TITULO ORIGINAL Autoritratto Auschwitz / L'occhio è per così dire l'evoluzione biologica di una lagrima
AÑO 2007
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 35 min.
DIRECCION Alberto Grifi
GUION Alberto Grifi
REPARTO Monica Vitti, Alberto Grifi, Michelangelo Antonioni, Alessandra Vanzi, Enrica Antonioni
FOTOGRAFIA Alberto Grifi
MONTAJE Lorenzo Grifi, Massimo Zomparelli, Ivan Grifi
PRODUCCION Alberto Grifi
GENERO Corto / Documental
SINOPSIS Nel film troviamo alcuni scarti di moviola che vedono una Monica Vitti che prova a piangere, un incontro tra Antonioni e Grifi, un film girato nel campo di concentramento di Auschwitz con un sopravvissuto che racconta quei terribili momenti, uno spaccato della Palestina odierna, riflessioni dello stesso Grifi sul carcere ed una denuncia anonima effetuata nel 1969 sulle violenze che si subiscono in carcere... (FilmUP)
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Trama
Si susseguono immagini diverse in un film-saggio che inchioda gli spettatori alla realtà. Vediamo scene scartate al montaggio di "Deserto rosso" in cui Monica Vitti tenta di piangere. Un incontro, avvenuto molti anni dopo in un giardino tra Alberto Grifi e Michelangelo Antonioni. Poi un sopravvissuto alla prigionia di Auschwitz offre una testimonianza della sua terribile esperienza alternata ad alcune immagini girate nella Palestina del Duemila. Infine, le parole di denuncia scritte dallo stesso Grifi nel 1969 sulla situazione carceraria e sulle violenze subite vengono lette da Alessandra Vanzi.
Critica
Note: "L'associazione culturale Alberto Grifi, fondata dall'autore e il figlio Ivan con Sandro Costa, è nata per diffondere il patrimonio artistico del filmaker sperimentale italiano. L'associazione sta lavorando per il restauro dei videonastri di Anna e Parco Lambro e si propone di produrre i suoi lavori in una collana dvd; organizza e promuove rassegne e iniziative culturali e sta raccogliendo e recuperando i materiali video, foto e scritti dell'autore."
Note
- PRESENTATO ALLA 64. MOSTRA INTERNAZIONALE D'ARTE CINEMATOGRAFICA DI VENEZIA (2007) PER UN OMAGGIO ALLA FIGURA DEL REGISTA.
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=39954&film=Autoritratto-Auschwitz/L-Occhio-e-per-cosi-dire-l-evoluzione-biologica-di-una-lagrima
http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Trama/?key=39954&film=Autoritratto-Auschwitz/L-Occhio-e-per-cosi-dire-l-evoluzione-biologica-di-una-lagrima
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Alberto Grifi: Verifica (mai) certa...
"Grifi!" è un urlo ma anche un sussurro insistito, un isterico motto armonioso, singolare e plurale visione invertita, ce(n)surata, ripetuta, titolo di una rassegna itinerante e di un appello di tutti i "grifi" destinati a rincorrere per sempre l'uomo con la macchina da presa e con il videotape...
"... lo Stato predica l'etica del lavoro, la pace sociale, i sacrifici; mentre l'opposizione selvaggia praticava l'illegalità, l'esproprio, il rifiuto del lavoro salariato, la disobbedienza civile. Il mondo cambiava e il cinema rimaneva immobile. Se provava a descrivere la nuova realtà lo faceva rimaneggiando in tutte le salse gli stereotipi del cinema del passato che, del resto, aveva avuto ben altra dignità. La maggior parte dei registi, vecchi o giovani che fossero, non coglieva i significati profondi dei nuovi desideri delle donne, dei ladri, dei matti, dei drogati visionari; e i loro film rimanevano nell'ottica ristretta della piccola borghesia dalla quale spesso provenivano, sessista e classista.
Per me era inevitabile confrontare la condizione proletaria con la nostra di cinematografi. Per me i riformisti erano proprio gli artisti abbarbicati al miserabile privilegio di descrivere voluttuosamente la propria alienazione. Sarebbero stati gli ultimi a capire di essere servi del potere massmediatico, uccellini che cantano senza la forza di rompere la gabbia che li imprigiona. E' infatti quando i processi rivoluzionari falliscono nella vita che la creatività ripiega sull'attività artistica. Ed è proprio quando la creatività si concretizza in opera che il capitale la mette sotto controllo, mercificandola, organizzandola in spettacolo, rendendola impotente. Al contrario, in una società in rivoluzione è la realtà stessa che diviene il luogo della creazione permanente. A condizione che la nuova vita non cada mai al di sotto dell'intensità dei momenti più alti della vecchia arte.
Per me era ora di buttare nel cesso le sceneggiature scritte in un linguaggio la cui sola sintassi è la regola del mercato.
Per realizzare il cinema che ho sempre amato, bisognava liquidarlo, trasformare i sogni che contiene in vita vivente, in una vita nuova...".
Raggiunte parole: "Chiedo una casa che non sia lontana più di quindici minuti da un ospedale... il mio fegato credo sia giunto all'ultimo capitolo... oggi vivo da un amico che ha un tumore al ginocchio... voglio continuare a lavorare sul mio materiale ancora incompiuto e credo che non mi rimanga ancora molto tempo a disposizione...".
Certi dei fatti: Alberto Grifi ha un corpo malato, ma sempre "macchinoso", calato al centro dello spazio da rappresentare, operatore e attore allo stesso tempo, distaccato e, contemporaneamente, coinvolto nella materia trattata. Intorno a lui ruota l'underground italiano, lo sperimentalismo di verità/finzione, dentro di lui scorre il cinema arterioso che ha sempre dato a quel cinema venoso che non ha mai restituito. Vorrebbe vivere e lavorare nel suo mondo/cinema "brado" e chiede una casa/laboratorio dove poter ripensare alla verifica (mai) certa del suo sguardo. Vorrebbe trascorrere il tempo che gli rimane, come ha sempre fatto, in simbiosi con l'ottica deformata del "fish-eye" o gli specchi a geometria simmetrica che ricordano i giocattoli dell'infanzia; vorrebbe sforzarsi a piangere come la Vitti sul set di Deserto Rosso, tra gli scarti di montaggio raccattati per L'occhio è per così dire l'evoluzione biologica di una lacrima, proprio perché se il cinema suscita artificialmente il dolore, la sofferenza autentica (ma invisibile) è di chi è vittima della repressione istituzionalizzata. Grifi è l'innovazione linguistica che non da tregua allo smacco esistenziale, all'incapacità ormai di non poter cambiare il corso degli eventi, di sottrarre Anna (meraviglioso cinema fiume e "inutile" presenza ininterrotta del videotape pronto a registrare anche i tempi morti) o Michele (alla ricerca della felicità) alla loro tragica condizione.
"Grifi!" è un urlo ma anche un sussurro insistito, un isterico motto armonioso, singolare e plurale visione invertita, ce(n)surata, ripetuta, titolo di una rassegna itinerante e di un appello di tutti i "grifi" destinati a rincorrere per sempre l'uomo con la macchina da presa e con il videotape. ..
http://www.sentieriselvaggi.it/306/13627/Alberto_Grifi_Verifica_(mai)_certa....htm
Per me era inevitabile confrontare la condizione proletaria con la nostra di cinematografi. Per me i riformisti erano proprio gli artisti abbarbicati al miserabile privilegio di descrivere voluttuosamente la propria alienazione. Sarebbero stati gli ultimi a capire di essere servi del potere massmediatico, uccellini che cantano senza la forza di rompere la gabbia che li imprigiona. E' infatti quando i processi rivoluzionari falliscono nella vita che la creatività ripiega sull'attività artistica. Ed è proprio quando la creatività si concretizza in opera che il capitale la mette sotto controllo, mercificandola, organizzandola in spettacolo, rendendola impotente. Al contrario, in una società in rivoluzione è la realtà stessa che diviene il luogo della creazione permanente. A condizione che la nuova vita non cada mai al di sotto dell'intensità dei momenti più alti della vecchia arte.
Per me era ora di buttare nel cesso le sceneggiature scritte in un linguaggio la cui sola sintassi è la regola del mercato.
Per realizzare il cinema che ho sempre amato, bisognava liquidarlo, trasformare i sogni che contiene in vita vivente, in una vita nuova...".
Raggiunte parole: "Chiedo una casa che non sia lontana più di quindici minuti da un ospedale... il mio fegato credo sia giunto all'ultimo capitolo... oggi vivo da un amico che ha un tumore al ginocchio... voglio continuare a lavorare sul mio materiale ancora incompiuto e credo che non mi rimanga ancora molto tempo a disposizione...".
Certi dei fatti: Alberto Grifi ha un corpo malato, ma sempre "macchinoso", calato al centro dello spazio da rappresentare, operatore e attore allo stesso tempo, distaccato e, contemporaneamente, coinvolto nella materia trattata. Intorno a lui ruota l'underground italiano, lo sperimentalismo di verità/finzione, dentro di lui scorre il cinema arterioso che ha sempre dato a quel cinema venoso che non ha mai restituito. Vorrebbe vivere e lavorare nel suo mondo/cinema "brado" e chiede una casa/laboratorio dove poter ripensare alla verifica (mai) certa del suo sguardo. Vorrebbe trascorrere il tempo che gli rimane, come ha sempre fatto, in simbiosi con l'ottica deformata del "fish-eye" o gli specchi a geometria simmetrica che ricordano i giocattoli dell'infanzia; vorrebbe sforzarsi a piangere come la Vitti sul set di Deserto Rosso, tra gli scarti di montaggio raccattati per L'occhio è per così dire l'evoluzione biologica di una lacrima, proprio perché se il cinema suscita artificialmente il dolore, la sofferenza autentica (ma invisibile) è di chi è vittima della repressione istituzionalizzata. Grifi è l'innovazione linguistica che non da tregua allo smacco esistenziale, all'incapacità ormai di non poter cambiare il corso degli eventi, di sottrarre Anna (meraviglioso cinema fiume e "inutile" presenza ininterrotta del videotape pronto a registrare anche i tempi morti) o Michele (alla ricerca della felicità) alla loro tragica condizione.
"Grifi!" è un urlo ma anche un sussurro insistito, un isterico motto armonioso, singolare e plurale visione invertita, ce(n)surata, ripetuta, titolo di una rassegna itinerante e di un appello di tutti i "grifi" destinati a rincorrere per sempre l'uomo con la macchina da presa e con il videotape. ..
http://www.sentieriselvaggi.it/306/13627/Alberto_Grifi_Verifica_(mai)_certa....htm
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Alberto Grifi
Il cinema oltranzista
Il cinema oltranzista
Mentre voi avevate il settimo cavalleggeri, il napalm, e le bombe di Hiroshima e Nagasaki, noi avevamo appena una vecchia moviola in un sottoscala per farvi a pezzi...
Alberto Grifi
Quello che avete di fronte non è un omaggio post-mortem tradizionale. Non lo è perché, semplicemente non può esserlo: è scritto in prima persona, visto che colui al quale è dedicato mi era vicino. Il dolore che mi pervade non si riferisce solo alla perdita di una figura chiave per comprendere e contestualizzare l’avanguardia italiana dagli anni sessanta a oggi, ma è qualcosa di molto più privato, personale, straziante. Ho avuto la fortuna e l’onore di avere Alberto Grifi come docente, al corso di regia e sceneggiatura indetto da Marco Müller nel 2004 in quel di Bararano Romano, in provincia di Viterbo. Da allora l’ho seguito, a correnti alterne, abituandomi ai saliscendi di un umore quantomai imprevedibile e spiazzante: fino al punto di arrivare a essere filmato all’interno di quel progetto che avrebbe dovuto estendere ai giorni d’oggi la satira militante di Dinni e la Normalina.
Ciononostante non mi lascerò andare a un esercizio retorico sull’amicizia, il dolore della perdita e tutti gli altri accessori del patetico che solitamente vengono sfoggiati in queste occasioni. L’intento che mi sono prefissato, e che ambirei a portare a termine, è quello di redarre un ritratto sincero di un artista che è stato nella maggior parte dei casi poco compreso dalla critica (che continua ancora a leggerne in filigrana l’opera prendendo come punto di partenza Anna, ovvero la sua creatura più anomala), dal pubblico (che lo ha semplicemente ignorato), ma anche dai suoi colleghi. Non c’è alcuna intenzione sensazionalistica nel descrivere l’opera di Grifi come la più importante testimonianza della controcultura cinematografica nostrana: nessuno, all’interno della ristretta cerchia dell’underground italiano dell’epoca, ha saputo scalfire con così tanta forza la corazza del cinema istituzionale, sporgendosi ripetutamente al di là del senso comune e osando bombardare un apparato granitico – all’epoca, soprattutto – con una serie di provocazioni atte a destabilizzare, spaventare quasi il possibile uditorio di riferimento. In quest’ottica la sua esperienza autoriale fotografa un’urgenza estetica e narrativa – con l’estetica che è, deve essere, narrativa di per sé – che manca anche alle migliori menti a lui coeve: Piero Bargellini, per esempio, ragionava più da vicino sulla macchina/cinema in quanto tale, sulla sua peculiarità tecnica, lasciando da parte la componente sociale e politica. Per non parlare di Tonino De Bernardi, interessato principalmente a una messa in scena del privato di fronte agli occhi stupratori del pubblico. Tutti elementi, questi, che Grifi ha sfiorato a più riprese nel corso della sua carriera: se si prende per esempio L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lagrima si comprende con chiarezza come il discorso sulla tecnica cinematografica (elemento sul quale si strutturava anche il recente A proposito degli effetti speciali) non è il centro del discorso, ma funge più che altro da McGuffin per analizzare nel concreto il cinema nella sua funzione bivalente di testamento della realtà (le riprese del campo di concentramento di Auschwitz) e imitazione della realtà (i ripetuti tentativi di Monica Vitti di scoppiare in lacrime).
Già, la realtà: ciò che sorprende con forza avvicinandosi la prima volta al cinema di Alberto Grifi è la sua anomala e originale interpretazione del reale. Anche quando ciò che si palesa davanti agli occhi degli spettatori sembra aver raggiunto il grado zero del cinéma verité, come nel caso della scena dei pidocchi in Anna, è sempre presente l’impressione di avere a che fare con uno studio delle infinite possibilità del reale piuttosto che con una “semplice” messa in scena del vero. Anche per questo motivo ritengo che la critica istituzionale abbia sbagliato completamente mira analizzando nel corso degli ultimi trent’anni quell’opera capitale che è Anna, pensato/scritto/girato in compagnia di Massimo Sarchielli: capitale da un punto di vista strettamente produttivo (essendo la prima opera in video girata in Italia), estetico (quattro ore impossibili da identificare in un genere specifico), mediatico (fu l’unica opera della stagione controculturale del nostro cinema a ottenere una visibilità notevole, sia grazie alle proiezioni ininterrotte al Filmstudio di Roma, sia grazie alla partecipazione ai festival di Berlino e Venezia del 1975 e a quello di Cannes del 1976). Nel restringere Anna nell’angusto spazio del cinema della realtà (dove al massimo potrei accettare di far rientrare Lia e Parco Lambro) si commette altresì un crimine non indifferente, limitandone in maniera decisiva la portata rivoluzionaria. Forse anche per questa incomprensione di fondo non si è avuta l’occasione di leggere con attenzione il resto della sua cinematografia: che non è, a dire il vero, particolarmente corposa, per il semplice fatto che per tutti gli anni ’80 Alberto ha abbandonato in pieno l’impegno artistico per impegnarsi a fondo nel documentario industriale e in alcuni progetti per la RAI. Proprio l’emittente di stato in precedenza aveva prima sovvenzionato, quindi censurato e – addirittura – mai programmato in palinsesto Michele alla ricerca della felicità e soprattutto Dinni e la Normalina, ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti nuclei di follìa militante, due dei lavori più personali e oltranzisti della carriera di Grifi: nel primo si studia da vicino, con l’occhio dell’entomologo ma anche con una partecipazione che rende il tutto ancora più straniante, la condizione carceraria del nostro paese. Opera scarna, essenziale, quasi violenta nella sua totale ricerca della spoliazione, Michele alla ricerca della felicità è uno dei film più lucidi di Grifi; all’esatto opposto si pone invece Dinni e la Normalina, creatura eccessiva, schizofrenica, genialoide e al contempo esagerata, dove l’anima più puramente ludica di Grifi fa capolino pur non dimenticando l’intento provocatorio alle spalle; è la polizia, qui, a sfruttare le possibilità del video, l’arma che più di tutte fece di Grifi il cantore di una rivolta utopica quanto priva di mediazioni. Questo paradosso dal forte sapore autoironico non si sposa però alla perfezione con il resto del tessuto narrativo, facendo di Dinni e la Normalina un’opera imperfetta ma straordinariamente “altra” rispetto al panorama nel quale si inserì.
Quello che probabilmente manca a Dinni e la Normalina è la capacità di ergersi, sia eticamente che esteticamente, contro l’istituzione cinematografica prima ancora che contro i poteri dello stato; insomma, quella capacità di identificare il Sistema anche e soprattutto nello stesso mondo del cinema – quando solitamente gli autori vedono nella Settima Arte il rifugio sicuro dai mali della società – che fece della sua opera seconda (l’esordio, Cristo ’63, girato su un palco di Carmelo Bene, sembra essere andato irrimediabilmente perduto), La verifica incerta, uno dei capisaldi del cinema degli anni sessanta. Co-diretto in compagnia di Gianfranco Baruchello, La verifica incerta consiste nel montaggio, spiazzante, sprezzante, ironico, di una serie di pellicole hollywoodiane destinate al macero: utilizzando quell’approccio che sarà, tanto per dirne una, alla base del successo del programma di RaiTre Blob, Grifi e Baruchello agiscono in maniera a dir poco terroristica nei confronti del gotha del cinema mondiale. In questo brillante e destabilizzante gioco dada (che si apre, non a caso, proprio sul volto di Marcel Duchamp, quasi a volerne rimarcare l’ispirazione), i due cineasti affrontano di petto l’idea di cinema come industria, ne sovvertono i codici e si divertono a minarne le certezze. Un atto di insubordinazione che procurò loro da un lato il plauso incondizionato delle avanguardie di ogni tipo – tanto da essere presentato al MOMA per bocca ed entusiasmo di John Cage -, dall’altro l’ira funesta della critica che, comprendendone il forte valore tellurico, se ne tenne precauzionalmente a distanza. Eppure sarebbe ora di riprendere le fila del discorso lanciato da La verifica incerta, e cercare di identificarne un senso anche nella nostra paludata contemporaneità.
Oramai ostracizzato dai salotti industriali, la carriera di Grifi non può che dipanarsi in quel sottobosco oscuro ma all’epoca assai florido dell’underground: è così che vengono alla luce il bello studio sul teatro di Aldo Braibanti Transfert per kamera verso Virulentia, il misconosciuto ed esaltante Orgonauti, evviva! e soprattutto Riuscirà Giordano Falzoni nel ruolo di principe azzurro munito di giochi ottici rotanti a restituire la voglia di vivere alla bella addormentata? (conosciuto anche con i titoli Il grande freddo e Le avventure di Giordano Falzoni), straordinario gioco visivo nel quale il pittore Giordano Falzoni è l’esca usata per fare uscire allo scoperto la dittatura della fabula e la videocamera l’arma per combattere tale dittatura, l’unica forse possibile da contrastare con la mera tecnica cinematografica.
Con il finire degli anni ’70 si esaurisce anche la vena creativa di Grifi: il riflusso che colpì l’intero movimento gli fu a dir poco fatale, tanto da condurlo su vie decisamente diverse. Rimane il suo studio sulle tecniche – fu lui a inventare il vidigrafo, e stava da anni lavorando a una “lavatrice” per pulire i nastri magnetici dei vhs e, di fatto, restaurarli - e un decennio di opere da rivalutare e iscrivere tra le più esaltanti visioni dell’avanguardia mondiale. Da tempo, oramai, Alberto stava male: soffriva a causa di un cancro che lo stava logorando, non aveva casa (molte le petizioni a suo favore, c’è da dire che il mondo che amava lo ha ricambiato con forza), era debole e malandato. Ma non ha mai svenduto la sua coerenza intellettuale, questo no. E forse si tratta di un pregio non semplice da comprendere appieno. Mancherà, Alberto Grifi: al cinema italiano, nel quale ha rappresentato una voce libera come poche, agli studi sull’arte digitale, al sottoscritto. Anzi, sta già mancando.
Raffaele Meale
http://www.cineclandestino.it/it/speciali/saggi/2008/alberto-grifi-il-cinema-oltranzista.html
Ciononostante non mi lascerò andare a un esercizio retorico sull’amicizia, il dolore della perdita e tutti gli altri accessori del patetico che solitamente vengono sfoggiati in queste occasioni. L’intento che mi sono prefissato, e che ambirei a portare a termine, è quello di redarre un ritratto sincero di un artista che è stato nella maggior parte dei casi poco compreso dalla critica (che continua ancora a leggerne in filigrana l’opera prendendo come punto di partenza Anna, ovvero la sua creatura più anomala), dal pubblico (che lo ha semplicemente ignorato), ma anche dai suoi colleghi. Non c’è alcuna intenzione sensazionalistica nel descrivere l’opera di Grifi come la più importante testimonianza della controcultura cinematografica nostrana: nessuno, all’interno della ristretta cerchia dell’underground italiano dell’epoca, ha saputo scalfire con così tanta forza la corazza del cinema istituzionale, sporgendosi ripetutamente al di là del senso comune e osando bombardare un apparato granitico – all’epoca, soprattutto – con una serie di provocazioni atte a destabilizzare, spaventare quasi il possibile uditorio di riferimento. In quest’ottica la sua esperienza autoriale fotografa un’urgenza estetica e narrativa – con l’estetica che è, deve essere, narrativa di per sé – che manca anche alle migliori menti a lui coeve: Piero Bargellini, per esempio, ragionava più da vicino sulla macchina/cinema in quanto tale, sulla sua peculiarità tecnica, lasciando da parte la componente sociale e politica. Per non parlare di Tonino De Bernardi, interessato principalmente a una messa in scena del privato di fronte agli occhi stupratori del pubblico. Tutti elementi, questi, che Grifi ha sfiorato a più riprese nel corso della sua carriera: se si prende per esempio L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lagrima si comprende con chiarezza come il discorso sulla tecnica cinematografica (elemento sul quale si strutturava anche il recente A proposito degli effetti speciali) non è il centro del discorso, ma funge più che altro da McGuffin per analizzare nel concreto il cinema nella sua funzione bivalente di testamento della realtà (le riprese del campo di concentramento di Auschwitz) e imitazione della realtà (i ripetuti tentativi di Monica Vitti di scoppiare in lacrime).
Già, la realtà: ciò che sorprende con forza avvicinandosi la prima volta al cinema di Alberto Grifi è la sua anomala e originale interpretazione del reale. Anche quando ciò che si palesa davanti agli occhi degli spettatori sembra aver raggiunto il grado zero del cinéma verité, come nel caso della scena dei pidocchi in Anna, è sempre presente l’impressione di avere a che fare con uno studio delle infinite possibilità del reale piuttosto che con una “semplice” messa in scena del vero. Anche per questo motivo ritengo che la critica istituzionale abbia sbagliato completamente mira analizzando nel corso degli ultimi trent’anni quell’opera capitale che è Anna, pensato/scritto/girato in compagnia di Massimo Sarchielli: capitale da un punto di vista strettamente produttivo (essendo la prima opera in video girata in Italia), estetico (quattro ore impossibili da identificare in un genere specifico), mediatico (fu l’unica opera della stagione controculturale del nostro cinema a ottenere una visibilità notevole, sia grazie alle proiezioni ininterrotte al Filmstudio di Roma, sia grazie alla partecipazione ai festival di Berlino e Venezia del 1975 e a quello di Cannes del 1976). Nel restringere Anna nell’angusto spazio del cinema della realtà (dove al massimo potrei accettare di far rientrare Lia e Parco Lambro) si commette altresì un crimine non indifferente, limitandone in maniera decisiva la portata rivoluzionaria. Forse anche per questa incomprensione di fondo non si è avuta l’occasione di leggere con attenzione il resto della sua cinematografia: che non è, a dire il vero, particolarmente corposa, per il semplice fatto che per tutti gli anni ’80 Alberto ha abbandonato in pieno l’impegno artistico per impegnarsi a fondo nel documentario industriale e in alcuni progetti per la RAI. Proprio l’emittente di stato in precedenza aveva prima sovvenzionato, quindi censurato e – addirittura – mai programmato in palinsesto Michele alla ricerca della felicità e soprattutto Dinni e la Normalina, ovvero la videopolizia psichiatrica contro i sedicenti nuclei di follìa militante, due dei lavori più personali e oltranzisti della carriera di Grifi: nel primo si studia da vicino, con l’occhio dell’entomologo ma anche con una partecipazione che rende il tutto ancora più straniante, la condizione carceraria del nostro paese. Opera scarna, essenziale, quasi violenta nella sua totale ricerca della spoliazione, Michele alla ricerca della felicità è uno dei film più lucidi di Grifi; all’esatto opposto si pone invece Dinni e la Normalina, creatura eccessiva, schizofrenica, genialoide e al contempo esagerata, dove l’anima più puramente ludica di Grifi fa capolino pur non dimenticando l’intento provocatorio alle spalle; è la polizia, qui, a sfruttare le possibilità del video, l’arma che più di tutte fece di Grifi il cantore di una rivolta utopica quanto priva di mediazioni. Questo paradosso dal forte sapore autoironico non si sposa però alla perfezione con il resto del tessuto narrativo, facendo di Dinni e la Normalina un’opera imperfetta ma straordinariamente “altra” rispetto al panorama nel quale si inserì.
Quello che probabilmente manca a Dinni e la Normalina è la capacità di ergersi, sia eticamente che esteticamente, contro l’istituzione cinematografica prima ancora che contro i poteri dello stato; insomma, quella capacità di identificare il Sistema anche e soprattutto nello stesso mondo del cinema – quando solitamente gli autori vedono nella Settima Arte il rifugio sicuro dai mali della società – che fece della sua opera seconda (l’esordio, Cristo ’63, girato su un palco di Carmelo Bene, sembra essere andato irrimediabilmente perduto), La verifica incerta, uno dei capisaldi del cinema degli anni sessanta. Co-diretto in compagnia di Gianfranco Baruchello, La verifica incerta consiste nel montaggio, spiazzante, sprezzante, ironico, di una serie di pellicole hollywoodiane destinate al macero: utilizzando quell’approccio che sarà, tanto per dirne una, alla base del successo del programma di RaiTre Blob, Grifi e Baruchello agiscono in maniera a dir poco terroristica nei confronti del gotha del cinema mondiale. In questo brillante e destabilizzante gioco dada (che si apre, non a caso, proprio sul volto di Marcel Duchamp, quasi a volerne rimarcare l’ispirazione), i due cineasti affrontano di petto l’idea di cinema come industria, ne sovvertono i codici e si divertono a minarne le certezze. Un atto di insubordinazione che procurò loro da un lato il plauso incondizionato delle avanguardie di ogni tipo – tanto da essere presentato al MOMA per bocca ed entusiasmo di John Cage -, dall’altro l’ira funesta della critica che, comprendendone il forte valore tellurico, se ne tenne precauzionalmente a distanza. Eppure sarebbe ora di riprendere le fila del discorso lanciato da La verifica incerta, e cercare di identificarne un senso anche nella nostra paludata contemporaneità.
Oramai ostracizzato dai salotti industriali, la carriera di Grifi non può che dipanarsi in quel sottobosco oscuro ma all’epoca assai florido dell’underground: è così che vengono alla luce il bello studio sul teatro di Aldo Braibanti Transfert per kamera verso Virulentia, il misconosciuto ed esaltante Orgonauti, evviva! e soprattutto Riuscirà Giordano Falzoni nel ruolo di principe azzurro munito di giochi ottici rotanti a restituire la voglia di vivere alla bella addormentata? (conosciuto anche con i titoli Il grande freddo e Le avventure di Giordano Falzoni), straordinario gioco visivo nel quale il pittore Giordano Falzoni è l’esca usata per fare uscire allo scoperto la dittatura della fabula e la videocamera l’arma per combattere tale dittatura, l’unica forse possibile da contrastare con la mera tecnica cinematografica.
Con il finire degli anni ’70 si esaurisce anche la vena creativa di Grifi: il riflusso che colpì l’intero movimento gli fu a dir poco fatale, tanto da condurlo su vie decisamente diverse. Rimane il suo studio sulle tecniche – fu lui a inventare il vidigrafo, e stava da anni lavorando a una “lavatrice” per pulire i nastri magnetici dei vhs e, di fatto, restaurarli - e un decennio di opere da rivalutare e iscrivere tra le più esaltanti visioni dell’avanguardia mondiale. Da tempo, oramai, Alberto stava male: soffriva a causa di un cancro che lo stava logorando, non aveva casa (molte le petizioni a suo favore, c’è da dire che il mondo che amava lo ha ricambiato con forza), era debole e malandato. Ma non ha mai svenduto la sua coerenza intellettuale, questo no. E forse si tratta di un pregio non semplice da comprendere appieno. Mancherà, Alberto Grifi: al cinema italiano, nel quale ha rappresentato una voce libera come poche, agli studi sull’arte digitale, al sottoscritto. Anzi, sta già mancando.
Raffaele Meale
http://www.cineclandestino.it/it/speciali/saggi/2008/alberto-grifi-il-cinema-oltranzista.html
"Autoritratto"
Autoritratto: all’incrocio fra il pubblico e il privato
Che si concretizzi in un racconto scritto o in una sola immagine, l’autoritratto sembra rispondere a un’esigenza tipicamente umana. Nei secoli, tale tendenza ha assunto forme e usi diversi, di volta in volta adeguati al paradigma rappresentativo imposto dalla cultura dominante. Ma a quale bisogno specifico risponde questa tendenza che da sempre spinge pittori, scrittori, fotografi, registi, filosofi a cercare una forma (artistica o no) a cui affidare il compito di esteriorizzare, rendendo in certa misura pubblico, ciò che è invece interiore, e dunque essenzialmente privato? Nella riflessione di Arendt (cfr. Vita activa), il racconto di sé diventa necessario proprio con la fuoriuscita dall’ambiente familiare domestico e la conseguente apertura di un orizzonte propriamente politico. Si diventa soggetti pubblici quando, abbandonata la dimensione chiusa della propria privatezza interiore, si entra a far parte di un consesso in cui “agire” significa essenzialmente “prendere parola”. È in quel momento che si assiste alla propria “seconda nascita” e si può dar conto di ciò che si è, attraverso un racconto che non può però non incappare non in una sorta di inaggirabile paradosso: esso non potrà aver fine (e dunque essere considerato propriamente un racconto) fin quando sarà affidato alla stessa persona di cui racconta. Essendo allo stesso tempo attore, colui che racconta delle proprie azioni non potrà raccontare di ciò che metterà inesorabilmente fine contemporaneamente alle sue azioni e al racconto di esse: la morte.
Si pensi, a questo proposito, al complesso intreccio tra pubblico e privato nel cinema di autori come Amos Gitai e Elia Suleiman.
Si pensi, a questo proposito, al complesso intreccio tra pubblico e privato nel cinema di autori come Amos Gitai e Elia Suleiman.
Autoritratto come auto-ritrarsi
L’ambivalenza del verbo “ritrarsi” restituisce bene il paradosso in cui finisce per imbattersi ogni autoritratto: dietro la possibilità di restituire un’immagine più o meno fedele di sé si nasconde infatti la necessità di ritrarsi (nel senso di tirarsi fuori da sé), di considerarsi, cioè, “estranei” in casa propria. La psicoanalisi freudiana ha dato, per la prima volta, una spiegazione a una condizione che appartiene all’uomo fin dalle sue origini. Qualcosa sfugge sempre alla nostra consapevolezza e dunque al racconto che di noi stessi siamo in grado di fornire. Si riferisce a una convinzione come questa la Kristeva, quando riconduce le numerose immagini di teste senza corpo (cfr. La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente) a un inconscio desiderio di escissione che sarebbe alla base, fra le altre cose, di ogni autoritratto. Un taglio separa il sé dall’immagine in cui si rappresenta, una cesura che apre uno spazio di distanza che impedisce di considerare l’immagine come semplice duplicato del soggetto che pure l’ha originata. Nessuna coincidenza possibile riesce dunque a sopravvivere in una prospettiva che è aperta certamente da Freud e a cui fa di nuovo riferimento un autore come Derrida, nei due testi che dedica ad altrettante forme diverse di racconto di sé: l’autoritratto per immagini e l’autobiografia (cfr. Memorie di un cieco. L’autoritratto e altre rovine e Memorie per Paul de Man). L’idea della totale indecidibilità fra racconto autobiografico e finzione ritorna, appunto, anche in un testo di Paul de Man (quello da cui lo stesso Derrida prende le mosse), in cui la presa di distanza da sé (qui intesa nei termini della finzione) diviene requisito essenziale per la costruzione del racconto in prima persona (cfr. L’autobiografia come “sfiguramento”). Sono innumerevoli le tecniche che possono essere utilizzate a questo scopo: qui basti ricordare, per esempio, l’uso dello pseudonimo (è il caso di Colette, la narratrice francese a cui, non a caso, Kristeva dedica una importate biografia) o quello dell’alter-ego. Attraverso la storia di qualcuno che non sono io, racconto in realtà la mia storia, come accade nel romanzo che ancora una volta Kristeva (il numero si apre con una conversazione insieme alla filosofa francese) dedica alla figura di Santa Teresa d’Avila. Vengono in mente allora le immagini lancinanti di Nicholas Ray in Nick’s Movie di Wenders o Garage Demy o Les plages d’Agnes di Varda; o ancora al cinema di Garrel, dell’ultimo Pollet.
Dal primato dell’azione alla supremazia del dettaglio
Michel Foucault ha ritrovato nella confessione il momento istitutivo in cui l’infimo, il non detto, i pensieri e i desideri più reconditi accedono a parola in una cornice mediata dal potere. Erede della pratica confessoria è tutta la grande tradizione romanzesca dal secondo Ottocento in poi, in cui il linguaggio interiore trova nello spazio del romanzo (Flaubert, Proust e Joyce) il suo luogo più importante di manifestazione. È il carattere confessorio del romanzo moderno su cui ha insistito Maria Zambrano. Secondo questa direttrice, dunque, l’autoritratto si installa dove un ritratto non è possibile, cioè dove tutta un’interiorità prende parola senza potersi trasformare in azione.
La prospettiva, che qui abbiamo si integra con quella riconducibile a un orizzonte chiaramente psicoanalitico (che va da Freud fino a Lacan) e si oppone a un’idea di autoritratto come quella emerso dalla posizione di Arendt. Se in quest’ultimo caso il racconto di sé passava attraverso la possibilità di restituire principalmente le azioni di una vita (nello specifico quella di colui che racconta), nella chiave confessorio- psicoanalitica, il racconto di sé finisce per dar rilievo a elementi che si potrebbero ritenere inessenziali o addirittura trascurabili, esattamente come inessenziale o trascurabile è un dettagliato all’interno di una descrizione complessa e articolata. Se non è possibile offrire un’immagine o un racconto di sé completo ed esaustivo, diviene quasi imprescindibile la scelta di affidare tale compito a qualcosa che, pur nella sua dichiarata parzialità, sia in grado di restituire il senso di una unità, divenuta di per sé inaccessibile. È la logica che si nasconde dietro quelle forme di autoritratto che, per esempio, si richiamano alla forma della confessione (religiosa o no) o, in una versione certamente più recente, dell’autoanalisi psicoanalitica.
Il cinema, almeno secondo letture ormai celebri (da Ejzenštejn a Rancière), e ancor prima la fotografia hanno raccolto questa importante eredità, senza dimenticare, questo è ovvio, la sua indiscutibile capacità di costruire grandi racconti epici.
Il cinema come “linguaggio muto” delle cose non dette e perfino indicibili, come autodenominazione del mondo fin nei suoi aspetti molecolari. È così che, al cinema, il racconto di sé passa dalle forme di narrazione più classiche a quelle dichiaratamente intimistiche, a seconda che l’occhio sensibile della macchina da presa sia posto più o meno vicino alla vita che vuole restituire.
È questo il caso di forme cinematografiche anche radicalmente diverse come quelle di Mekas, Brakhage da una parte, e di Moretti o Chaplin (si pensi a Un re a New York) dall’altra.
La prospettiva, che qui abbiamo si integra con quella riconducibile a un orizzonte chiaramente psicoanalitico (che va da Freud fino a Lacan) e si oppone a un’idea di autoritratto come quella emerso dalla posizione di Arendt. Se in quest’ultimo caso il racconto di sé passava attraverso la possibilità di restituire principalmente le azioni di una vita (nello specifico quella di colui che racconta), nella chiave confessorio- psicoanalitica, il racconto di sé finisce per dar rilievo a elementi che si potrebbero ritenere inessenziali o addirittura trascurabili, esattamente come inessenziale o trascurabile è un dettagliato all’interno di una descrizione complessa e articolata. Se non è possibile offrire un’immagine o un racconto di sé completo ed esaustivo, diviene quasi imprescindibile la scelta di affidare tale compito a qualcosa che, pur nella sua dichiarata parzialità, sia in grado di restituire il senso di una unità, divenuta di per sé inaccessibile. È la logica che si nasconde dietro quelle forme di autoritratto che, per esempio, si richiamano alla forma della confessione (religiosa o no) o, in una versione certamente più recente, dell’autoanalisi psicoanalitica.
Il cinema, almeno secondo letture ormai celebri (da Ejzenštejn a Rancière), e ancor prima la fotografia hanno raccolto questa importante eredità, senza dimenticare, questo è ovvio, la sua indiscutibile capacità di costruire grandi racconti epici.
Il cinema come “linguaggio muto” delle cose non dette e perfino indicibili, come autodenominazione del mondo fin nei suoi aspetti molecolari. È così che, al cinema, il racconto di sé passa dalle forme di narrazione più classiche a quelle dichiaratamente intimistiche, a seconda che l’occhio sensibile della macchina da presa sia posto più o meno vicino alla vita che vuole restituire.
È questo il caso di forme cinematografiche anche radicalmente diverse come quelle di Mekas, Brakhage da una parte, e di Moretti o Chaplin (si pensi a Un re a New York) dall’altra.
Suggerimenti filmografici
Italianamerican (M. Scorsese, 1974); Il volto di Karin (I. Bergman, 1984); Vanessa in the Garden (C. Eastwood, 1985); J’entends plus la guitare (P. Garrel, 1991); El sol del membrillo (V. Erice, 1992); JLG/JLG - autoportrait de décembre (J.-L. Godard, 1994); Dieu sait quoi (J.-D. Pollet, 1994); Teatro di guerra (M. Martone, 1998); Bodas de Deus (J.C. Monteiro, 1999); As Porto da minha infância (M. De Oliveira, 2001); Flashback (H. Frank, 2002); Takeshis’ (T. Kitano, 2005); Mulberry Street (A. Ferrara, 2006); Autoritratto Auschwitz/L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lagrima (A. Grifi, 1965-68/2007); Carmel (A. Gitai, 2009); Il tempo che ci rimane (E. Suleiman, 2009); Copia conforme (A. Kiarostami, 2010); Sorelle mai (M. Bellocchio, 2010); Road to Nowhere (M. Hellman, 2010).
http://fatamorgana.unical.it/numero15/num15.htm
http://fatamorgana.unical.it/numero15/num15.htm
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Omaggio Ad Alberto Grifi
La definizione di Grifi come padre del cinema underground italiano è servita per archiviare in fretta e rivoltargli contro la sua decostruzione del ruolo di artista-regista e perchè i suoi film diventassero oggetti di culto, possibilmente senza che fossero visti, aspettando che la consunzione della memoria delle esperienze collettive che vi è rimasta impressa, come quella dei supporti magnetici vecchi di 30 anni, facessero il loro lavoro.
A noi piace ridare a Grifi,
autore del seminale La Verifica incerta (1964 , con Gianfranco Baruchello), film di montaggio che scompone celebri film hollywoodiani suscitando l’entusiasmo di Man Ray, John Cage e Max Ernst, il diritto di non essere né maestro né padre ma un compagno tra compagni e compagne.. Questo compagno che si innamora e si fa complice di quello che avviene davanti alla camera e che proprio per questo prende posizione, lasciando impressi frammenti di espressione di cultura autonoma dei movimenti degli anni ’70 in Italia come forma di azione politica anche in aperta critica di un “cinema militante in cui si vedono cortei di gente con il pugno chiuso che io non ho mai considerato cinema politico?che mi sembrava al massimo che ricalcassero temi del cinema…diciamo…di regime…”.
Uno dei punti di forza del dominio dello Spettacolo sulla vita sta nel paradosso costitutivo dell’immagine, in una specie di tendenza naturale a trasformare qualsiasi esperienza nel suo feticcio. Anni fa andava di moda una citazione che diceva: quando il dito indica la luna ci sono sempre coloro che si soffermano a guardare il dito.
Insomma a questo paradosso non poteva sfuggire Grifi stesso che, avendo passato la vita a decostruire il suo ruolo di artista e regista svelando l’intima complicità di questo con il potere dell’industria culturale, si è ritrovato con l’ingombrante riconoscimento di “padre del cinema underground italiano”. E’ l’industria culturale che ha bisogno di padri, di fissare tutto in relazioni edipiche, di trasformare esperienze in rappresentazione, come il feticismo dell’immagine necessita che tutto quello che esiste sia quello che entra nell’inquadratura.
autore del seminale La Verifica incerta (1964 , con Gianfranco Baruchello), film di montaggio che scompone celebri film hollywoodiani suscitando l’entusiasmo di Man Ray, John Cage e Max Ernst, il diritto di non essere né maestro né padre ma un compagno tra compagni e compagne.. Questo compagno che si innamora e si fa complice di quello che avviene davanti alla camera e che proprio per questo prende posizione, lasciando impressi frammenti di espressione di cultura autonoma dei movimenti degli anni ’70 in Italia come forma di azione politica anche in aperta critica di un “cinema militante in cui si vedono cortei di gente con il pugno chiuso che io non ho mai considerato cinema politico?che mi sembrava al massimo che ricalcassero temi del cinema…diciamo…di regime…”.
Uno dei punti di forza del dominio dello Spettacolo sulla vita sta nel paradosso costitutivo dell’immagine, in una specie di tendenza naturale a trasformare qualsiasi esperienza nel suo feticcio. Anni fa andava di moda una citazione che diceva: quando il dito indica la luna ci sono sempre coloro che si soffermano a guardare il dito.
Insomma a questo paradosso non poteva sfuggire Grifi stesso che, avendo passato la vita a decostruire il suo ruolo di artista e regista svelando l’intima complicità di questo con il potere dell’industria culturale, si è ritrovato con l’ingombrante riconoscimento di “padre del cinema underground italiano”. E’ l’industria culturale che ha bisogno di padri, di fissare tutto in relazioni edipiche, di trasformare esperienze in rappresentazione, come il feticismo dell’immagine necessita che tutto quello che esiste sia quello che entra nell’inquadratura.
Grifi, che nelle sue incursioni fuori dall’orizzonte addomesticato della provincia Italia, riceve iniziazioni importanti come quella di Marcel Duchamp, che molestato nel suo studio parigino risponde frustrando le aspettative del giovane cineasta, come dice lui stesso a distanza di anni “la bacchettata del maestro zen sulla testa del discepolo in cerca di risposte che confermino il proprio ego”. Bacchettata che apre “all’ascolto del flusso di creatività continuo e profondo del vivente…scandaloso agli occhi degli adoratori di simulacri, dei frequentatori di musei e cineteche”.
Negli incontri seguenti con Felix Guattari, nella scoperta dell’ economia libidinale di François Lyotard, insieme a quelli di compagni di strada dell’avanguardia newyorkese, Grifi affina la sua pratica delle intensità, la ricerca sulla memoria profonda di un passato biologico: “progettare un corpo collettivo nuovo, configurare una nuova geografia di passioni molto al di là dei limiti angusti dell’orizzonte antropocentrico”.
In Italia alla fine degli anni sessanta c’è un’altra zona di intensità intorno all’appartamento romano di Cesare Zavattini, altro “padre” secondo il costume edipico della cultura italiana, autore della breve ma intensa stagione del cinema neorealista italiano. Nella casa di Zavattini, teorico inoltre della tecnica del pedinamento, si riunivano allora giovani cineasti intorno all’esigenza di un “cinema rivoluzionario”. Grifi racconta di notti passate a discutere nelle quali Zavattini ottantenne saltava gridando sopra i divani del salotto, per arrivare alla scoperta che per fare un cinema rivoluzionario è necessario abbandonare il cinema; cinema che con la sua struttura produttiva non può che riprodurre la legge del denaro. E il regista? Non può che essere colui che amministra la realtà nello spazio cinematografico secondo le regole date dal capitale investito dalla produzione.
Questo é anche il tempo in cui Alberto conosce la persecuzione giudiziaria e il carcere, due anni di condanna senza onere di prova da parte di una polizia e una magistratura italiana ancora nelle mani di residui del regime fascista. Da questa sua esperienza nascerà “Michele alla ricerca della felicità“, uno dei primi esperimenti di docu-fiction. Ambientato in carcere, non saranno attori a recitare ma chi quell’esperienza l’ha veramente vissuta.
Fuori dal carcere sono gli anni 70 e in Italia c’è ancora la stessa primavera del 68.
Per togliere spazio alla dittatura del denaro sul set cinematografico, e per sperimentare nuove forme di linguaggio e di supporti, Grifi inizia a girare su nastri magnetici, forse i primi ad arrivare in Italia, inventando anche un procedimento per trasferire le immagini del videotape su pellicola – una macchina che è poi l’esatto contrario del Telecinema cui Grifi ha dato il nome di Vidigrafo – abbattendo i costi di produzione e permettendo l’incursione nello spazio cinematografico a porzioni di realtà che il cinema neanche aveva la capacità di sognare.
I film a cui lavora Grifi iniziano a esplodere dall’interno, in “Anna” del 1972 il set del film si fa il luogo di una rivolta di attori e tecnici che spontaneamente finiscono per mettere fuori la funzione di direzione del regista; tanto che l’elettricista entrò un bel giorno in campo per dichiarare il suo amore ad Anna, la ragazza protagonista di questo lungo documentario che è poi diventata la documentazione della vita dell’oggetto ripreso ma anche dei soggetti che stavano riprendendo.
Grifi segue filmando in quegli anni i movimenti autonomi, l’irruzione nella politica di soggetti anch’essi politici ma alieni alla tradizione del movimento operaio, che praticavano il rifiuto del lavoro salariato, che discutevano i ruoli all’interno della famiglia, i freak, le donne, i matti : “i film che girammo in quegli anni testimoniano questo tipo di comportamenti, un tipo di cultura proletaria, di quel lumpenproletariat che non aveva mai avuto voce e che invece aveva da dire…era quello che aveva aperto porte e guardato fuori da finestre da cui nessuno aveva mai guardato…”
Ritorna la repressione e il riflusso insieme alla falsificazione storica, i nastri di Grifi sembrano non interessare più a nessuno in Italia, tanto che anche lui se li dimentica in qualche scaffale fino all’inizio degli anni 90. Questo é il momento in cui si accorge che le emulsioni si sono incollate e non permettono piu’ ai nastri di girare nei videoregistratori.
Grifi passa gli ultimi 10 anni a lavorare sul progetto di un’altra macchina, che permetta il lavaggio dei nastri con speciali solventi per arrivare poi alla loro digitalizzazione, con cui riesce a recuperare gran parte del suo archivio.
Alberto Grifi è stato molto di più e quello che ci preme dire ora, a così poco tempo dalla sua perdita, è che ha creato comunità e movimento nel senso più autentico che queste parole hanno.
E tutta la sua vita, inscindibile dalle sue opere, sono state un atto d’amore.
Silvia Caracciolo
http://www.digicult.it/digimag/issue-024/homage-to-alberto-grifi/
Negli incontri seguenti con Felix Guattari, nella scoperta dell’ economia libidinale di François Lyotard, insieme a quelli di compagni di strada dell’avanguardia newyorkese, Grifi affina la sua pratica delle intensità, la ricerca sulla memoria profonda di un passato biologico: “progettare un corpo collettivo nuovo, configurare una nuova geografia di passioni molto al di là dei limiti angusti dell’orizzonte antropocentrico”.
In Italia alla fine degli anni sessanta c’è un’altra zona di intensità intorno all’appartamento romano di Cesare Zavattini, altro “padre” secondo il costume edipico della cultura italiana, autore della breve ma intensa stagione del cinema neorealista italiano. Nella casa di Zavattini, teorico inoltre della tecnica del pedinamento, si riunivano allora giovani cineasti intorno all’esigenza di un “cinema rivoluzionario”. Grifi racconta di notti passate a discutere nelle quali Zavattini ottantenne saltava gridando sopra i divani del salotto, per arrivare alla scoperta che per fare un cinema rivoluzionario è necessario abbandonare il cinema; cinema che con la sua struttura produttiva non può che riprodurre la legge del denaro. E il regista? Non può che essere colui che amministra la realtà nello spazio cinematografico secondo le regole date dal capitale investito dalla produzione.
Questo é anche il tempo in cui Alberto conosce la persecuzione giudiziaria e il carcere, due anni di condanna senza onere di prova da parte di una polizia e una magistratura italiana ancora nelle mani di residui del regime fascista. Da questa sua esperienza nascerà “Michele alla ricerca della felicità“, uno dei primi esperimenti di docu-fiction. Ambientato in carcere, non saranno attori a recitare ma chi quell’esperienza l’ha veramente vissuta.
Fuori dal carcere sono gli anni 70 e in Italia c’è ancora la stessa primavera del 68.
Per togliere spazio alla dittatura del denaro sul set cinematografico, e per sperimentare nuove forme di linguaggio e di supporti, Grifi inizia a girare su nastri magnetici, forse i primi ad arrivare in Italia, inventando anche un procedimento per trasferire le immagini del videotape su pellicola – una macchina che è poi l’esatto contrario del Telecinema cui Grifi ha dato il nome di Vidigrafo – abbattendo i costi di produzione e permettendo l’incursione nello spazio cinematografico a porzioni di realtà che il cinema neanche aveva la capacità di sognare.
I film a cui lavora Grifi iniziano a esplodere dall’interno, in “Anna” del 1972 il set del film si fa il luogo di una rivolta di attori e tecnici che spontaneamente finiscono per mettere fuori la funzione di direzione del regista; tanto che l’elettricista entrò un bel giorno in campo per dichiarare il suo amore ad Anna, la ragazza protagonista di questo lungo documentario che è poi diventata la documentazione della vita dell’oggetto ripreso ma anche dei soggetti che stavano riprendendo.
Grifi segue filmando in quegli anni i movimenti autonomi, l’irruzione nella politica di soggetti anch’essi politici ma alieni alla tradizione del movimento operaio, che praticavano il rifiuto del lavoro salariato, che discutevano i ruoli all’interno della famiglia, i freak, le donne, i matti : “i film che girammo in quegli anni testimoniano questo tipo di comportamenti, un tipo di cultura proletaria, di quel lumpenproletariat che non aveva mai avuto voce e che invece aveva da dire…era quello che aveva aperto porte e guardato fuori da finestre da cui nessuno aveva mai guardato…”
Ritorna la repressione e il riflusso insieme alla falsificazione storica, i nastri di Grifi sembrano non interessare più a nessuno in Italia, tanto che anche lui se li dimentica in qualche scaffale fino all’inizio degli anni 90. Questo é il momento in cui si accorge che le emulsioni si sono incollate e non permettono piu’ ai nastri di girare nei videoregistratori.
Grifi passa gli ultimi 10 anni a lavorare sul progetto di un’altra macchina, che permetta il lavaggio dei nastri con speciali solventi per arrivare poi alla loro digitalizzazione, con cui riesce a recuperare gran parte del suo archivio.
Alberto Grifi è stato molto di più e quello che ci preme dire ora, a così poco tempo dalla sua perdita, è che ha creato comunità e movimento nel senso più autentico che queste parole hanno.
E tutta la sua vita, inscindibile dalle sue opere, sono state un atto d’amore.
Silvia Caracciolo
http://www.digicult.it/digimag/issue-024/homage-to-alberto-grifi/
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