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miércoles, 14 de abril de 2021

Segreti di Stato - Paolo Benvenuti (2003)

TÍTULO ORIGINAL
Segreti di stato
AÑO
2003
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
85 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Paolo Benvenuti
GUIÓN
Paola Baroni, Paolo Benvenuti, Mario Cereghino
FOTOGRAFÍA
Gianni Marras
REPARTO
Antonio Catania, David Coco, Sergio Graziani, Aldo Puglisi, Francesco Guzzo
PRODUCTORA
Fandango Produzione, Ministero per i Beni e le Attività Culturali
GÉNERO
Drama

Sinopsis
1951. Mientras se juzgan a los miembros de una banda de maleantes por la masacre de Portella della Ginestra en Sicilia, que provocó la muerte de 11 personas en mayo de 1947, un abogado, poco convencido por las conclusiones de la investigación oficial, dirige la suya. (FILMAFFINITY)

Premios
2003: Festival de Venecia: Nominada al León de Oro

2 

In una delle molte interviste che il regista Paolo Benvenuti ha rilasciato in passato a proposito del proprio cinema non riconciliato sosteneva che ogni film non solo viene fatto esclusivamente per un pubblico in particolare, ma soprattutto per un pubblico composto da persone intelligenti; di conseguenza qualsiasi sia la vicenda narrata, il taglio delle immagini, il montaggio, i dialoghi, persino il modo di parlare e muoversi degli attori, questi devono essere severamente contestualizzati in funzione del periodo che si vuole raccontare. Di qui la scelta di un particolare linguaggio visivo, del ritmo filmico, del taglio delle inquadrature, di tutta una sintassi cinematografica che muta e si adagia ogni volta nelle pieghe del racconto narrato, adattandosi ora al Tradimento che rese realtà storica il cristianesimo, ora alla condanna a morte di due ebrei romani nella Roma postconciliare, oppure alla morte di un brigante maremmano del XIX secolo, e infine al martirio di una presunta strega nella Toscana di fine Cinquecento. Tenendo ben presente il cammino professionale del regista dal 1988 ad oggi, mi chiedo quindi cosa sia cambiato, se qualcosa è cambiato, con questo suo ultimo lavoro, Segreti di Stato, presentato in concorso alla 60° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Dell’argomento trattato dal film se ne è già parlato fin troppo nei quotidiani, commettendo il banale errore di trattare di Cinema come se ci si occupasse di scrittura/riscrittura storica o peggio ancora di politica. Il soggetto e l’occasione del film si riassumono in poche parole: semplicemente è un tentativo di ricostruire i mandanti e la "regia" della strage di Portella della Ginestra, avvenuta il 1° Maggio 1947, riportando alla luce elementi storicamente provati e stranamente trascurati dalla "versione ufficiale" (quella stessa versione che in parte Francesco Rosi aveva presentato nel suo Salvatore Giuliano), servendosi della documentazione rigorosamente consultata presso gli archivi dell’OSS di Washington, degli atti relativi alla strage pubblicati dalla Commissione Parlamentare Antimafia e delle testimonianze raccolte da Danilo Dolci su Portella e sulla banda di Giuliano.
Il tema trattato certamente fa onore al regista, ben fondato com’è nella ricerca storica, onestamente depurato da qualsiasi ostentazione del tragico (la strage non viene mai mostrata ma solo rappresentata nel laboratorio del perito criminologo) evitando in questo modo le lusinghe del finto reportage e collocandosi nella tradizione - ormai da chiamarsi tale dopo trent’anni di cinema - maieutica di un cinema che, servendosi di modi di rappresentazione indiretta (il plastico di Portella, i disegni di Ugolini, ecc.), cerca di provocare riflessioni più che mostrare gli eventi. E tutto il film gioca continuamente a farsi quasi rappresentazione di una rappresentazione, incominciando da una delle primissime scene dove un operatore mette in moto una macchina di proiezione e lancia in questo modo un semplice indizio alla spettatore ricordandogli che quello che sta vedendo non è la "verità" ma una ricostruzione. E allora ecco la tenda aprirsi sul modellino cartonato di Portella della Ginestra, ecco le luci accendersi su quel teatro di balze cartonate e spilli e subito dopo ecco altre luci accendersi altrettanto improvvisamente nell’aula di Tribunale di Viterbo, quasi a dire che anche le scene più realistiche, più simili al reportage non ci devono ingannare, perché ci troviamo di fronte ad una ricostruzione non diretta ed assolutamente antinaturalistica, dove l’aspetto teatrale inerente al processo viene esaltato mescolando con ironia scelte estetiche e verità storiche (infatti la sentenza venne letta alle 22.30 e i giudici avevano fatto venire da Roma i riflettori per illuminare a giorno l’aula a beneficio dei mass media del tempo). Così la morte di Giuliano ci verrà raccontata nelle primissime scene del film attraverso un documentario totalmente falso realizzato all’epoca con intenti realistici dagli stessi carabinieri; oppure la fine di Pisciotta ci verrà mostrata in un gioco di specchi Hitchockiani. Si potrebbe continuare a lungo passando in rassegna scena per scena questo film di Benvenuti con la sensazione, famigliare a chi conosce il suo cinema, che tutto ciò che viene inquadrato è tale per un preciso motivo etico prima ancora che drammaturgico. E famigliari sono molte altre scelte estetiche, come la cura nel taglio delle inquadrature, la scelta del 4/3, il montaggio lento, il suono in presa diretta, la fotografia curatissima, anche se dai colori così inaspettatamente luminosi e trasparenti come nemmeno in Tiburzi si possono ritrovare, o i rimandi al patrimonio figurativo di maggior peso per l’epoca in cui avvenne la strage di Portella, ovvero il cinema americano degli anni ‘50.
Segreti di Stato potrebbe definirsi un grande giallo storico (tanto che all’inizio i due sceneggiatori avevano pensato alla figura di un investigatore al posto di quella dell’Avvocato interpretato da Antonio Catania), un film corale come mai nessun film di Benvenuti è stato fino ad ora, un film che, per la prima volta nel cinema di quest’autore, narra una vicenda molto vicina ai giorni nostri e la narra non più a un pubblico particolare, ma a tutti gli italiani, sempre restando fermo il presupposto ideale di potersi rivolgere solo ad un pubblico intelligente e curioso. Eppure dopo un’ ora e mezza scarsa di buon cinema, questa vicenda del nostro passato, raccontata così semplicemente, mi è parsa forse un po’ troppo semplice.
La sensazione, dopo due visioni e qualche settimana di ripensamenti a tempo perso, è quella di avere visto un film rigorosamente ricostruito, nobile negli intenti sì, e curato anche nelle immagini, ma un po’ debole nella sceneggiatura, quasi didattico, un po’ troppo basso nei toni. Danilo Dolci, alla cui memoria è dedicato il film, prossimo alla sua morte aveva chiesto a Benvenuti di realizzare "Un film semplice, alla portata di tutti. Gli italiani devono sapere che Portella della Ginestra è la chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica. Le regole della politica italiana di questo mezzo secolo sono state scritte con il sangue delle vittime di quella strage."
Io non sono sicura di capire il senso nascosto dietro la definizione "alla portata di tutti". E non so se questo film è davvero tale, come non so quale sia il prezzo da pagare per realizzare un film "semplice…ma per un pubblico intelligente". Però rispetto ai suoi film precedenti manca quella rabbia costruttiva che rendeva appassionante anche una vicenda raccontata in toscano cinquecentesco; manca la forza di un’indignazione che si è misteriosamente spenta per motivi che non credo siano legati all’età o a una improvvisa maturità intellettuale. Forse si tratta solo di trovare un nuovo equilibrio, una potenzialità espressiva nuova perché pensata da due volontà diverse e ugualmente forti, uno stile narrativo altro che deve essere necessariamente cercato se Paola Baroni, in Segreti di Stato co-sceneggiatrice e aiuto regista, continuerà a lavorare a fianco del marito.
http://www-9.unipv.it/cinema/spazio/recensioni/segretistato.htm

Segreti di Stato, del regista P. Benvenuti, focalizza attraverso il processo alla banda di Salvatore Giuliano, svolto a Viterbo nel 1951, un'indagine sistematica sui fatti avvenuti nella storica strage di Portella della Ginestra, in provincia di Palermo. Un avvocato conduce tra colloqui, riflessioni e interpretazioni sulla base di materiali di ricerca documetaria, una decodificazione delle verità storiche inconfessate, tra documenti secretati, e libere deposizioni, una ricostruzione dinamica del drammatico evento profandamente diversa dalle dichiarazioni ufficiali.

“Vorrei mostrarle come in Sicilia si giochi la storia d’Italia”

Segreti di Stato è un'opera cinematografica del regista Paolo Benvenuti ( Puccini e la fanciulla, Confortorio, Gostanza da Libbiano, Il bacio di Giuda ) nata da un incontro rivelatore e viscerale in termini di ricerca  giornalistica che inquadra storicamente  una delle prime stragi eseguite all'alba dell'Italia Repubblicana: la strage di Portella della Ginestra, avvenuta il primo maggio del 1947. Il commando guidato dal bandito Salvatore Giuliano fece fuoco su un corteo di duemila persone mentre celebravano la festa dei lavoratori, in provincia di Palermo. Nella strage morirono 11 persone e altre 27 rimasero gravemente ferite. Questo fatto fu inizialmente considerato dal ministro dell'Interno Mario Scelba  un episodio dai significati endemici alla propria realtà locale, ma le indagini nei mesi successivi misero in luce la cause legate ad elementi reazionari in comunione con la realtà mafiosa del posto, in quanto lo stesso Salvatore Giuliano  era già colonnello della struttura clandestina paramilitare dell'Evis. Si susseguirono numerosi attentati contro le sedi partitiche del PCI e in diversi comuni siciliani, sollecitati da un volantinaggio che persuadeva a una ribellione verso il comunismo, a detta degli inquirenti, compiuti dallo stesso nome sospetto della medesima strage. Prime interpretazioni sulle finalità di questa drammatica vicenda osservarono nel primo obiettivo un'intimidazione verso la sinistra siciliana con il conseguente scoraggiamento dei suoi sostenitori, l'alleanza dei comunisti e dei socialisti portò alle elezioni regionali di quello stesso anno a un superamento schiacciante della Democrazia Cristiana, con la conseguente possibilità di una sua tangibile presenza al Governo. Il tempo, le indagini storiche, le successive rivelazioni condussero verso una ricostruzione più inquietante con il consolidamento fisico di un'ipotesi non considerata prima: un attacco  realizzato con la complicità di membri delle istituzioni che lo rendeva di fatto la " Prima strage di Stato". L'opera cinematografica nasce da un incontro umano e artistico tra il regista Paolo Benvenuti  e il sociologo, poeta e attivista della nonviolenza italiana, Danilo Dolci, avvenuto nel 1996, un anno prima della sua dipartita. Dolci mise a conoscenza il regista di questa storica strage. Il sociologo portò avanti per anni indagini e ricerche sistematiche legate a questa vicenda  dopo un periodo di detenzione avvenuto con l'accusa di sedizione per aver capeggiato uno sciopero "alla rovescia" ( consisteva in attività lavorative condotte da persone con problemi di disoccupazione, che nel caso specifico riattivò pacificamente una strada comunale abbandonata da tempo) nel 1956 , in favore di contadini in condizioni di indigenza sensibile, e per aver partecipando alla riparazione di una vecchia "trazzera" dissestata. La detenzione lo mise in contatto diretto con gli uomini della stessa banda di Salvatore Giuliano, detenuti anch'essi nel carcere dell'Ucciardone di Palermo nel quale era stato tradotto. Il materiale delle interviste  raccolto dalla testimonianza per voce dei banditi fu l'inizio di una lunga indagine condotta poi successivamente con i suoi collaboratori su tutto il territorio siciliano. Materiale raccolto e conservato che mise a disposizione del regista Benvenuti nel suo Centro Studi a Partinico, documenti archiviati con la dicitura "Portella della Ginestra - testimonianze". Una collaborazione iniziale di decodificazione dei documenti per il regista scevro di conoscenza non solo del fatto, ma della tragedia nel suo contesto  storico, iniziando dalla biografia di Salvatore Giuliano, della Sicilia del dopoguerra, del Separatismo, delle lotte contadine, del banditismo, etc. Il regista si ritrova osservatore di una realtà storica  che inizia a diramare le sue verità sui legami celati e inconfessati tra la criminalità organizzata ed elementi costitutivi delle stesse istituzioni e della politica italiana,  una scenografia che vede le prime luci della Repubblica in connessione con il banditismo più efferato. Dolci scelse il regista Benvenuti perché dichiarò che la sua maniera di fare cinema era maieutico “ produceva cioè un vero parto del pensiero” con conseguente opera di coinvolgimento, e per partecipazione diretta, che riprendeva filosoficamente tali teorie, con una discesa fisica del regista nel contatto rivolto alle fonti storiografiche dei fatti prima, interpretativi , in termini registici,  poi. L'intenzione è quella di condurre lo spettatore entro la trama affilata e complessa, nonché oscura, di questa vicenda per riabilitare aspetti della sua verità storica, demolendo anni di oscurantismo  e omissione storiografica non dichiarata. Dolci si lasciò promettere che il film doveva muoversi lungo il registro della semplicità e comprensione comune, perché “Le regole della politica italiana di questo mezzo secolo sono state scritte con il sangue delle vittime di quella strage”. Una penetrante ricostruzione cinematografica dei fatti sviluppa gli ambienti carcerari in luoghi in cui isolare i protagonisti per dialoghi di svelamento crescente, scena dopo scena, in una struttura teatrale dove aprire gli ambienti, atto per atto, in maniera consequenziale e limitata negli aspetti fisici delle strutture, muovendo la sensazione di accerchiamento senza possibilità di fuga connessa alle rivelazioni durante le libere deposizioni e negli spazi processuali. Si generano interrogatori per canali visivi e comunicativi dove lo spettatore è coinvolto in una ripresa spesso oggettiva, per inquadrature strette su suoi personaggi, in particolare sul protagonista Pisciotta,  interpretato da un magistrale David Coco ( L’uomo di Vetro, L’ultimo dei Corleonesi, Giovanni Falcone)  durante i suoi colloqui dissigillanti le verità del fatto. Il regista costruisce l'apparato narrativo sulla base delle dichiarazioni di Pisciotta, entro confidenziali comunicazioni con l'avvocato (Antonio Catania), in colloqui che aprono visioni orizzontali entro inquadrature ritrattistiche sublimando gli sguardi e la gestualità del protagonista, volto iconografico di una tradizionale bellezza di quelle terre, con la carnagione saracena e i suoi sguardi penetranti e le inquietudini per natura date dal suo passato storico. La direzione della fotografia (Giovanni Battista Marras) è un’estensione tangibile della vicenda e le sue psicologie comunicanti per  contrasti chiaroscurali negli spazi e per  declinazioni verso cromie coloristiche quasi assenti, un rapporto assopito e cupo comunicante tra ambienti e persone, tra abiti e cose, avvolti come la natura di questa vicenda da un insoluto storico che penetra vivi e morti in una luttuosa moria dei colori,  una luce naturale spezzata da questo medium delle atmosfere sospese. I dettagli narrati sono spesso ritagliati come uno storyboard disegnato a matita, non per immaginazione creativa assoluta, come prevede la sua identità comunicativa, ma una lieve contraddizione significante, per non essere la rappresentazione della verità stessa, ma una rappresentazione della realtà che, contrariamente, con l'uso di attori avrebbe creato un equivoco, con la presunzione di proporre certezze assolute mediante ricostruzioni cinematografiche. Ricostruzioni proposte diversamente allo spettatore come un documento per immagini imprimibili nella memoria, scalzando l'elaborazione di innumerevoli fascicoli documentati rimasti secretati in parte ancora oggi (documenti originali sono stati utilizzati durate le riprese di alcune scene del film). Forme alternative di messa in scena, come l'analisi della vicenda sui movimenti del plastico di quel luogo, le sigarette di Cacaova, le carte allineate nella ricostruzione logica dei fatti e la loro fragilità di dispersione, sino agli oggetti dello stesso professore (Sergio Graziani). La metafora del vulcano è utilizzata per indicare un percorso dissestato per depistaggi e dichiarazioni fallaci, per  la complessità del percorso verso la cima, celante per natura stessa del magma che si consegna in evoluzione a una possibile esplosione, al fuoco, ai lapilli, una deflagrazione naturale delle verità e dei fatti che discendono, fluttuando a terra, con le sue vittime. Questa è la struttura portante dell'opera cinematografica di B., senza nessuna pretesa di realismo, ma sviluppando sensibilmente il profilo riflessivo e di ricostruzione dei fatti, per stazioni di un itinerario logico, per mostrare una ricostruzione alternativa della vicenda. Ogni personaggio, in un movimento corale, è atto ad essere elemento funzionale per mantenere viva e costante il percorso consequenziale delle sue domande e risposte, per dichiarare espressamente l'inclinazione del film, un film sull'interpretazione e sul pensiero, generando una discussione intima dentro lo spettatore e la capacità critica di demolire alcune certezze acquisite in questo tempo, e sulla vicenda.
Alessandra P.
http://www.storiadeifilm.it/drammatico/drammatico/paolo_benvenuti-segreti_di_stato(fandango-2003).html

Come è nato il film Segreti di Stato, racconta il regista Paolo Benvenuti

La mia storia inizia nel ’68 quando a 22 anni, mentre insegnavo educazione artistica in una scuola media, ho cominciato a occuparmi di cinema. Vedevo i ragazzini vittime di brutti programmi televisivi e di pessimi film e decisi che sarebbe stato utile far conoscere loro il linguaggio cinematografico. Così presi ad insegnare ai ragazzi i metodi per riconoscere e difendersi da immagini diseducative. Poi, anni dopo – siamo nell’’83 – pensai di fare lo stesso anche con gli adulti ma, mentre fare cinema con i bambini era una esperienza veramente divertente, con gli adulti trovavo grosse difficoltà: il mio modo di insegnare creava tra gli adulti una strana conflittualità: alcuni di loro si trasformavano in una sorta di cloni del sottoscritto mentre altri si arroccavano in polemiche opposizioni.
Con questa mia difficoltà pedagogica inizia la seconda parte della storia, datata 10 settembre 1996. Era la prima volta che mi recavo a Palermo, due miei film erano stati invitati al festival cinematografico “Palermo di scena”. Dopo la proiezione de Il bacio di Giuda, una spettatrice dichiarò: “Questo film piacerebbe molto a Danilo Dolci!”. Negli anni ’60 avevo sentito parlare di questo personaggio scomodo, delle sue battaglie e dei suoi famosi scioperi della fame, così dissi alla ragazza che, se lei lo conosceva, avrei avuto molto piacere incontrarlo.
Detto fatto! L’indomani, giunti a Tappeto, rimanemmo con Dolci tutta la giornata. Alla fine, questo gigante dagli occhi azzurri e profondi, nel congedarmi mi prese la mano tra le sue e disse: “Perché non vieni a lavorare con me?” Ero spiazzato, confuso, ma dopo un istante accettavo l’invito senza alcuna remora: “Va bene – gli dissi – vado a Pisa, chiudo casa e torno.”
Danilo mi offriva l’occasione di risolvere il mio quesito. Avevamo discusso tutto il giorno di problemi pedagogici e avevo capito che quest’uomo aveva veramente molte cose da insegnarmi e volevo conoscere il suo metodo. Gli avevo esposto le difficoltà che, come insegnante, trovavo con gli adulti. “Il problema – mi disse – è che ti ostini a voler fare l’insegnante. Non devi fare l’insegnante, devi fare l’educatore. L’insegnante pensa che i suoi allievi siano serbatoi vuoti da riempire, da “inseminare”. L’educatore fa esattamente il contrario: parte dal presupposto che ogni persona, bambino o adulto che sia, possiede dentro di sé una ricchezza sconosciuta. Bisogna solo tirargliela fuori.” – “E come si fa?” – chiesi. “Con la maieutica; partecipa ai miei seminari e lo scoprirai da solo”.
Trasferitomi in Sicilia volli subito mettermi al lavoro. Gli dissi che io insegnavo cinema e volevo capire come insegnarlo utilizzando la maieutica. “Cinema!? Non mi parlare di cinema, non lo sopporto! Né il cinema, né la televisione!” – “Ma perché? I mezzi di comunicazione di massa sono importanti…” Mi fulminò con un’occhiata: “Non usare quel termine – disse – la comunicazione di massa non esiste, è un imbroglio! La parola comunicazione è usata impropriamente per indicare mezzi diabolici come il cinema e la televisione! Sai che significa la parola comunicare?  Viene dal latino cum-munus, e vuol dire: mettere insieme i doni, creare cioè delle relazioni, degli scambi tra le persone. Secondo te, tra lo schermo cinematografico e il pubblico si crea comunicazione o si stabiliscono processi di trasmissione unidirezionale?”
Non ci avevo mai pensato, ma era vero: lo spettatore non può interagire con un film, lo può solo subire. Che avessi sbagliato a dedicare la mia vita al cinema? Raccontai a Danilo di come realizzavo i miei film e lui, incuriosito, volle vederli. In principio pareva un po’ scettico, ma dopo aver seguito in religioso silenzio Il bacio di Giuda mi disse: “E’ trasmissivo e unidirezionale come tutti i film, ma ha una sua particolarità: è maieutico, cioè produce il parto del pensiero. Obbligando lo spettatore a pensare, a usare la propria mente, lo costringe a riflettere su ciò che accade sullo schermo.” Allora, preso coraggio, gli mostrai anche “Confortorio”. Questo film gli piacque ancora più dell’altro. Disse: “Ha una grande forza, un forte impatto visivo e costringe gli spettatori a riflettere sui temi che tratta.”
Quando seppe che per realizzarli avevo affrontato anni di ricerche, disse: “Secondo me dovresti fare un film su Portella della Ginestra.” – “Portella che!?” – risposi. Allora mi portò con la sua auto in cima alla montagna – quel giorno a Portella c’era un tempo terribile. “Questo è il sasso Barbato, – indicò – dal nome dell’oratore socialista che nell’‘800, durante i fasci siciliani, invitava i contadini alla lotta. Qui, Salvatore Giuliano e la sua banda, il primo maggio del 1947 sparò sulla folla e fu una strage.” – Dopo un istante aggiunse: “Con il sangue di questi morti fu battezzata la prima Repubblica.”  Poi, voltandosi, indicò il fondo valle: – “Vedi? Quella è l’autostrada Palermo-Trapani. Laggiù c’è Capaci. Il 23 maggio del 1992, col sangue di quelle vittime, si è battezzata la seconda Repubblica”.
Turbato da quelle parole, capii che quest’uomo aveva molte cose da dirmi sulla storia d’Italia e su Portella. Mi dette da leggere libri sui quali poi mi interrogava. Fu un periodo duro, frenetico, grazie al quale scoprii come la Sicilia fosse stata un laboratorio politico straordinario. Un giorno mi portò nel suo ufficio di Partinico, tirò fuori da un armadio un grosso faldone con scritto “Portella della Ginestra” e mi fece leggere il suo contenuto. Erano carte che parevano prese nella spazzatura. Lessi in quei fogli un’inchiesta sui lati oscuri di quel primo maggio ‘47. Lui mi raccontò la storia di quelle carte: nel ‘56 aveva organizzato uno sciopero alla rovescia; aveva portato cioè 150 braccianti disoccupati a riparare una trazzera, una strada impraticabile per i danni della guerra. Vennero i carabinieri e sciolsero l’ adunata sediziosa”. Lui fu arrestato e trascorse tre mesi all’Ucciardone. In carcere aveva conosciuto alcuni membri della banda Giuliano. “Quelle sono interviste che ho fatto ai banditi.” – mi disse – “Ma stai attento: ciò che è scritto su quei fogli non è la verità: è il punto di vista dei banditi. Ti potrà servire come bussola per orientarti quando leggerai altri documenti… Tienilo presente.”
Poco prima di morire mi disse: “E’ una storia complicata quella di Portella, ma tu dovrai fare un film semplice, che lo possano capire tutti, perché se la gente capisce cos’è successo quel giorno, avrà in mano uno strumento per cogliere il senso di tutte le stragi che, dalla fine degli anni ’60, hanno insanguinato l'Italia”.
Allora non compresi la portata di ciò che mi stava dicendo. Iniziai la ricerca su Portella raccogliendo in sei anni di indagini oltre 20 mila documenti. Grazie alle carte che mi aveva mostrato Danilo – che in parte avevo ricopiato – è stato possibile orientarmi nel ginepraio di depistaggi, menzogne e mezze verità con le quali gli apparati dello Stato avevano occultato le vere ragioni di quella strage.
Dopo la morte di Dolci, con uno dei suoi figli, visitammo le stanze di Borgo di Dio, scoprendo che qualcuno aveva distrutto l’archivio, bruciato le carte e infestato i muri di scritte fasciste. Nei giorni successivi scoprimmo che anche l’ufficio di Partinico era stato manomesso e molti documenti, compreso il fascicolo con le testimonianze dei banditi, erano scomparsi.
Il film Segreti di Stato sulla strage di Portella della Ginestra, realizzato nel 2003, è dedicato “alla memoria di Danilo Dolci”.
da qui

Durante il processo per la strage di Portella della Ginestra, tenutosi nel ’51 a Viterbo contro i membri della banda Giuliano, un avvocato non convinto dei risultati dell’inchiesta decide di condurre segretamente una popria indagine sull’eccidio. Da un piccolo particolare – il calibro delle pallottole estratte dai corpi delle vittime – l’avvocato risale la china di un lungo percorso d’indagine, alla ricerca di tracce nuove e testimonianze inascoltate. Questo percorso lo conduce in Sicilia, sul luogo della strage. Portella della Ginestra, in provincia di Palermo, è un enorme pianoro incolto e sassoso racchiuso tra i monti Pizzuta e Kumeta. Questo secondo rilievo ha una propaggine avanzata che incombe sulla piana: il Cozzo Dxuhait, che in albanese significa “punto d’osservazione”. Al centro del pianoro vi è un masso: il sasso Barbato, podio naturale degli oratori socialisti fin dai tempi dei “fasci siciliani”. Il quadro geografico risulterà particolarmente importante per l’avvocato, consentendogli di avanzare poco a poco verso un’ipotesi totalmente differente da quella ufficiale.

LA RICERCA STORICA
Il Primo Maggio del 1947, a Portella della Ginestra in Sicilia, qualcuno spara sulla folla: 11 morti e 27 feriti. Poche ore dopo la strage gli inquirenti fanno già un nome: il bandito Giuliano. Ma, stranamente, la rapida inchiesta sul massacro di uomini donne e bambini avvenuto durante la Festa del Lavoro e la misteriosa uccisione del famoso bandito che avrebbe causato tale misfatto, verranno dichiarati dal Governo Italiano. Dopo anni di ricerche e studi dell’ampia bibliografia pubblicata sull’argomento, delle testimonianze raccolte da Danilo Dolci, dei documenti desegretati dalla Commissione Parlamentare Antimafia, degli incartamenti relativi al processo depositati presso il Tribunale di Roma, e soprattutto grazie all’analisi sistematica della documentazione rinvenuta negli archivi dell’Office of Strategic Services di Washington (un materiale i mpressionante e tuttora inedito), siamo in grado di presentare oggi una ricostruzione nuova e originale dei fatti e delle cause di quel tragico evento.Il film intende accompagnare gli spettatori dentro la complessità di una oscura vicenda, per combattere l’omissione storiografica prodotta ai danni delle nuove generazioni.

LE RAGIONI DI UN FILM
Il primo a parlarmi della strage di Portella della Ginestra fu il sociologo Danilo Dolci nel settembre del 1996. Eravamo nella sua casa a Trappeto presso Palermo e lui aveva appena visto la cassetta del mio film Confortorio. Dolci non amava il cinema, lo riteneva veicolo di “trasmissione” e non oggetto di “comunicazione”, e pertanto strumento facilmente utilizzabile dal Dominio per condizionare e asservire le coscienze. Ma dopo aver visto anche Il bacio di Giuda Dolci dichiarò che questo mio modo di fare cinema era maieutico, produceva cioè un vero parto del pensiero. Si mostrò subito entusiasta e mi confessò che cercava da tempo un modo efficace per rivelare quanto aveva scoperto quarant’anni prima sul primo inquietante mistero d’Italia: la strage di Portella della Ginestra. Per lui il mio modo di narrare con le immagini poteva essere lo strumento idoneo per mostrare, di quell’oscuro episodio, la verità nascosta. Mi condusse nel suo Centro Studi a Partinico, dove aprì alcuni vecchi faldoni pieni di carte, archiviati con la dicitura “Portella della Ginestra – testimonianze”. Per aver capeggiato nel 1956 uno sciopero “alla rovescia” di contadini affamati, facendo riparare una vecchia “trazzera” dissestata, Dolci, accusato di sedizione, era stato tradotto al carcere dell’Ucciardone di Palermo. Durante la sua detenzione ebbe modo di avvicinare gli uomini della banda di Salvatore Giuliano e di intervistarli. Da quelle testimonianze, raccolte dalla viva voce dei banditi, iniziò una ricerca sistematica che Dolci e i suoi collaboratori condussero per anni sul territorio della Sicilia occidentale, intervistando testimoni, vittime della strage e quanti avevano visto cose che non avrebbero mai dovuto vedere…Mi misi di buon grado a decifrare quegli scritti che per me risultarono, allora, totalmente incomprensibili. Non conoscevo nulla della storia di Salvatore Giuliano, nulla della Sicilia del dopoguerra, nulla del Separatismo, delle lotte contadine, del banditismo, degli intrighi politici, della fame, dei morti ammazzati sui cigli delle strade. Dolci, evidentemente, si aspettava qualcosa da me che allora non potevo offrire. Gli confessai la mia ignoranza. Prima di affrontare quel materiale, avrei dovuto studiare la storia della Sicilia del dopoguerra. Danilo, annuiva in silenzio. Poi prese uno dei suoi libri dallo scaffale e me lo porse: – “Leggilo,” – disse – “poi ne parliamo”. Quel libro s’intitolava Banditi a Partinico.Dopo quel libro ho letto molto di quanto è stato pubblicato sulla storia siciliana e italiana del dopoguerra, volumi che Dolci mi segnalava continuamente e dei quali chiedeva sempre critica e giudizio. Quello che si andava svelando ai miei occhi era una storia di legami inconfessabili tra criminalità organizzata e politica, tra pezzi dello Stato italiano agli albori della Repubblica e il banditismo più efferato e sanguinario. Quando Danilo sentì di essere prossimo alla fine, mi fece promettere che avrei portato a termine questo lavoro, traendone un film. “Un film semplice,” – disse – “alla portata di tutti.” Poi aggiunse: – “Gli italiani devono sapere che Portella della Ginestra è la chiave per comprendere la vera storia della nostra Repubblica. Le regole della politica italiana di questo mezzo secolo sono state scritte con il sangue delle vittime di quella strage”. Il film è nato da quella promessa.
da qui
 
…Benvenuti si è messo sulle orme delle ricerche del sociologo siciliano Danilo Dolci sulla strage di Portella della Ginestra e ha raccolto tutti i documenti disponibili – vengono elencati fra i titoli di testa del film – in grado di smentire la verità ufficiale e processuale e di dare fondamento alla tesi della "strage di Stato", collocando l'eccidio all'interno della politica anticomunista delle istituzioni italiane e dei servizi segreti americani. Per uno scrupolo filologico, tuttavia, Benvenuti non ha tradotto il suo materiale in una nuova messa in scena della strage, riscrivendo la corrispettiva pagina del Salvatore Giuliano di Rosi. Ha costruito invece l'azione di Segreti di stato attorno a un'indagine condotta dall'avvocato di Gaspare Pisciotta, sulla scorta del film poliziesco americano degli anni Quaranta e Cinquanta.
I frammenti di verità e le ipotesi sulla dinamica dei fatti che di volta in volta emergono vengono offerti allo sguardo dello spettatore attraverso forme alternative di mimesi, che ricorrono all'oralità o a procedimenti didascalici, a elementi insomma extra-cinematografici, dai disegni dell'avvocato al plastico del perito balistico, il cui fine – come ha rivelato il regista in un'intervista di grande interesse – è quello di contraddistinguere con una marca linguistica il campo delle ipotesi non ancora accertate. Il passaggio alla messa in scena tradizionale, alla rappresentazione realistica, viene evitato perché in esso – secondo Benvenuti – si rischia di annullare il metodo critico e di fornire allo spettatore una verità univoca e cristallizzata, mentre Segreti di Stato vuole essere "un film sul pensiero e sull'interpretazione, non sulla realtà". Non a caso il regista ha inserito nel montaggio del film alcuni spezzoni tratti da cinegiornali d'epoca, formalmente realistici ma sostanzialmente falsi: in un caso la mdp si sofferma con un dettaglio su un proiettore, alludendo all'ambiguità e alle potenzialità falsificatorie della rappresentazione cinematografica.
Non so quanto abbia giovato alla riuscita della pellicola questa "rinuncia al cinema" a favore di una scoperta didascalicità. In una sequenza, in particolare, per altro oggetto di molte polemiche, un professore siciliano (interpretato da Sergio Graziani) illustra la rete di mandanti che si celerebbe dietro la strage, disponendo su un tavolo le fotografie dei personaggi citati, da De Gasperi a Scelba e Andreotti, da papa Pacelli a Truman. Il procedimento escogitato dal regista – la messa in scena alternativa – sembra non funzionare: l'espediente didascalico, invece di smorzare, amplifica l'evidenza oggettiva dei ragionamenti del professore. Ipotesi e verità finiscono per confondersi; più il racconto si fa didascalico e scoperto, più rischia di diventare assertivo. Benvenuti deve essersi accorto di questo rischio e ha inserito nella scena un elemento in funzione attenuante: una folata di vento entra dalla finestra e manda all'aria le carte, quasi a ricordare che si tratta di una costruzione ipotetica, di una verità indiziaria…
da qui

…Partendo dalle confessioni raccolte in carcere dal professore di pedagogia Dolci, dopo anni di studi e ricerche e dopo aver raccolto documenti ed ulteriori testimonianze, Paolo Benvenuti espone, con semplicità rosselliniana, i fatti di Portella della Ginestra. Seguendo il metodo d’insegnamento del professore siciliano e con un occhio rivolto al cinema didattico del regista di Roma città aperta, l’autore di Gostanza da Libbiano affronta di petto il rimosso della Storia d’Italia con uno spirito combattivo e con un’autentica passione civile. Nella minuziosa ricostruzione dei fatti, Benvenuti ha il coraggio di non rappresentare il non-rappresentabile (ovvero gli eventi tragici oggetto di indagine) e di lasciare che le sole vignette suggeriscano avvenimenti ancora avvolti nel mistero e dunque impossibili da rendere cinematograficamente senza scadere nel ricattatorio e senza evitare di replicare su pellicola le immorali figure della sprezzante retorica manipolatoria del mezzo televisivo. Non vediamo e vedremo mai, magari in prevedibili ed ingannevoli flash-back, la strage. Il cinema, quando/se vuole essere atto morale, non può rappresentare visivamente un’ipotesi, una congettura, quand’anche suffragata da prove e documenti, perché la sola rappresentazione, secondo quello che è lo statuto ontologico dell’immagine cinematografica, costituirebbe un atto di violenza, un’arbitraria imposizione dall’alto, annullerebbe il dubbio, imporrebbe allo spettatore la verità. Il regista preferisce suggerire allo spettatore, piuttosto che urlare, la strada interpretativa da percorrere. Il suo è un cinema metonimico più che iperbolico e ridondante, che sottrae e riduce all’essenziale gli elementi narrativi al fine di lasciare allo spettatore il compito di partorire, maieuticamente, la verità…
https://markx7.blogspot.com/2019/10/segreti-di-stato-paolo-benvenuti.html

RECENSIONI
Partendo dalle confessioni raccolte in carcere dal professore di pedagogia Dolci, dopo anni di studi e ricerche e dopo aver raccolto documenti ed ulteriori testimonianze, Paolo Benvenuti espone, con semplicità rosselliniana, i fatti di Portella della Ginestra. Seguendo il metodo d’insegnamento del professore siciliano e con un occhio rivolto al cinema didattico del regista di Roma città aperta, l’autore di Gostanza da Libbiano affronta di petto il rimosso della Storia d’Italia con uno spirito combattivo e con un’autentica passione civile. Nella minuziosa ricostruzione dei fatti, Benvenuti ha il coraggio di non rappresentare il non-rappresentabile (ovvero gli eventi tragici oggetto di indagine) e di lasciare che le sole vignette suggeriscano avvenimenti ancora avvolti nel mistero e dunque impossibili da rendere cinematograficamente senza scadere nel ricattatorio e senza evitare di replicare su pellicola le immorali figure della sprezzante retorica manipolatoria del mezzo televisivo. Non vediamo e vedremo mai, magari in prevedibili ed ingannevoli flash-back, la strage. Il cinema, quando/se vuole essere atto morale, non può rappresentare visivamente un’ipotesi, una congettura, quand’anche suffragata da prove e documenti, perché la sola rappresentazione, secondo quello che è lo statuto ontologico dell’immagine cinematografica, costituirebbe un atto di violenza, un’arbitraria imposizione dall’alto, annullerebbe il dubbio, imporrebbe allo spettatore la verità. Il regista preferisce suggerire allo spettatore, piuttosto che urlare, la strada interpretativa da percorrere. Il suo è un cinema metonimico più che iperbolico e ridondante, che sottrae e riduce all’essenziale gli elementi narrativi al fine di lasciare allo spettatore il compito di partorire, maieuticamente, la verità. La “rifunzionalizzazione” di oggetti comuni – sigarette, accendini, soprammobili che si trasformano, sulla scrivania divenuta Portella della Ginestra, nelle parti in causa, nelle bande armate di Giuliano, nel misterioso gruppo di tiratori scelti venuti chissà da dove, nei picciotti del mafioso locale, nel gruppo dei manifestanti comunisti vittime, forse, di una strage di stato – rientra in questa logica anti-spettacolare: nella mente dello spettatore e dei personaggi l’oggetto comune diviene pedina essenziale e mezzo semplice ed immediato di decodificazione del reale. Come sempre nel suo cinema, seguendo anche in questo caso la lezione rosselliniana, Benvenuti fa interpretare i ruoli dei personaggi secondari ad attori non professionisti riservando ad attori noti come Coco e Catania i ruoli di protagonista e comprimario. L’eleganza formale, come già in Gostanza da Libbiano, non è fine a se stessa ma tende piuttosto a porre come un filtro tra lo spettatore e il film ed allo stesso tempo a suggerigli, metafilmicamente, di essere cinema, di essere fictio. Il direttore della fotografia ha desaturato i colori sulla pellicola per tentare di riprodurre i valori cromatici dei film degli anni cinquanta.
Dal punto di vista squisitamente cinematografico Benvenuti non raggiunge i livelli di purezza stilistica del film precedente. Comunque, si vola sempre alto.
Manuel Billi (12 Gennaio 2003)

Sempre piu' spesso il cinema assume la funzione di vendicatore mascherato, mettendo in luce cio' che la realta' ha volutamente occultato e smentito. Si tratta sempre di supposizioni, congetture, spesso strumentalizzate a fini politici dall'una o dall'altra parte. E' successo, per rimanere a Venezia e al Festival, con "I cento passi" di Marco Tullio Giordana e la storia vera di Peppino Impastato, che ha rischiato di far ripartire le indagini, e l'anno scorso con "Magdalene" di Peter Mullan, che ha aperto gli occhi sulla realta' oscura degli omonimi conventi irlandesi. Nel cinema indagatore rientra anche l'interessante "Segreti di Stato", che getta una luce sinistra sulla strage di Portella della Ginestra del Primo Maggio 1947, ufficialmente opera del bandito Salvatore Giuliano. La materia e' appassionante perche' mette in dubbio tutto il sistema politico dell'epoca con rigurgiti anche attuali, ma il film non sempre convince. La luce flirta con gli spazi e i personaggi (molto bella la fotografia di Giovanni Battista Marras) ma l'indagine resta incerta tra il documentario e il teatro filmato perdendo di vista il cinema. La sceneggiatura affronta con didascalica chiarezza le ramificate difficolta' espositive dello spinoso tema trattato e consente una fruizione lineare, ma i botta e risposta tra i personaggi sanno troppo di lezioncina da impartire allo spettatore, con domande tutt'altro che spontanee fatte appositamente per fornire adeguata spiegazione al pubblico. Non aiuta, al riguardo, l'interpretazione degli attori, con uno spaesato Antonio Catania che inanella gesti di maniera ed espressioni attonite e il piglio teatrale degli altri. L'unico che mantiene un minimo di visceralita' e' il Gaspare Pisciotta di David Coco, che affianca, alla chiarezza di gesti e parole, il necessario trasporto emotivo richiesto dal personaggio.
Comunque importante per le discussioni che riuscira' ad animare, il film di Paolo Benvenuti avrebbe forse trovato nel documentario una forma piu' adatta al taglio investigativo utilizzato. Dopo un po', infatti, gli stupori di Catania e le immediate deduzioni degli altri diventano un surplus che aggiunge poco e, anzi, rischia di allontanare.
Luca Baroncini (12 Gennaio 2003)
https://www.spietati.it/segreti-di-stato/

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