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lunes, 7 de enero de 2013

Salomè - Carmelo Bene (1972)


TÍTULO ORIGINAL Salomè
AÑO 1972
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Italiano e Inglés (Separados)
DURACIÓN 75 min.
DIRECTOR Carmelo Bene
GUIÓN Carmelo Bene
MÚSICA Richard Strauss
FOTOGRAFÍA Mario Masini
REPARTO Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Alfiero Vincenti, Donyale Luna, Veruschka, Piero Vida, Franco Leo, Giovanni Davoli, Luciana Cante, Marco Carelli
PRODUCTORA Ital-Noleggio Cinematografico / Ministero del Turismo e dello Spettacolo
GÉNERO Drama | Cine experimental

SINOPSIS Salomé, la lasciva hija de Herodes Filipo, es el objeto de deseo de su depravado padrastro, el rey Herodes Antipas. Cuando su intento de seducir a Juan el Bautista fracasa, salomé acepta satisfacer los pervertidos deseos de su padrastro mediante el famoso baile de los siete velos. Como compensación, pide a su padrastro la cabeza de Juan el Bautista. (FILMAFFINITY)




L’uomo tende ad identificarsi con la sua dimensione mitologica. La civiltà in cui vive non è che il portato di una complessa costruzione simbolica, una macchina che modifica le stesse funzioni biologiche. Parlare dell’uomo è parlare dei suoi miti: esistere è accettare questa dimensione. Carmelo Bene esiste, ma dalla sua consapevole scelta traspare l’ansia di un angoscioso rifiuto, il dubbio di una rivolta disperata. E’ un vivere al limite della propria esistenza: da una parte l’annullamento della mitologia, dall’altra il rischio della solitudine metafisica. Trovare l’equilibrio è rischiare la pelle: la vita si sperimenta bruciando la propria vita, non c’è altra scelta. Questo è il dramma che Bene continua a portare sullo schermo, di volta in volta con un referente diverso; si tratti di Erode e di Salomè o di Don Giovanni, poco importa rispetto al metodo, rispetto al lavoro cinematografico e al giudizio che da esso traspare. Del mito di Salomè interessa più l’essere mito che non il “significato” particolare. La mitologia viene indagata nelle sue strutture, poiché solo le modalità d’esistenza possono rivelarci il senso dell’essere. Salomè, allora, funziona da metafora vivente per una presa di coscienza della storia, delle sue chiusure o autoimpatti, delle sue costituzionali “falsità”. La tensione a conoscere gli oggetti da soggetto porta alla delusione di una risposta alienante, alla mortificazione della spinta nativa nella palude del rito. Solo la presa di coscienza (dolorosa) di tale degradamento può indicarci la strada di una rivoluzione da compiere. Ed è appunto al rito (il banchetto di Erode) che Bene ci invita, per mostrarcene gli elementi più significativi, per farci partecipare di un’analisi condotta con mezzi artistici. La corrosione del rito assume forma poetica grazie alla consapevolezza della parallela e complementare dissoluzione del rito, esemplarmente enunciata fin dalla prima sequenza del film: «non c’è altro amore che l’amore di Dio» (il mito per eccellenza, la cupola sotto cui viviamo da millenni) diviene «non c’è altro amore che l’amore» e poi «non c’è altro».. E’ una specie di crisi portante, che libera nel suo attuarsi tutta una serie di corrispondenti opposizioni (ognuna delle quali trae vita dalla “falsità” dell’altra): il Cristo e l’anti-Cristo, la luna e il sole, il caldo e il freddo, il profetismo e l’orgia, la vita e la morte, il trasparente e l’opaco.
La figura di Erode si muove, anzi si dibatte con grande sofferenza nell’infernale contesto dove ogni concetto diventa un riferimento stereotipo, ogni giudizio una frase fatta. E’ l’inferno tutto terreno di un’esistenza non dialettica, di una prigionia formale pietrificante. Al suo interno, la fantasia dell’artista cerca il proprio sprigionamento, aspira ad un programma liberatorio e sovversivo, mentre soggiace alla continua mortale minaccia del già detto e del banale: una corsa in discesa che sembrerebbe inarrestabile, alimentata com’è da tutto un inventario di simboli che si legano l’un l’altro per via del loro innato cannibalismo. Ma Carmelo Bene trova il modo di uscire da questo inferno: ne esce restandoci immerso fino al collo ed offrendo la propria condizione al “pasto” dello spettatore, avvertendolo ad ogni istante che il pranzo sarà molto indigesto. In termini espressivi: la complessità della composizione (a tutti i livelli: sonoro-visivo, inquadratura montaggio, colore) e il frammentarsi della percezione in un arduo paesaggio, antinaturalistico, figurativo solo alla prima lettura. L’ansia di autenticità, tradotta in negativo nella impossibilità di uscire dall’universo mitologico, porta l’uomo alla disperazione più profonda nel momento in cui si fa lucida la sua coscienza. Ma, a questo livello, non c’è più differenza tra Erode, che sa di non poter volere altro che uno specchio per guardarsi («Non bisogna guardare nelle persone o nelle cose, bisogna guardare solo negli specchi»); che conosce il potere opprimente della storia e del mito («Non gli permetto di resuscitare i morti: sarebbe terribile se i morti rivivessero»; «non bisogna cercare simboli dappertutto: la vita sarebbe impossibile»); e il profeta, che trae le sua invettive da ragioni a lui esterne e che parla un linguaggio a lui incomprensibile (la battuta: «Avanti popolo, a riscuotere», detta da una figura di contadino-bracciante-calciatore della nazionale, è la frase politicamente più micidiale di tutto il cinema italiano, perché sono le parole di uno schiavo che non sa di essere schiavo, ma anzi è stato convinto di essere un rivoluzionario e per questo è disposto a prendersi tanti schiaffi, anche se non sa perché glieli danno, con tanto fervore). Non c’è differenza, nella misura in cui ogni parole ci impegna, nell’implacabile meccanismo della «verità»; nel momento che ci sentiamo signori di noi stessi, stiamo mettendo sul tavolo la nostra vita, il senso stesso della nostra esistenza («I re non devono mai dare la loro parola»). E mentre gli altri (tutti) fanno a gara per tradire i «santi» corrotti e corruttibili che vivono dentro di loro («Uno di voi mi tradirà… Io! Io! Io!») - Cristo tenta invano di crocefiggersi con le proprie mani - , Erode paga il presso salatissimo della sua vanità; egli ha osato chiedere un gesto, sperare in uno scatto della fantasia, puntare tutto su un attimo di ebbrezza, ma i veli di Salomè nascondono il nulla (cfr. la figura evanescente di Donyale Luna) e chiedono il massimo prezzo: la testa del profeta. Salomè è la vanificazione dell’uomo come rapporto, come relazione storica; di una storia che non è altro che mito: una serie di frasi fatte che non spiegano niente. Il film termina con Salomè che scortica vivo Erode sotto il sole. Poi lo schermo bianco.
http://forum.tntvillage.scambioetico.org/index.php?showtopic=159348
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Penultima avventura davanti (e dietro) l’odiata macchina da presa, Salomè è probabilmente (oltre al diavolo) il sunto della poetica cinematografica iconoclasta e furente di Carmelo Bene. L’incontenibile (e incontentabile) genio salentino, infatti, dopo spudorate rivoluzioni teatrali, nel 1968 inaugura un lustro a 35 millimetri con l’oltraggioso Nostra Signora dei turchi (Leone d’argento alla Mostra di Venezia), per poi proseguire, con altri tre splendidi titoli, la sua opera di disfacimento filmico fino al requiem di Un Amleto di meno nel 1973. Cinque anni di sciopero da palcoscenico per dedicarsi esclusivamente a una crociata contro la religione cinema, un culto tanto odiato quanto adulato (Buster Keaton e Joao César Monteiro su tutti), ma che, grazie a Salomè, è così funereo da risultare fecondissimo. Il film infatti è permeato (volutamente o meno) di una forza artistica e creatrice che solo la magia della celluloide è in grado di partorire (con i dovuti genitori) e l’illusionista Carmelo riesce a saldare, in un’unica potentissima lega kitsch, disaccordi e contraddizioni, volgarità e sublime, misticismo e carnalità. Salomè (come d’abitudine, figlia di precedenti parti teatrali) è lo sposalizio della teatrale esuberanza del Barocco (leccese) e dello schiaffo immorale della Pop Art, la danza dei sette veli musicata da Strauss, ma anche le languide, lacrimose note delle canzonette popolari (Rosamunda, Vipera, Valzer spensierato), la tragedia costante e annunciata che all’improvviso si acquieta nello sberleffo cattolico (Cristo ha canini da vampiro degni di Bela Lugosi). Un equilibrio rarissimo che si riflette in specchi opposti, anche grazie alla magnetica fisicità di Bene che straripa a ogni inquadratura pur conservando un essenza quasi impalpabile ed eterea (Erode non è che il simbolo del paganesimo in totale dissoluzione). In Salomè l’orgia non si nutre solamente del malriuscito party del tetrarca, ma si impossessa della macchina da presa generando una baldoria registica capace di ben 4500 inquadrature, di un cacofonico concerto di voci stridule, di acrilici impazziti che esasperano gli occhi e di primissimi piani di corpi condannati al cupio dissolvi. Anche le scenografie (realizzate dall’artista Gino Marotta) sono un baccanale visivo senza precedenti: la corte di Erode è una sorta di isola galleggiante e sempre in movimento, piena di palme coloratissime, di tavolate lussureggianti, di uomini e donne adornati di fiori (di plastica). Lo stupore visivo è reso ancora più sconvolgente dall’aggiunta (sui corpi, sugli oggetti e sui costumi) di tessere luminose in grado di creare una sorta di “effetto mosaico” (grazie all’uso dello scotchlite, un materiale rifrangente che, opportunamente illuminato, crea un effetto di acrilica bellezza). Nell’antico delirio barocco, il cast è squisitamente in sintonia con la modernità dell’epoca grazie alla scheletrica musa (afroamericana/warholiana) Donyale Luna (la principessa Salomè) e all’abbagliante carnalità delI’iconissima Veruschka (Myrrhina). Entrambe ammaliano le orbite impazzite di un Carmelo/Erode quasi sempre turgido e nudo fino alla redenzione finale, che pare tramutano in creatura mistica e celestiale quando ormai la negazione della matrice divina Beniana può rivelarsi solo pura blasfemia.
(testo di Cecilia Ermini, estratto dal settimanale Film.TV, 11 marzo 2012)
http://2047ways.blogspot.com.ar/2012/05/carmelodramma-carmelo-bene-e-la-sua.html


Per anni il cinema di Carmelo Bene è stato ingiustamente ignorato dai media e fino a poco tempo fa non esisteva alcun DVD che testimoniasse la sua eccentrica opera. Meno male che ci ha pensato la Rarovideo, che ha pubblicato un bel prodotto, con tanto di libro annesso, proponendo "Nostra Signora dei Turchi" ed il corto "Hermitage". A ruota la "riscoperta" di Bene continua, con le letture di Dante, il CD di "Pinocchio" e l'edizione finalmente in DVD di "Salomè", opera datata 1972, una tra le più fruibili e divertenti dell'autore.
La trama è scontata, riprende infatti il tema biblico: Erode Antipa (interpretato da Bene stesso) sposa la cognata Erodiade (Mancinelli-Vincenti) e si invaghisce della figlia di lei, Salomè appunto, avuta dalla precedente unione. Nel frattempo, prigioniero nel palazzo, si trova Giovanni Battista, inviso ad Erodiade. Convinta dalla madre, Salomè cede alle lusinghe di Erode, eseguendo per lui la celeberrima danza, ottenendo in cambio la decapitazione dal Santo. Passando forzatamente attraverso quel testo di Oscar Wilde, così decadente e sfavillante di ori, argenti e personaggi sporchi, meschini e, tuttavia affascinanti, Bene mastica e sputa l'opera di Wilde e la rende propria. Non sono da sottovalutare le suggestioni dei disegni di Beardsley, eleganti ed erotici. Al gusto decadente e raffinato, il regista sostituisce lo sfavillio di luci psichedeliche e scenografie straordinarie che ricostruiscono una crepuscolare reggia, condita di vasche, frutti e cibi di ogni tipo, costumi esagerati di sapore teatrale. Al contrario di quanto accade in "Un Amleto di Meno" qui Bene non si diverte a distruggere l'opera, ma si limita a prenderne possesso. Il film procede per immagini, mostrando i deliri del tetrarca (che ripete ossessivamente frasi e concetti, tra cui "Salomè, danza per me.."), soffermandosi sulle nenie di Erodiade (che si avvale di una doppia interpretazione), indugiando sulle nudità dei personaggi e sui primissimi piani di bocche che gozzovigliano, su mani sporche di cibo e particolari di oggetti. Ogni tanto si sente qualche grido "Puttana, puttana!" è il Battista (un improbabile vecchio) che apostrofa la regina. Divertente, se così si può dire, la sequenza in cui un martire cerca di crocifiggersi da solo, ma, dopo essersi trafitto con un chiodo i piedi e poi una mano, non riesce a completare l'opera. La pellicola è piena di spunti brillanti o interessanti e, data la cultura di Bene, non è sempre facile cogliere riferimenti e citazioni. Certo, la trama nota aiuta lo spettatore e la lunghezza non eccessiva del film (70 minuti circa) rendono la visione più leggera e piacevole, rispetto ad esempio a "Nostra Signora dei Turchi".
Quando si guarda un film (o un'opera teatrale qualsiasi) di Bene, non bisogna dimenticare, ovviamente, che non si può prescindere da lui: Bene è non solo il fulcro dell'opera, ma è la "Salomè" nella sua totalità, è "Salomè DI Carmelo Bene", una creatura che non può vivere senza il suo ideatore, che si è preso la libertà di soggiogare un mito a proprio uso e consumo. Basti pensare che il ruolo di Salomè venne affidato ad una attrice-modella che a malapena proferisce verbo in italiano forzato. Bene non va mai oltre Bene, ma in questo caso il suo ego basta e avanza per donarci un film particolare, sfarzoso, interessante e, bontà sua, comprensibile.
Di Wiserson
http://www.debaser.it/recensionidb/ID_31886/Carmelo_Bene_Salom_c3_a8.htm


Film destinato ad un pubblico di palato fine.
Salomè riserba infatti molti gaudi allo spettatore che si consegna inerme al bombardamento a tappeto di immagini e di suoni in cui consiste il succo e il fascino della rappresentazione. Opera cinematografica per eccellenza, Salomè è la traduzione per lo schermo, dopo le edizioni teatrali fatte dallo stesso Bene, degli incubi di Erode Antipa, il tetrarca della Galilea che mandò a morte San Giovanni Battista e processò Gesù. Sposato ad Erodiade, già moglie di suo fratello, l'uomo si mangia con gli occhi la bella figliastra Salomè, ma è tormentato dal dubbio che sulle ali di un vento gelido stia per arrivare qualche sventura.
Dopo un prologo che ci offre primi piani di natiche spolverate con un piumino, il film s'addentra nella baraonda d'un grande banchetto, scivolato ovviamente nell'orgia, a cui si mescolano gli strazianti presagi di Erode, tutti espressi in forme grottesche; un' Ultima Cena, dove gli apostoli fanno a gara per passare alla storia come traditori, un Gesù coi dentini alla Dracula, un altro che tenta di inchiodarsi da sé alla croce (ma gli avanza una mano...) e via beffeggiando. Mentre Erode, incalzato dalla lussuria e annebbiato da sanguigni fantasmi, supplica Salomè di danzare per lui, un vecchio farneticante in cui si deve riconoscere Giovanni Battista tenuto prigioniero nella cisterna pronuncia incomprensibili minacce e, in dialetto siciliano, copre di contumelie la principessa.
Da parte loro Erodiade (incarnata da due personaggi, un uomo e una donna), la scongiura di non ascoltare il patrigno, e i cortigiani celebrano le sue grazie assomigliandola alla Luna che impassibile assiste al corso deI destino. Finisce che, ottenuta la promessa d'avere in cambio da Erode tutto quel che vorrà, Salomè compie la danza dei sette veli la cosa più morbida del film, sulla musica di «Abatjour»  ma precipita il tetrarca nella follia col chiedergli la testa del Battista.
Le ultime sequenze vedono Erode spellato da Salomè e l'uomo che cercava di crocifiggersi uscire d'imbarazzo dandosi una martellata in testa.
Chi conosce Carmelo Bene sa che la chiave per penetrarlo è l'eccentricità della fantasia, non speculare sul senso logico del film, ma dobbiamo gustarne gli effetti cromatici e sonori.
Carmelo Bene ha il dente avvelenato con la religione, e perciò gradisce la fama d'irriverente, se non di blasfemo.
In realtà egli è lontano da Bunuel: il suo Cristo che si intreccia la corona di spine cantando Vipera viene dalla festa delle matricole.
La parodia è un'operazione anzitutto strettamente culturale. Essa non funziona, infatti, in presa diretta col reale; bensì nel rapporto con un'opera d'arte che mira a svuotare con la contraffazione caricaturale, è, insomma, un'operazione critica; che, però, ha per scopo non già la comprensione dell'opera ma la sua distruzione.
Cinema dell'atto, senza azione, senza traiettoria, istantaneo nel suo divenire. Lo sguardo non è avvertito se non come falso, sempre filtrato da specchi, schermi, vetri. Ma non è neanche uno sguardo guardato. Caleidoscopio di luci e suoni, quest'urlo abbacinante, questa supernova di voci, musiche e rumori spezzati, contraddetti e rimasticati nella sua caoticità classica offre spiragli di accessibilità pigra.
http://bodosproject.blogspot.com.ar/2011/11/salome-di-carmelo-bene.html

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