontare la verità fino in fondo?… Ma certo Rosùte gli assomigliava; aveva la sua pelle lentigginosa, i suoi capelli rossi… Come mai non l'aveva notato prima? Come mai non se n'era accorta? Sì, sì, Rosùte era il ritratto parlante di Barbe Zef!…
Il dubbio, che non per la prima volta in quei giorni le si affacciava, come un aspide la morse nuovamente e atrocemente… Se fosse!…
Si sentì allora così profondamente agitata da non reggersi in piedi; e colle mani si compresse il cuore, ché le pareva che i suoi battiti si potessero udire al di là della parete.
Passò così qualche tempo. Frattanto Barbe Zef stava ungendo le scarpe e preparando le racchette per la traversata di domani.
Quando ella rientrò in cucina, era pallidissima ma tranquilla e, tenendo la bottiglia tra le mani, andò direttamente a lui e gliela posò davanti.
«Che è?» fece egli. «Grappa? Dov'era? E quando l'hai trovata?».
«Nel pagliericcio del letto, In questo momento», mentì Mariutine.
L'uomo, presa la bottiglia, la riconobbe, la stappò, l'annusò. La tentazione era forte, ma la paura lo rendeva sospettoso.
«E tu, non ne berresti un dito?», chiese guardando fissamente Mariutine.
«Se me lo date», rispose ella.
Egli le stese la bottiglia perché vi attaccasse la bocca, ma a metà strada cambiò pensiero.
«Prendi una scodella», le disse.
Mariutine obbedì, ed egli stesso le versò la grappa.  Ella bevve la grappa fino all'ultima goccia, e gli restituì la scodella vuota. Completamente rassicurato, egli colla mano la respinse, attaccò la bocca alla bottiglia e ne tracannò un buon sorso.
«Basta», disse, riposandola sulla tavola. «Non si beve, alla vigilia del giorno in cui si deve camminare. E tu, va' a dormire».
Ella lo lasciò solo; accostò l'uscio senza chiuderlo, si tolse le scarpe, e scalza, al buio, addossata alla parete, rimase.
Di tratto in tratto si appressava senza rumore alla fessura dell'uscio e spiava di là. Vedeva con angoscia l'uomo sempre allo stesso posto, davanti alla bottiglia che a poco a poco, malgrado i proponimenti, andava vuotandosi, ma sempre sveglio, sempre padrone di sé, sempre con gli occhi aperti. Le ore passavano, l'alba forse non era lontana, l'ora di lasciare la baita, l'ora di partire…
Finalmente egli cominciò a parlottare da solo, a borbottare, a raccontarsi delle lunghe storie sconclusionate… Ella seguì coll'orecchio lo spostarsi della panca, i passi incerti, lo scricchiolare del pagliericcio su cui si distendeva. E poco dopo un russare profondo.
Ad occhi sbarrati, livida,  lasciò passare ancora del tempo e del tempo. Dalla cucina  sempre lo stesso regolare respiro… ore, minuti, secondi?…
Una strana calma era discesa su di lei. Bisognava anzitutto che Petòti non abbaiasse. Ma Petòti per lei non avrebbe abbaiato.
Allora, adagio adagio, evitando perfino di spostare l'aria intorno a sé, con movimenti cauti e meditati, più strisciando che camminando, ella allargò lo spiraglio dell'uscio e sgusciò dentro nella cucina.
Egli aveva spento la lucernetta, ma sul focolare alcuni tizzoni ancor vivi  mandavano guizzi di luce.
Nella penombra egli era là… Si distingueva bene il suo corpo sul pagliericcio di foglie secche su cui era disteso…
La colpì l'odore di quel corpo. Non l'aveva mai prima notato: odore di stracci bagnati, di legno fracido, di tabacco e di lupo.
Egli era là… Inerme, annientato, in potere di lei che lo guardava, che lo spiava…
Come gridavano, quella notte, le civette del Bosco Tagliato!…
Una improvvisa pietà di sé, di lui, della vita, del comune destino, la fece vacillare sulle ginocchia, indietreggiare tremando verso l'uscio da cui era entrata. Pietà di quell'essere che era là per terra, e dalla nascita alla morte era stato anch'esso un mendico, un misero; nato forse senza perfidia, ma che povertà, promiscuità, solitudine, privazione assoluta di tutto ciò che può addolcire ed elevare la vita, avevano abbrutito e travolto. Tranne l'ubbriarcarsi e l'accoppiarsi con qualche femmina, che altro aveva avuto quel meschino nella sua vita?… Null'altro, null'altro al mondo, che faticare e patire… Ed ora…
Ma s'irrigidì contro la sua debolezza. Rosùte!…
«Rosùte no! Rosùte no! Rosùte no!».
La cucina era così piccola che le bastò, senza muoversi, tendere il braccio, la mano, per afferrare la scure che era buttata sopra un mucchio di legna nell'angolo del focolare.
Ella l'afferrò e l'alzò quanto più alto poté.
La lama lampeggiò nell'ombra.
Mirò  al collo, e vibrò il colpo.


Non un grido: solo un fiotto di sangue

Il film Maria Zef è stato girato fra Udine,  Forni di Sopra e Arta Terme, avvalendosi, per la sceneggiatura,  della collaborazione del poeta carnico Siro Angeli, che ha interpretato anche, con sobria intensità,  la parte di Barbe Zef.
Gli altri interpreti sono Renata Chiappino (nel ruolo della giovane protagonista, Mariute), Anna Bellina (sua sorella Rosute), Neda Meneghesso (la madre); e, inoltre, Maurizio Scarsini, Cesare Bovenzi, Italo Tavoschi, Natalia Chiarandini, Alessandra Nonni.

Paola Bianchetti Drigo è nata a Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso, nel 1876m ed è morta a Padova nel 1938.
Formatasi nell'ambiente culturale del Verismo, era giunta al romanzo proprio con Mria Zef, apparso nel 1936; in precedenza aveva pubblicato alcune raccolte di novelle, fra le quali ricordiamo La fortuna, del 1913; Codino, del 1918; e La signorina Anna, del 1932.
Senza dubbio Maria Zef è la sua prova migliore; il celebre critico letterario Pietro Pancrazi scrisse di quel romanzo che «certamente non scolorisce di fronte alle cose più forti della Serao o della Deledda».
A torto, come abbiamo accennato all'inizio, qualcuno ha volto vedervi una denigrazione della società carnica; piuttosto, la cifra per comprendere questo gioiello nascosto della letteratura tardo-verista italiana è un profondo sentimento di pietà per «gli ultimi» di un mondo alpino abbandonato a sé stesso; un grido d'aiuto lanciato all'intera società civile.

Vittorio Cottafavi è nato a Modena nel 1914 e morto a Roma nel 1998.
Aveva esordito come sceneggiatore, poi diresse una serie di film per il grande schermo, tra i quali Una donna ha ucciso (1952), Nel gorgo del peccato (1954), Le legioni di Cleopatra (1959), Ercole alla conquista di Atlantide (1961) e, infine, quello che si proponeva l'obiettivo più ambizioso, I cento cavalieri (1964): ossia di dare sostanza culturale al genere eroico-avventuroso.
Il clamoroso fallimento di quel tentativo spinse Cottafavi a passare definitivamente alla televisione, per la quale diresse una lunga serie di sceneggiati popolari e, al tempo stesso, eccellentemente curati sotto l'aspetto tecnico e formale. È impossibile ricordarli tutti (sono più di cinquanta); tra i più importanti, ricordiamo Sette piccole croci (1957), da Simenon; Casa di bambola, da Ibsen, e Umiliati e offesi, da Dostojevskij (entrambi del 1958); Le notti bianche, ancora da Dostojevskij;  (1962); Lo zoo di vetro (1963), da T. Williams; Vita di Dante (1965); I racconti di padre Brown (1970), da Chesterton; A come Andromeda (1972), da F. Hoyle.

Maria Zef è un piccolo capolavoro sia nella versione letteraria, sia in quella cinematografica.  Entrambe meriterebbero di essere conosciute di più dal pubblico italiano e internazionale, e apprezzate al loro giusto valore.
Che la giusta chiave di lettura del film, oltre che del romanzo, sia  il sentimento della compassione, ce lo dice lo stesso regista, Vittorio Cottafavi (cit. In Aldo Grasso, Storia della televisione italiana, garzanti Editore, Milano, 1992, p. 391):

In Maria Zef al di là del giudizio si vuol chiedere la pietà che, unica, ci porta alla completa comprensione… Una ragazza, una bambina, un giovanotto, uno zio, un cane sono sufficienti affinché un brandello della verità del mondo ci proponga l'interrogativo: al quale forse non sappiamo dare una risposta se non attraverso il sentimento. E la pietà.
http://www.cjargne.it/mariazef.htm 


 

1 comentario:

  1. Impresionante subida de esta película.
    Con El arbol de los zuecos, son dos obras de arte.
    Qué cine dios mío!
    Gracias por este regalo

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