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miércoles, 31 de marzo de 2021

Seduto alla sua destra - Valerio Zurlini (1968)

TÍTULO ORIGINAL
Seduto alla sua destra
AÑO
1968
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Incorporados)
DURACIÓN
93 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Valerio Zurlini
GUIÓN
Valerio Zurlini, Franco Bursati
MÚSICA
Ivan Vandor
FOTOGRAFÍA
Aiace Parolin
REPARTO
Woody Strode, Franco Citti, Jean Servais, Pier Paolo Capponi, Stephen Forsyth, Luciano Catenacci, Salvatore Basile, Mirella Pamphili
PRODUCTORA
Castoro, Italnoleggio
GÉNERO
Drama | Biográfico

Sinopsis
Un líder rebelde del Congo que lucha para impedir la explotación de su pueblo por parte de los colonos europeos es encarcelado. (FILMAFFINITY)
 
1 
2 

 “Io nel vedere quest’uomo che muore
madre, io provo dolore
nella pietà che non cede al rancore
madre, ho imparato l’amore”

Fabrizio De André, Il testamento di Tito

In una filmografia come quella di Valerio Zurlini, omaggiato dall’undicesima Festa del Cinema di Roma con la retrospettiva completa in pellicola alla Sala Trevi, Seduto alla sua destra segna un unicum. Non solo per l’inedita ispirazione biblica che si affianca a quella storica – e del resto il film, nelle intenzioni originarie, sarebbe dovuto essere un episodio di Amore e Rabbia, con le mani del regista bolognese ad affiancarsi a quelle di Pasolini, Godard, Bellocchio, Bertolucci e Lizzani, ma prese poi una strada diversa che lo rese più lungo e indipendente –, ma anche per la ben precisa contestualizzazione storica e geografica così lontana dalle abitudini del regista, che abbandona le sue donne e la sua Italia per lo più adriatica – il precedente Le soldatesse era sì ambientato in Grecia, ma avanti e indietro per i campi militari italiani durante l’assurda guerra voluta da Mussolini – per mettere in scena la sua metafora cristologica nel Congo belga, anche se in realtà gli oppressori sono semplicemente Europei: italiani, olandesi, francesi e tedeschi, invasori spietati e disumani, ma al contempo condannati alla lontananza dagli affetti, intrappolati in una vita che non è la loro. È uno strale contro l’Europa, Seduto alla sua destra, contro quelle politiche coloniali che, oltre a impoverire ulteriormente l’Africa portando via uomini e risorse, in nome della ‘civilizzazione’ hanno calpestato per troppi anni anche la dignità di chi cercava semplicemente di essere se stesso, con il suo colore della pelle, con le sue tradizioni e con la sua voglia di lottare. Ma è anche e soprattutto un profondissimo atto di umanità, che troverà il suo apice nella conversione di Oreste/Franco Citti, proiezione del biblico ladrone Tito, contrapposto alla sadica freddezza del Dimaco compagno di cella che non solo non aiuterà l’innocente, ma si scaglierà contro chi lo sta aiutando.

Prendendo spunto dalla biografia di Patrice Lumumba, leader indipendentista congolese antimperialista e filocomunista fatto assassinare nel 1961 dal colonnello Mobutu, golpista corrotto e sostenuto da USA e Belgio che sarà poi, grazie a una serie di colpi di Stato, presidente/dittatore del Congo (cui cambierà persino il nome in Zaire) dal ’65 fino al ’97, Zurlini ricontestualizza l’oppressione e la pietà mettendo in scena la passione di Maurice Lalubi (Woody Strode), torturato e fatto uccidere dall’esercito occupante nel tentativo, vano, di estorcergli l’abiura delle proprie teorie di uguaglianza sociale. Lalubi, dipinto a metà strada fra Cristo e Gandhi come un uomo giusto, non violento – anche se rifiuterà di firmare l’ordine di deporre le armi e sottomettersi – e “pericoloso” proprio perché dotato di una leadership naturale, come una sorta di luce da seguire in fondo agli occhi che lo rende un grande comunicatore, subirà percosse fino alla cecità, gli verranno inchiodate le mani alla scrivania, gli verrà ferito il costato, gli verrà fatto versare tutto il sangue, fino alla decisione imposta dal dittatore di colore ormai venduto al Belgio di farlo uccidere, nella certezza che il conseguente polverone si sarebbe presto diradato, e che una volta perso il loro leader i “negri” sarebbero tornati mansueti. Seduto alla sua destra è una rilettura laica e contemporanea della Passione che, fra stimmate, dichiarazioni di uguaglianza fra gli uomini, ladroni da ascoltare e perdonare, non violenza e una morte con i piedi incrociati eleva a figura cristologica colui che, solo per il colore della sua pelle, nel film è considerato alla stregua di una bestia, di un subumano, di un parassita. Ma non è un semplice ‘gioco’, né tanto meno una provocazione gratuita: con questo film Zurlini spinge il paragone ben oltre la metafora, fonde le due storie, le rende allegoria della guerra e del colonialismo, in un grido disperato che tutt’ora giace sottostimato in pochi archivi e in ancor meno memorie.

Oreste, il biblico Tito interpretato da un Franco Citti forse più ancor pasoliniano che con Pasolini, è un italiano che ha fatto cento lavori e cento ne ha persi, girando il mondo e tutte le principali patrie galere. È stato spinto dalla vita e dalla fame a rubare e a scappare, a vendere materiale pornografico e a truffare, ma ora di fronte al Cristo/Lalubi chiuso in cella in attesa di essere massacrato confessa le sue colpe e si pente, per poi ritrovarsi a soffrire reali pene sentendo i versi di dolore dell’amico, e dopo ancora a barattare con un secondino le ultime foto che gli erano rimaste con un gavettino d’olio per tentare di curargli le ferite. È Oreste il vero protagonista del film, colui che vede e crede, colui che vuole – e merita – di stare Seduto alla sua destra. Il suo strazio ancestrale, così opposto alla faccia di bronzo quando era lui la vittima dei pugni per aver venduto un carico di carburante continuando a dichiarare di aver subito un furto, è l’apice emotivo del film, nelle sue grida disperate quando riportano Lalubi in cella, nel suo rinunciare alle possibili ricchezze per curare le ferite altrui, nella sua disperazione nel vederlo ormai cieco declinata in quell’umanissima bugia “Ci sono le luci spente” a cui non crede proprio nessuno, nel suo prendere calci in faccia dal Dimaco seduto in cella senza fare nulla dal quale avrebbe solo voluto una manica per farne una garza, e poi ancora nel tentativo inutile di raccogliere l’olio da terra per rimetterlo nel gavettino, fino alla morte subito dopo Lalubi, “per non lasciare testimoni”, mentre i due corpi formano una croce. Ma i testimoni ci sono lo stesso: un bambino ha visto tutto, e ora scappa a zig zag evitando le raffiche di mitra, salvandosi, e riaprendo così le speranze dell’Africa – il passaggio di testimone, il futuro e la memoria. Il corpo di Lalubi è morto, ma è nato il simbolo, l’esempio, il simulacro per il quale (continuare a) lottare per l’uguaglianza sociale. Seduto alla sua destra è un’accusa e una richiesta disperata di pietà, è un film storico capace di mettere in scena l’Africa coloniale in tutte le sue contraddizioni e tutte le sue colpe, senza dimenticare mai di tenere al centro l’umanità, il cuore, la dignità degli uomini. Non sarà, e non è, il miglior Zurlini, ma è un ulteriore esempio di quanto sia stato un regista sommo, e di quanto sarebbe necessario, negli echi razzisti e fascistoidi che serpeggiano di nuovo negli ultimi anni per l’Italia, guardarlo e farlo guardare, nella speranza che faccia di nuovo aprire gli occhi a chi preferisce tenerli chiusi e vomitare fiele millantando la propria supposta superiorità.
Marco Romagna
http://www.cinelapsus.com/seduto-alla-sua-destra-1968-di-valerio-zurlini/

 

Non parlerei di metafora evangelica sulla violenza. Non gli darei questa importanza. Io vedo il film sotto un altro aspetto: direi che è un piccolo apologo sulla grazia, e nient'altro. Di conseguenza il film si pone su un terreno di racconto simbolico. Ci sono dei perseguitati e dei persecutori. Che non si identificano né con Lumumba né con i mercenari. Improvvisamente un piccolo delinquente - che è poi il ladrone che alla sinistra di Cristo sulla croce dirà "Ricordati di me quando sarai nel tuo regno" incontra un uomo dotato di una grande luce spirituale. Toccato dalla grazia, gli chiede di ricordarsi di lui. Non ho preteso di fareVangelo ‘70, né di fare un rapporto storico e religioso sul nostro tempo. Ho semplicemente raccontato come la grazia possa arrivare in qualsiasi posto, in qualsiasi momento, attraverso qualsiasi sbaglio.

Críticas

Il soldato bianco gettato nella stessa cella del leader africano e dei ladruncolo italiano è Lucifero. In effetti ho voluto un uomo di grande bellezza, un uomo che fosse veramente il male sotto le spoglie del bene. È un simbolo che mi è venuto per caso, non so come. Quest'uomo, davanti al miracolo d'amore che si avvera in quel momento sotto i suoi occhi, non ha altra reazione che un atteggiamento di odio. È un uomo che non sopporta le immagini dell'amore; è veramente il demonio. Certo, un demonio come quello, lo si può incontrare in qualsiasi galera. Non c'è bisogno di scomodare la Bibbia e gli angeli decaduti: è il male, è la violenza, è la solitudine, è l'oscurità, è l'odio dell'affetto visto negli altri, è veramente il male che inasprisce continuamente se stesso.
(Valerio Zurlini)

[...] Con Seduto alla sua destra Zurlini non ha inteso svolgere un discorso specifico in chiave ideologico-politica [...]. Seduto alla sua destra cioè propone in una forma tipica di slanci ideali, i contrasti interni, le mortificazioni e le sofferenze che sono propri di tutti i popoli sottosviluppati e più in generale di tutte le categorie dei diseredati nel mondo di oggi. [...]. La violenza che raggiunge vertici di efferatezza in alcuni punti, e che comunque si proietta almeno indirettamente su ogni brano, imprime a tutto il racconto una tensione di singolare suggestione emotiva. Si potrebbe affermare che la violenza s'impone su ogni altro motivo, tanto da diventare veicolo principale di espressione tematica. In altre parole, Zurlini ha preso a prestito i vari motivi parziali del film, per esternare la propria reazione di uomo sensibile di oggi di fronte al caos materiale e spirituale d'un mondo avviato verso un avvenire inquietante. [...].
Seduto alla sua destra non è opera poeticamente risolta. A impedire la coesione e l'armonia necessarie concorrono vari e non trascurabili elementi, quali la molteplicità di motivi tematici, la fisionomia psicologica non omogenea dei personaggi principali, certe legnosità dello sviluppo narrativo. [...]. Tuttavia nel complesso ci troviamo di fronte non a manierismo di mestiere applicato a freddo, bensì a una scelta linguistica sentita. I tratti stilistici consueti di Zurlini acquistano inflessioni nuove. I muri spogli della cella hanno tinte pastello acceso, i lunghi primi piani dei visi sono esaltati da una plasticità drammatica. Le lunghe pause ritmiche e sonore (rotte da rumori naturali e da pochi interventi dei musicista Ivan Vandor) vengono lacerate da frenetici dettagli (armi, chiodi, mani, visi contratti) e urla selvagge. E anche quando l'azione ristagna, continua sempre (salvo forse nel troppo statico dialogo dei due protagonisti in cella) a protrarsi in un clima di tensione, come una nota continua di sottofondo. D'altronde questo linguaggio non assume mai inflessioni realistiche, perché le sue gradazioni ipertonali stemperano e trasfigurano i connotati materiali. A il linguaggio dell'anima ferita [...]. Siamo di fronte a una "poetica della violenza" (del resto preannunciata in opere precedenti) d'un autore che reagisce alla sofferenza con la sofferenza.
(Sergio Raffaelli)

[...] Il film comunque drammaticamente e linguisticamente ha un preciso valore. [...]. La serietà del suo stile non potrà non raccogliere meritati consensi. Quel coraggio ad esempio con cui l'azione è quasi costantemente tenuta fra le quattro pareti di una stanza o di una cella, quella solennità del ritmo, pur attraverso la concitazione e, anzi, l'urlata violenza del dramma, quelle immagini che, pur rievocandoci a tratti Rembrandt, Mantegna, Caravaggio, e persino Rouault, con i loro verdi grigi, i loro bianchi sporchi le loro sfumature quasi di pastello e di tempera, riescono seampre a rispettare il sapore della realtà, il gusto, il tono, la qualità del documentario dal vero. Anche se, riconosciamolo, si poteva essere più misurati nelle atrocità, si poteva essere più parchi (e più coperti) nei simboli, si poteva conferire ai dialoghi una più rigorosa asciuttezza evitando riferimenti o troppo facili o troppo consueti. [...].
(Gian Luigi Rondi)
https://www.comune.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitoloRB/2CA67E6C68B404F2C125742E004A4803?opendocument


 

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