TÍTULO ORIGINAL
Agata e la tempesta
AÑO
2004
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
125 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Silvio Soldini
GUIÓN
Silvio Soldini, Doriana Leondeff, Francesco Piccolo
MÚSICA
Giovanni Venosta
FOTOGRAFÍA
Arnaldo Catanari
REPARTO
Licia Maglietta, Giuseppe Battiston, Emilio Solfrizzi, Marina Massironi, Claudio Santamaria, Giselda Volodi
PRODUCTORA
Co-production Italia-Suiza-Reino Unido;
GÉNERO
Romance. Comedia | Comedia romántica
Premios
2005: Premios del Cine Europeo: Nominada a Premio del Público actriz (Maglietta)
2003: Premios David di Donatello: 8 nominaciones, incluyendo mejor actor (Battiston)
Agata e la tempesta intreccia storie d’amore e di scoperte. Agata è una libraia che s’innamora dell’instancabile Nico; Romeo è un rappresentante d’abiti innamorato della moglie costretta su una sedia a rotelle; Gustavo è un architetto affermato che sfascia il suo matrimonio e il suo lavoro dopo aver scoperto di non essere fratello di Agata, bensì di Romeo. Tutto s’intreccia e si mischia ai tradimenti "senza colpa" di Romeo, alle lampadine che Agata fulmina senza volere, ad un nuovo amore nordico per Gustavo che ritrova anche le sue origini.
Quasi un film corale che ritrova in parte le atmosfere (e gli interpreti, anche in alcuni ruoli secondari) di Pane e tulipani. Meno riuscito e un po’ più "svaporeggiante" della precedente commedia, il nuovo film di Silvio Soldini è un simpatico gioco narrativo, pieno di simbolismi, citazioni, rimandi, non sempre immediatamente interpretabili, ma che comunque nemmeno appesantiscono il generale andamento del film. Diciamo che guardando Agata e la tempesta si ha l’impressione di vivere una vacanza tra amici. Il film è insomma un lavoro spensierato, una storia che sembra avanzare con un movimento casuale, come un leggero e spensierato flusso di coscienza. Ad una visione fredda può essere visto come un film narrativamente discontinuo e, almeno in una certa misura, non si può non avvertire una sensazione di dispersione, come se qualcosa sfuggisse o mancasse. Se però ci si lascia coinvolgere a sufficienza dal suo mondo di colori (dato da un mix di elementi: le luci di Aldo Cattinari, i costumi di Silvia Nebiolo e la scenografia di Paola Bizzarri), Agata e la tempesta si lascia tranquillamente perdonare certi passaggi strani, certi dettagli poco chiari.
La regia di Soldini è come sempre a tono con ciò che vuole mostrare, capace di insolite composizione quasi-pittoriche (esemplare in questo senso l’inquadratura in cui tutti i lampioni della strada si spengono), e di creare attese e curiosità (quando lascia che i suoni anticipino ciò che ancora dobbiamo vedere, come nelle scene degli incidenti).
Grande plauso a tutti gli interpreti. Licia Maglietta (Agata) è spaesata, simpatica e spensieratamente disinvolta; Giuseppe Battiston (Romeo) è la perla del film, con la sua particolare filosofia di vita e quell’accento romagnolo che aumenta la naturale simpatia del personaggio; Emilio Solfrizzi (Gustavo) è un’indifesa anima in pena, qualcuno che cerca un senso per la sua vita, ma senza pesanti esistenzialismi. In fine ricordiamo Claudio Santamaria, l’innamorato poetico e combattivo di Agata; Monica Nappo, la dolce moglie di Romeo; Giselda Volodi, amica e collega di Agata; Marina Masironi, la moglie di Gustavo, forse il personaggio meno interessante e più sfuggente del film.
Agata e la tempesta è un film spesierato e leggero, ma niente affatto scontato. Simpatico e ideale più o meno per tutti.
Sergio Gatti
http://www-9.unipv.it/cinema/spazio/recensioni/agataetempesta.htm
Il primo film italiano della stagione è opera di Silvio Soldini, un autore che dopo il successo di “Pane e tulipani” è diventato noto anche al grosso pubblico, ma che noi abbiamo seguito fin dall’esordio (“L’aria serena dell’ovest”, nel nostro cartellone nella stagione 1991/92) e più volte riproposto al nostro pubblico (“Un’anima divisa in due” – stagione 93/94, “Le acrobate” – stagione 97/98, e “Brucio nel vento” – stagione 2002/03).
Dopo il cupo ed angosciante melodramma di “Brucio nel vento”, Soldini torna ai toni surreali e fiabeschi di “Pane e tulipani”, proseguendo con coerenza l’esplorazione dell’universo femminile e dei destini che s’intrecciano. Ed ecco allora “Agata e la tempesta”, stessa pasta di realismo magico, stessa commedia surreale, con una storia che ha andamento centrifugo e personaggi che si muovono all’insegna del nomadismo dell’anima, e dove le tipologie sono schizzate con adeguato spessore psicologico.
La libraia Agata (una bravissima, solare Licia Maglietta, attrice feticcio di Soldini, nonchè sua compagna nella vita) è una donna che ha provato molte delusioni d’amore e tuttavia irradia ottimismo ed energia al punto da fulminare le lampadine; tra gli scaffali della libreria si innamora di un giovane ardente che ha dieci anni meno di lei; suo fratello Gustavo è invece un architetto, separato dalla moglie psicologa in tv, che entra in crisi quando scopre dal fratellastro, commerciante ed impenitente dongiovanni con moglie paralitica, che in realtà è stato adottato da quelli che riteneva essere suoi genitori.
Commedia insolita su un soggetto insolito: la felicità, ovvero la possibilità (e il coraggio) di essere felici. Come si fa a girare un film su un soggetto tanto inafferrabile?
La risposta di Soldini è semplice, pedinando e stanando tutti quegli stadi intermedi che preludono o conducono alla felicità: l’innamoramento, la meraviglia, la scoperta di dimensioni insospettate dell’esistenza, con tutto quello che ne consegue, perché naturalmente non basta innamorarsi o cambiar vita per essere felici, anzi ogni mutamento profondo può portare alla rovina, alla tempesta, appunto.
“Agata e la tempesta” è un racconto disseminato di incontri, all’apparenza insignificanti, di piccoli eventi in grado di rivoluzionare molte esistenze, di avviarle ad una rinascita: è un film sul desiderio, a lungo ignorato e trascurato, di un cambiamento, magari radicale, per apprezzare meglio le piccole felicità, le modeste ma appaganti gioie di una vita diversa.
Ambientato fra Genova e la pianura padana, il film conferma l’abilità di Soldini ad entrare ed uscire dal genere, a stemperare la comicità in un’amarezza di fondo, a caricare le situazioni divertenti di un senso di impotenza esistenziale.
Limato di qualche minuto di troppo, il film di Soldini sarebbe perfetto, da applausi, ed in parte lo è: una favola senza inizio né fine, dalla quale si esce malvolentieri.
http://www.cineforumdomo.it/agata_e_la_tempesta.htm
Conversazione con Silvio Soldini
Dopo Brucio nel vento, un film drammatico di grande stile, immerso in un’atmosfera densa, dove ogni immagine è scelta con enorme accuratezza, di nuovo una commedia un po’ sullo stile di Pane e tulipani. Perché quest’alternarsi di commedie e film drammatici?
Intanto credo che Agata e la tempesta sia un film parecchio diverso da Pane e tulipani. Fin dall’inizio c’era l’idea di spostarsi su un territorio che definirei meno fiabesco e più surreale. Costruire un mondo in cui potessero coesistere la commedia, il riso, con momenti più commoventi e anche drammatici. E dare vita a personaggi più contradditori, più esposti alle vicende della vita, in un certo senso, ma sempre carichi di una grande dose di umanità. Pensa a un personaggio come quello di Romeo, ad esempio. E poi è un film molto più corale, più dinamico sia a livello narrativo che come stile di regia. Dopo gli ultimi due film basati su una struttura narrativa con un protagonista assoluto e che segue le sue vicende in prima persona, avevo voglia di tornare - un po’ come ne L’aria serena dell’ovest, ma in chiave più leggera, da commedia - a una struttura più complessa e allargata, dove i protagonisti sono almeno tre e i personaggi che fanno parte del racconto sono molti e tutti importanti per il senso della storia. Ma per rispondere alla tua domanda, non capisco cosa ci sia di così strano nel fatto di aver voglia di raccontare il mondo, per come io lo vedo, alternando uno sguardo più leggero a uno più drammatico. L’importante, in questo mestiere, è non ripetersi, cercare nuove strade per raccontare qualcosa che ha a che fare con la realtà che ti circonda e che man mano impari a conoscere, no?
Almeno per me è così. Per dirla in altri termini, credo che mi annoierei a morte se dovessi fare un film nello stesso tono del precedente perché è andato bene al botteghino… Ho bisogno di nuove sfide, di trovare qualcosa di nuovo con cui misurarmi. Cercare il riso o il sorriso, guardare il mondo con leggerezza invece di scandagliarne i momenti drammatici, trovare l’ironia nascosta di una scena invece di affondare nelle psicologie dei personaggi, non lo considero una parentesi nel mio percorso ma un modo per esprimere qualcos’altro. D’altronde, se un musicista scrive una canzone allegra e quella successiva è tristissima nessuno se ne stupisce… e non sono certo l’unico regista che fa sia film drammatici che commedie. Se devo dirla tutta, un giorno vorrei riuscire a trovare un’idea per un musical, e subito dopo per un film molto scarno e vero, con uno stile quasi documentaristico… e magari anche un’idea per uno di fantascienza, come vorrebbe Cesare, mio figlio maggiore. E la voglia di misurarmi con una nuova avventura, certo, ma anche la necessità di spingermi su un territorio che mi aiuti a scoprire altro e a scoprirmi.
Si può quindi dire che Agata e la tempesta sia nato da una voglia di commedia?
Sì, certo. E da quella di fare un film con tanti personaggi, tanti colori, che inventasse un mondo un po’ “sollevato” sia dalla realtà che conosciamo che da quella che ci viene proposta di continuo dalla tv, anche sotto forma di fiction. C’era la voglia di lavorare di nuovo con Licia Maglietta, con Giuseppe Battiston, due attori stupendi, su personaggi molto diversi da quelli di Pane e tulipani, e c’era uno spunto: una donna che inconsapevolmente fa fulminare le lampadine. Durante il periodo di scrittura, con Doriana Leondeff e Francesco Piccolo, siamo partiti in un paio di direzioni diverse prima di trovare la strada giusta. Poi sono nati i personaggi di Agata, con la sua libreria, e quello di Romeo, lontano chilometri da lei, che guidava la sua macchinona carica di vestiti lungo le strade della pianura, pieno di appetiti, di contraddizioni e con una moglie sulla sedia a rotelle. Dopo poco era chiaro che ci sarebbe stato un rapporto tra due fratelli ed è nato Gustavo, l’architetto, che viveva la sua vita tranquilla senza farsi troppe domande. Ma tutto il resto è venuto fuori dopo ore e ore passate a buttare nel piatto qualsiasi spunto ci passasse nella testa. Più di ogni altro mio film, Agata è nato da una serie di riflessioni, suggestioni, emozioni che lentamente sono diventate racconto. Farei molta fatica a partire con la fase di scrittura dicendo: ora faccio un film per parlare di questo argomento che dovrà dire questo e quest’altro. Il tema, o i tanti temi, come in questo caso, si delineano e trovano il loro spazio strada facendo. E con questo non sto dicendo che quando inizio la fase di scrittura non so che film voglio fare; lo so, ma devo trovarlo; ne conosco l’odore, il senso, ma non l’ho ancora in mano. E il bello è che in definitiva non l’avrò in mano prima della fine del montaggio: è lì che si tirano le somme e si comincia a capire veramente che cos’hai fatto. Dalla fase di scrittura a quando il film è finito passa talmente tanto tempo, la fase di riprese è sempre così densa di accadimenti, che si può dire che quello che era sulla carta esplode in mille pezzettini che devono ognuno per conto suo fiorire, e solo quando li metti insieme capisci che cos’è il film.
Se ho capito bene sei d’accordo con quegli autori che vedono il montaggio come il momento magico, il più importante del percorso di un film e forse anche quello più creativo.
Questo non riesco a dirlo perché penso che ognuna delle tre fasi - scrittura, riprese e montaggio - sia importantissima. E’ vero che c’è una magia nel montaggio, la magia di vedere il film che prende vita, che si modella, che diventa musica ed emozione. Ma se la scrittura è povera o se le riprese non danno i frutti che devono dare, in montaggio c’è poco da fare! E poi certo, è magico, è creativo, ma ci sono anche momenti molto sofferti - e qui è molto importante la sensibilità e il rapporto che hai col montatore, che nel mio caso per fortuna è Carlotta Cristiani. Come in scrittura d’altronde. E’ una sofferenza molto diversa da quella delle riprese, in cui si lotta di continuo col tempo e con i mille problemi che bisogna risolvere ogni giorno, ma in cui c’è qualcosa di molto più fisico. Forse è per questo che la fase delle riprese, alla fine, è quella che preferisco. Mi piace trovarmi in mezzo a un mare di persone che lavora insieme sullo stesso progetto. Il set è un grande momento di incontro, il luogo dove l’energia di tutti deve creare qualcosa di unico e irripetibile, e dove ognuno può e deve dare il proprio contributo creativo. L’atmosfera che si viene a creare è spesso un po’ fuori dal mondo, a volte quasi surreale. La macchina da presa inquadra un frammento di quello che sta avvenendo in quel momento, ma tutto quello che accade intorno influisce su quello che avviene lì davanti, dove gli attori devono rendere credibile ed emozionante una scena. Per questo faccio molta attenzione a tutto, soprattutto a mantenere un clima dove si lavori bene, cosa spesso molto dura.
E il titolo? Da dove arriva, com’è venuto. Trovi i titoli dei tuoi film in fase di scrittura o più tardi?
In questo caso durante la scrittura, ma non c’è una regola. Stavamo scrivendo la prima versione del soggetto e mi è venuto in mente un verso di una poesia della Merini che parlava di “scatenar tempesta”. Al di là del significato che lei dava a questa frase, ci è sembrata subito un’immagine che aveva a che fare con quello che stavamo cercando di raccontare. Il problema è stato poi quello di scatenarla, questa tempesta!
E perché “Agata e la tempesta” e non Romeo o Gustavo e la tempesta? In fondo il più importante snodo drammaturgico nella storia che racconti travolge le loro vite più che quella di lei…
Bella domanda. In fondo credo che stia qui la vera sfida di questo film. La tegola arriva prima di tutto sulla testa di Gustavo, lo so, eppure mentre scrivevo con Doriana e Francesco non abbiamo mai avuto dubbi sul fatto che dovesse essere così. Quello che ci affascinava era proprio il fatto che Agata rimanesse un po’ tagliata fuori dal rapporto col fratello e che gli eventi la spingessero a incontrare Romeo, un personaggio molto lontano da lei, come gusto, come cultura e apparentemente come sensibilità. E non volevamo che Agata fosse di nuovo un personaggio provinciale e un po’ ingenuo, ma una donna che ha in mano la propria vita, che ha lottato per questo, che si è lasciata trasportare dai suoi desideri, che ama i libri e la sua libreria, con un passato di amori, viaggi, rotture e un presente in cui si sente viva. Ha una figlia ormai grande che è appena partita per studiare all’estero lasciandola sola e lei non si sente sola ma piena di energia e un po’ si stupisce che sia così. E in tutto questo si innamora di un ragazzo, e scopre che troppe lampadine si fulminano in sua presenza, non possono essere una coincidenza… Ma quel che è fondamentale, è che Agata è il centro esistenziale della storia. Come se tutti gli eventi ricadessero sulla sua sensibilità: tutto ruota attorno a lei e lo sguardo sulla storia è il suo. Agata non ha certo lo stupore di Rosalba, ad esempio, ma porta con sé una ricchezza che si propaga nel racconto e nel film. E’ sempre stata un punto di riferimento per Gustavo, suo fratello minore, e non può che affascinare Romeo, uomo semplice, pratico, con un’enorme carica vitale. Chiamandola “sorella” Romeo la fa subito entrare a far parte di una sua famiglia, si inventa una famiglia. E lei, un po’ presa in contropiede, ci sta.
A proposito dei libri e della lettura, la scena in cui Romeo legge Goethe e sua moglie Daria, Flaubert, l’ho trovata addirittura commovente. C’è qualcosa di vero e di surreale, di assurdo e di molto vitale in quel momento.
Sono molto legato a quella scena. Fa sorridere e commuove perché è Agata che ha portato la lettura a casa di Romeo. Lui legge il terzo libro della sua vita, dopo Ivanhoe e Il grande Gatsby, regalatogli da Agata, e Daria legge Madame Bovary, che non aveva mai sentito nominare prima che Agata gliene parlasse. Il tema dei libri e della lettura è una delle tante cose che con Doriana e Francesco sapevamo di voler mettere in questo film. Non si vedono spesso dei libri al cinema e la lettura è un’attività oserei dire poco cinematografica. La sfida è stata: come metterla in scena?
Come parlarne senza essere pedanti e annoiare? I momenti in cui Agata confonde la vita reale, i suoi ricordi, con delle emozioni e delle immagini letterarie - le visioni in bianco e nero di sua madre e suo padre - sono gioco e allo stesso tempo un inno alla fantasia del lettore. C’è molto gioco in questo film, si vede no?
Si sente anche molto divertimento, nel senso profondo del termine. Anche nei passaggi temporali, ad esempio, nel modo in cui sono definiti tutti i personaggi, nella recitazione degli attori… Come li hai scelti? Li conoscevi già tutti? Sembrano tutti immersi in un’atmosfera di grande familiarità e complicità.
Mi fa molto piacere che tu dica questo. Con una parte di loro avevo già lavorato: Marina Massironi ad esempio, o Giselda Volodi che in Pane e tulipani appariva brevemente come cameriera della Pensione Mirandolina dove Rosalba passa la prima notte a Venezia, Fausto Russo Alesi, che le dava un passaggio in auto, Nicoletta Maragno, l’agente immobiliare de Le Acrobate... Altri invece li conoscevo e seguivo da tempo il loro lavoro, come Monica Nappo. Ann Eleonora Jørgensen era una delle protagoniste di Italiano per principianti, mi era piaciuta molto in quel film e mi sembrava perfetta come sindaco della cittadina dove Gustavo sarebbe capitato a causa di un velodromo… così Jorgelina Depetris, durante il casting, si è messa sulle sue tracce, l’ha contattata, l’abbiamo fatta venire in Italia e oltre a scoprire che non conosceva una sola parola di italiano… ci siamo piaciuti. Sono molto contento di tutti gli attori che ho coinvolto nel film, ma non è un caso perché anche per le parti più piccole abbiamo cercato a lungo. Lavorare con un attore è sempre una scoperta e non avevo mai fatto un film con così tanti attori! Era una girandola continua, non posso dire che sia stata una passeggiata, è stato molto faticoso ma è vero, ci siamo veramente divertiti. Soprattutto perché è sempre un piacere lavorare con persone generose ed entusiaste. Un’altra bella scoperta è stato Emilio Solfrizzi. Finita la fase di scrittura ancora non avevo un’idea per la parte di Gustavo, poi mi hanno parlato di Emilio, sono andato a vederlo in El Alamein, l’ho messo insieme a Licia e a Beppe e mi è sembrato perfetto. Licia e Emilio hanno lavorato molto sul rapporto tra fratello e sorella, e sembrano fratelli per davvero… Anche il rapporto d’amore tra Agata
e Nico mi sembra molto riuscito: conoscevo e stimavo Claudio Santamaria attraverso i vari film che ha fatto, ma ho scoperto un attore di grande sensibilità.
Hai fatto delle prove, come tuo solito, prima di iniziare le riprese?
Non saprei fare altrimenti. La fase delle prove è un momento importantissimo, in cui iniziano a prendere vita i personaggi e in cui, con attori e sceneggiatori, si definiscono e si cambiano parecchi
dialoghi arrivando alla stesura definitiva della sceneggiatura. Sul set non c’è mai abbastanza tempo e senza questo lavoro preliminare sarebbe un inferno, sarebbe impossibile arrivare ai risultati che ci si prefigge. In questo modo, una volta davanti alla macchina da presa, spesso anche a dispetto dei limiti che lo spazio o il tempo impongono, ci si può sentire liberi di aggiungere, cambiare, affinare, di farsi venire nuove idee. E’ successo tante volte che Licia, Beppe, Emilio o altri arrivassero sul set con una nuova idea per una battuta o per un gesto… e quasi sempre sono idee che hanno dato un guizzo in più, che hanno spinto una scena un po’ più in là nella direzione scelta: come potrebbe essere possibile senza averla prima approfondita e capita?
A proposito del lavoro con gli attori, ho letto una tua dichiarazione in cui dicevi che il trucco sta nel saper osservare. Confermi? Basta così poco?
Non è proprio in questi termini ma non è affatto poco! In questo lavoro la capacità di osservazione è fondamentale - tanto per dirne una, come direbbe Romeo… Quando lavori con gli attori, nel cinema, sei anche il loro unico spettatore e credo che l’aiuto più grande che puoi dare sia quello di far loro capire cosa ti arriva, cos’hai visto accadere di fronte a te. Poi si può parlare di cos’altro dev’esserci e che per ora non c’è, o di una nuova idea che ti è venuta in mente vedendoli fare la scena, ecc. Ma l’importante è saper vedere, prima di proporre. In questo credo che l’esperienza di Brucio nel vento, dove gli attori parlavano una lingua a me totalmente sconosciuta, mi sia molto servita; l’importante è capire se ci credi, se ti emozioni, se sta succedendo veramente qualcosa, se c’è la vita. Alla base di qualsiasi metodo tu possa utilizzare dev’esserci per forza questo. E invece, a volte, trovo che nei nostri film gli attori, in generale, siano un po’ abbandonati a sè stessi.
Ci sono registi a cui piace dare molta libertà agli attori, ti senti tra questi?
Cerco di metterli nella condizione migliore per poter creare, certo. Ma parlare di libertà è sempre un po’ rischioso, può essere un’arma a doppio taglio. Non è limitando il campo d’azione perché hai le idee chiare su una determinata scena che si toglie libertà, anzi. Anche un attore con una certa esperienza, senza un regista/spettatore che lo stimoli non potrà dare un’interpretazione eccezionale. Si aggrapperà alla sua esperienza e cercherà di fare da sé; ma non è così che si scopre qualcosa di nuovo, o di unico per quel personaggio.
Di film in film, e questo è il sesto, sembra che i tuoi personaggi stiano prendendo sempre più spazio nel tuo cinema. Una volta si aveva l’impressione che fossero più le immagini a determinare l’anima del film e che da lì partissi per costruire il resto. Ora invece il tuo interesse sembra essersi un po’ spostato. Lo avverti anche tu?
Intanto credo che quando si parla di commedia si parli di personaggi ben delineati, quindi fare una commedia significa entrare in questo modo di pensare. Ma devo dire che da un po’ di tempo sono molto affascinato non solo dai film con uno sguardo forte e preciso, ma anche da quelli caratterizzati da un bel lavoro sui personaggi, dove questo lavoro è spinto un po’ a fondo e sono le interpretazioni degli attori, calati totalmente nei loro ruoli, a lasciare un segno forte. Non è solo fondamentale il lavoro con gli sceneggiatori, è anche il fatto di trovare un squadra di attori che si gettino alla ricerca del proprio personaggio fino in fondo. Forse mi sono stancato di trattenermi per paura di non essere credibile, e preferisco piuttosto rischiare di esagerare nella caratterizzazione piuttosto che rimanerne un po’ a lato; credo che si possa trovare una verità anche al di là della verosimiglianza. E’ un discorso che riguarda di sicuro il modo in cui sono nati gli ultimi tre film, da quando ho deciso di allontanarmi dal naturalismo dei primi tre, che mi stava un po’ stretto. Oggi come oggi non ho voglia di fare del cinema naturalista, ce n’è già fin troppo sia al cinema che soprattutto alla tv, così cerco di creare un mondo a parte, quello del film, diverso ma pieno di rimandi a quello reale. Per questo l’attenzione sui personaggi, le scene, i costumi... Per Agata c’è stato molto lavoro di scrittura sui dialoghi, ad esempio. Volevamo che fossero non banali, non quotidiani, dovevano aiutare a creare quel mondo un po’ sollevato dalla realtà. Abbiamo cercato di caratterizzare ogni personaggio anche attraverso un modo di parlare specifico, dei modi di dire particolari, come accade nella vita in fondo, ma raramente al cinema. Su questa base ho poi
lavorato con gli attori sulle inflessioni regionali. E poi c’è Pernille Margrethe, straniera, e questo dava spazio a un altro modo di sfruttare i dialoghi. Per questo credo che il linguaggio parlato sia molto importante in Agata. Diventa la sua musica più interna e intima.
Hai accennato alle scene e ai costumi. Nei tuoi film la scelta delle città, dei luoghi come avviene? In questo caso poi direi che l’uso dei colori sia più spinto del solito. Nei costumi, soprattutto Romeo che fa anche il rappresentante di abbigliamento, ma anche negli interni delle case.
Sì, questa volta il lavoro sul colore volevo che fosse ancora più incisivo che in Pane e tulipani. Ad Arnaldo Catinari la prima cosa che ho detto credo sia stata che volevo un film molto colorato, e quindi la fotografia doveva essere pensata in questa direzione. Con Silvia Nebiolo abbiamo fatto un vero lavoro di caratterizzazione di ogni personaggio basato quasi sempre su colori forti e con Paola Bizzarri ho cercato di fare in modo che ogni ambiente contenesse dei colori precisi, a volte opposti. Il contrario di Brucio nel vento, dove i passaggi di tonalità dovevano essere morbidi e immersi in una stessa atmosfera fredda. Per casa di Agata ci siamo ispirati ai quadri di Bonnard, ad esempio. E poi i luoghi, certo. Per me i sopralluoghi sono sempre importantissimi. La pianura Padana e Genova erano luoghi già accennati in fase di sceneggiatura, ma li conoscevo poco. Soprattutto Genova, ma mi è bastata qualche ora per capire che era lei la città. Credo che uno dei criteri di scelta di una città o di un luogo sia il fatto che ti deve affascinare, dev’esserci qualcosa che ti colpisce, anche se non sai subito cos’è. Devi sentire che quello che vedi può servire bene la storia che vuoi raccontare, ma anche che hai voglia di fotografarlo, che ti stimola. Anche per quanto riguarda gli interni vale lo stesso discorso, e poi so che c’è Paola che con i suoi interventi riesce a renderli ancora più stimolanti.
Anche questa volta è Venosta a firmare la musica, ma la diversità rispetto ad altri tuoi film è che di musica ce n’è parecchia, o almeno questa è la sensazione.
Ne L’aria serena dell’ovest, il mio primo lungometraggio, nel ’90, non volevo per niente musica. Poi alla fine ho ceduto, ho chiamato Giovanni Venosta e abbiamo messo qualche notarella qui e là. La musica per me è sempre stata una cosa da calibrare molto bene, mettendola quando è veramente necessaria, altrimenti mi piace sentire la presa diretta, gli ambienti, perché la vera musica di un film
non è solo fatta di note ma di tutti i suoni che compongono la colonna sonora. Soprattutto quando c’è un ingegnere del suono come Francois Musy, che segue tutto il lavoro, dalla presa diretta al montaggio del suono, al mix finale. E poi ho sempre detestato la musica che sottolinea, che ti dice dove ti devi commuovere o dove devi sentirti felice; è un modo così vecchio di usarla! Mentre giravo questo film però mi sono accorto che ce n’era più bisogno del solito. Soprattutto di musica per caratterizzare tutti gli ambienti, la libreria, i bar, i ristoranti… e poi quella dal vivo. Musica usata un po’ come il colore, per pennellare, caratterizzare, giocare. E la musica di Giovanni, per contrasto, non poteva essere troppo lieve e a volte ironica come avevamo fatto in Pane e tulipani.
Nonostante il tono da commedia, abbiamo capito che dovevamo seguire un versante più emozionale, a volte anche drammatico, per dare peso alla parte più profonda del film. Così per la prima volta abbiamo utilizzato un’orchestra. E sempre per la prima volta, ho avuto voglia di aprire e chiudere il film con due canzoni: una di Lhasa sui titoli di testa e la famosa More, ricantata per l’occasione da Folco Orselli, su quelli di coda.
(da una conversazione con Iva Hafner)
https://www.kinoweb.it/cinema/agata_e_la_tempesta/agata_e_la_tempesta.html
Gracias amigo!
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