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miércoles, 24 de marzo de 2021

La Matriarca - Pasquale Festa Campanile (1968)

 

TÍTULO ORIGINAL
La matriarca
AÑO
1968
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
94 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Pasquale Festa Campanile
GUIÓN
Ottavio Jemma, Nicolò Ferrari
MÚSICA
Armando Trovajoli
FOTOGRAFÍA
Alfio Contini
REPARTO
Catherine Spaak, Jean-Louis Trintignant, Gigi Proietti, Luigi Pistilli, Renzo Montagnani, Fabienne Dali, Nora Ricci, Edda Ferronao, Frank Wolff, Philippe Leroy
PRODUCTORA
Clesi Cinematografica, Finanzia San Marco
GÉNERO
Comedia. Drama

Sinopsis
Mimi, joven millonaria, viuda desde hace tres días, descubre tomando posesión de la herencia, un "nido de amor" que el adultero marido encubría bajo la denominación de Inmobiliaria "Z". En este apartamento, donde hay un sinfín de refinamientos eróticos que están previstos para el amor, Mimi comprende que ha sido vilmente engañada y decide usar el apartamento para descubrir nuevas sensaciones y vengarse a través de cada nuevo amante de la infidelidad de su marido. (FILMAFFINITY)
 
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un altro sessantotto. a differenza di altre cinematografie, forse quella italiana ha raccontato meglio quest’epoca stando di lato, interpretando un momento complesso attraverso apologhi allegorici, storie di un quotidiano problematico, commedie dal sorriso all’incontrario. nel pensare a questo punto di svolta della società, vengono in mente i film di Bellocchio e Bertolucci e Pasolini e i Taviani anche al di là dei loro effettivi esiti. e poi Cavani, Maselli, Agosti, i sommersi Frezza, Da Campo, Bruno più o meno riconciliati… a noi interessa affrontare un cinema meno esplicito, più diagonale, obliquo, oggi forse ancora capace di dirci qualcosa su quel grande cambiamento

i film del 1968 (o giù di lì), in un percorso parallelo a quello consueto.

 

La matriarca esce nelle sale sotto Natale ’68 e segna la terza collaborazione tra Pasquale Festa Campanile e Catherine Spaak dopo i fortunati Adulterio all’italiana e Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare. È una commedia borghese abbastanza pruriginosa, pensata dal produttore Silvio Clementelli per veicolare il particolare divismo dell’attrice e scritta dal fedele Ottavio Jemma con Niccolò Ferrari. Coprotagonista è Jean-Louis Trintignant, presenza costante del decennio.

Cosa c’entra col Sessantotto? C’entra, eccome. C’entra perché dimostra quanto il cinema italiano mainstream del 1968 prosegua il suo percorso nonostante la contestazione; e c’entra perché al contempo riesce a lasciarsi contaminare dalla voglia matta di rottura che innesca quel tipo di protesta. C’entra perché la Spaak è una figura protosessantottina, una ninfetta francofona cresciuta nel maschilista cinema italiano che prende improvvisamente coscienza del proprio corpo.

E c’entra perché mette in scena – ancora una volta con sardonico, beffardo, compiaciuto disincanto – la ricezione di un apparato intellettuale che diventa privilegiata lente di lettura della realtà da parte di una società autosopravvalutatasi al crocevia della frattura. Un po’ nel solco di Scusi, facciamo l’amore? (compare qui il regista Vittorio Caprioli), quasi un ampliamento di un episodio de Le fate o de Le streghe, verso gli spasmi de L’amica di Alberto Lattuada…

L’eroina titolare è Margherita detta Mimmi, neovedova di un facoltoso manager che scopre post mortem i vizi privati che il morigerato coniuge consumava in una garconnière. Diventa addirittura spettatrice dei suoi giochi erotici quando ritrova i filmini realizzati dal marito stesso. Se fossimo in un dramma di Giuseppe Giacosa, il proseguimento sarebbe ovvio: la vedova si danna, ne parla con qualcuno, si sente in colpa e vive nel dolore quel che resta di una vita bugiarda.

Ma Pasquale Festa Campanile non è Giacosa: e, infatti, Mimmi non se la prende per le corna – quelle gliele ha messe anche lei, non è un problema, basta che non si sappia in giro – ma perché il marito l’ha tenuta fuori dal giro, riservandole un ménage noioso e poco stuzzicante. Allora, visto che è giovane e bella, decide di studiare un testo di educazione sessuale ed abbandonarsi alle esigenze della carne.

Dopo un incipit funebre su cui mette una pietra tombale con l’intervento della magistrale Nora Ricci (è la mamma della Spaak che sa di non sapere consolare la figlia ma comunque le dice frasi di circostanze e s’ingozza col buffet), Festa Campanile guarda ironicamente a Un uomo, una donna – già prima di coinvolgere Trintignant, che appare a metà film – e si diverte scherzando con le suggestioni di molto cinema d’autore.

Tra ralenti modulati sulle note lascive di Armando Trovajoli e sfumature che determinano i confini dell’onirico, le fantasie di Mimmi si alternano all’effettiva sperimentazione dell’attività erotica, permettendo al regista una carrellata di maschi soprattutto ridicoli e puerili: chi con goffa nonchalance poggia una mano sulle cosce della protagonista, chi smania per programmare subito una cosa a tre, chi vuole possederla con forza bruta…

La Spaak attraversa l’avventura con lo spirito di una simpatica e disinvolta erotomane principiante, quasi un’Alice il cui Paese delle meraviglie è in realtà l’impersonale interno borghese dai colori accesi e le trame optical, un gioco di specchi circolare che fa le gioie di Flavio Mogherini. Si ritrova progressivamente sempre più nuda, svelando più l’inesperienza che la purezza, consapevole che il corpo le appartiene ma il cuore pure ha le sue ragioni.

Tant’è che l’amore non può non avere il volto di un uomo normale, benestante ma non tronfio, riservato quanto basta per suscitare l’interesse di una abituatasi agli eccessi, eppure desideroso di portarsela a letto pur con un progetto meno limitato di una notte di sesso… Insomma, magari non un film esplicitamente sessantottino, ma ci sono dentro due o tre cose sui costumi della borghesia niente male. Notevoli alcuni momenti, da Philippe Leroy domatore alle cavalcate ammiccanti.

https://lorciofani.com/2018/10/22/recensione-la-matriarca-pasquale-festa-campanile-1968/ 


Psychopathia sexualis

Ne La matriarca di Festa Campanile, l’ambiguità la fa subito da padrona: chi è la donna che ha potere? Chi è appunto la matriarca del titolo? È la madre di Margherita detta Mimmi (interpretata dall’essenziale e genuina Catherine Spaak), celata per la maggior parte del film nel fuori campo che la avvolge ‒ ma che ne fa comunque sia fuoriuscire i maleodoranti condizionamenti nei confronti della figlia ‒ o è invece una figura idealizzata dalla stessa Mimmi, la quale prova con tutte le proprie forze a identificarvisi dopo il decesso improvviso del marito? Il dubbio si protrae sottilmente per tutta la durata della pellicola.
Dilemma a parte, La matriarca è un film di grande scaltrezza visiva e di equilibrismi sul filo della morale e dell’ironia. Quella che si vuole mettere al centro della vicenda è naturalmente la libertà della donna, il bisogno di un’affermazione che cerca nel sesso la sua dimensione primaria.
Le maglie costrittive della società sono quindi rappresentate dal maschile, che si impone relativamente sulla scena attraverso alcune figure di uomini deboli o subdoli: l’unico che avrà invece funzione di maestro e padre sarà il professor Carlo De Marchi (interpretato da un ambivalente Jean-Louis Trintignant) che insegnerà a Mimmi a riconoscere nella vita, come nel sesso, una dimensione di fondamentale spensieratezza: «Per essere felici occorrono due semplici cose» ‒ le dirà ‒ «una grande fantasia e un’assoluta sincerità». E proprio quella sincerità e quella fantasia saranno gli elementi attraverso i quali Margherita, durante tutto il film, scoprirà il meglio di sé: il vestiario sempre un po’ sopra le righe, soprattutto per il bisogno di farne un elemento protesico (come quando non si libera del proprio cappello nemmeno durante le visite mediche di controllo), o l’impossibilità di fingere sentimenti che proprio non riesce a provare.
La scena che ci fa capire che ci troviamo di fronte a una delle commedie italiane più interessanti del periodo è però quella decisiva nella quale De Marchi rompe con gran divertimento gli specchi della stanza del piacere: l’annullamento di un mondo fatto di finzioni e superfici riflettenti, che richiamano quell’ambiguità di cui avevo parlato in apertura, è l’obiettivo di questo gesto quasi sovversivo; assimilarlo, per poterne così veicolare gli evidenti significati, sarà una conseguenza dimostrabile nel finale del film. Dagli specchi ormai in frantumi si passerà infatti alle vetrate perfettamente intatte della villa all’interno della quale i novelli sposi Mimmi e Carlo consumeranno la prima notte di nozze e attraverso cui noi potremo finalmente assistere al più trasparente e onesto tra tutti i possibili giochi di coppia.

Gabriele Baldaccini
https://www.mediacritica.it/2019/01/26/italiani-brava-gente-4-la-matriarca/

La matriarca è il film cardine della prima parte della carriera di Pasquale Festa Campanile. Anche se il risultato non è ancora del tutto risolto espressivamente, è il primo film in cui esplode finalmente la carica erotica latente nelle commedie precedenti: la rivolta contro il maschio della protagonista Catherine Spaak nei panni di Mimì è una rivolta sessuale, esprime la volontà di scegliere e non di essere scelta. Il ritratto di Mimì sviluppa fino in fondo le premesse del personaggio di Francesca che Catherine Spaak aveva interpretato per La voglia matta (1962) di Luciano Salce. Festa Campanile accompagnerà l’attrice belga verso la maturità recitativa, trasformandola da ragazza borghese desiderabile in giovane donna emancipata che, in epoca sessantottina, diventa, con la sua libertà di comportamento morale e sessuale, una protofemminista: il punto d’arrivo di quest’evoluzione sarà Con quale con quanto amore (1970), in cui nel ruolo di Francesca (proprio come nel film di Salce) sarà una moglie fedifraga che si farà riconquistare dal marito tradito, costringendolo a ricercare in se stesso un comportamento più attento alle esigenze della donna Ne La matriarca, la giovane vedova Mimì scopre che il marito appena deceduto l’ha cornificata per tutto il (breve) tempo del matrimonio, e decide di rendergli la pariglia, anche se morto. La Spaak si libera dalle ipocrisie borghesi nel modo più letterale possibile: si spoglia delle sue ricche toilettes, si mette a nudo e si concede a tutti i maschi che più le piacciono, tentando anche l’esperienza peripatetica. Certo, nel finale, c’è l’incontro con l’uomo (il dottor De Marchi) che, con una bella sculacciata (quella che si rivelerà inutile nel film omonimo), la riporterà sulla “retta via”, riconducendola ad un semplice matrimonio borghese, dopo tanta libertà sessuale. Ma alla soluzione della vita di coppia ci si arriva per scelta e non per obbligo sociale, recuperando la fantasia e lasciandosi andare a tutte le pulsioni solitamente represse, come ben rappresenta la scena finale, con Mimì a cavalcioni sul dottore. Come sempre in Festa Campanile, il ritorno all’ordine è solo apparente: ci si arriva dopo aver forzato le convenzioni, grazie ad un accumulo di paradossi. Sta allo spettatore, accorgersene. La matriarca segna l’incontro professionale del regista con Ottavio Jemma, che riscrive completamente una vecchia sceneggiatura di Nicolò Ferrari, cineasta ligure che aveva aperto il decennio con un altro insolito ritratto di donna, Laura nuda (1962). La struttura narrativa è un po’ monocorde, allinea gli incontri amorosi e gli accoppiamenti sessuali senza soluzione di continuità, nel tentativo di far emergere la grettezza, la meschinità, il perbenismo, la scarsa fantasia e la poca immaginazione della compagnia maschile («Gli scarabei sono tutti uguali, come gli uomini»), sorpresa dal comportamento così libero di Mimì. C’è però il divertimento di illustrare un catalogo di deviazioni sessuali, citando direttamente il trattato Psychopathia Sexualis di Richard von Krafft-Ebing, e facendo riferimento qua e là al marchese De Sade, alle teorie di William Reich e, finanche, al Luis Buñuel di Bella di giorno (1967, citato fino allo sfinimento dai recensori dell’epoca). Questo dà modo al regista di infilare nel film una ricchissima schiera di attori (Luigi Proietti, Paolo Stoppa, Renzo Montagnani, Luigi Pistilli, Frank Wolff, Philippe Leroy, Gabriele Tinti, Venantino Venantini) in fulminanti camei, nel ruolo di maschi usa-e-getta. Ma soprattutto consente a Festa Campanile di scatenarsi in una visualizzazione pop degli impulsi sessuali della protagonista e dei suoi delusi ammiratori, lasciando libero sfogo ad un linguaggio cinematografico che finalmente fa esplodere gli intenti dissacranti rimasti sottotraccia nei film precedenti. La matriarca si apre ridicolizzando l’ipocrita seriosità dei funerali (davanti alla bara del marito, Mimì si preoccupa di non provare dolore, sente fame, si libera delle scarpe) e si conclude sfrenando la giocosità sessuale della vita di coppia, con la “cavallina” matrimoniale. In mezzo c’è un tripudio di specchi, toilettes eleganti, arredamenti sfarzosi e moderni (la quintessenza dell’immaginazione barocca dello scenografo Mogherini e della costumista Mirisola), visualizzazioni di sogni e desideri erotici secondo un’estetica da fotoromanzi porno (c’è addirittura Leroy con una frusta sadomaso), a loro volta ridicolizzati nell’esilarante sequenza dell’amore di gruppo che si conclude con una recita impotente (con Mimì che fa la vittima, Fabrizio eroe esploratore e la sua amante che fa la donna sadica). La matriarca non risparmia nulla e nessuno, mette in scena il sesso e contemporaneamente lo mette alla berlina, dà spazio al nudo femminile e ci ride su. Oggi ci fa sorridere e divertire, ma all’epoca della sua uscita sembrava andare veramente troppo oltre, nella rappresentazione dell’erotismo. Lo sintetizza perfettamente il critico Marco Giusti: «Allora un supererotico con Catherine Spaak scatenata donna-padrona […]. Oggi […] una commediola erotica abbastanza buffa e pop, forse anche un filo femminista. Perfino la scena finale, con i capelli ben fissati sui seni di Catherine Spaak per non far vedere troppo, risulta adesso castissima. Allora però usciva negli stessi giorni di Teorema di Pasolini e sembrava una commediola sgraziata e insultante»[5]. Sarà anche una commediola, La matriarca, ma intanto, pur con tutte le concessioni alla moda del tempo (anche quella cinematografica, figlia del successo di Lelouch e del suo Un uomo, una donna, 1967), indaga i comportamenti sessuali di una donna del tempo, cercando di arrivare fino ai segreti dell’inconscio. E lo fa servendosi della precipuità del linguaggio cinematografico: non solo visualizzando le ossessioni erotiche di Mimì con i flashback onirici, ma anche risolvendo narrativamente la scoperta dei tradimenti del marito da parte di Mimì con l’artificio del film nel film. Mettere dei film pornografici all’interno di una commedia erotica è una strizzata d’occhio complice allo spettatore, l’avvertenza che il regista sa perfettamente cosa sta facendo: è questo aspetto di Festa Campanile che mandava in sollucchero la critica francese di fronte alle sue commedie erotiche. I rapporti amorosi, le pulsioni sessuali, d’altronde, sono presenti in ogni suo film: l’erotismo è analizzato in ogni aspetto, da quello ludico a quello psicolgico. E’ un atteggiamento mentale dei protagonisti di queste storie, che la progressione narrativa svela nella sua natura ossessiva. Nella mente dei personaggi il desiderio sessuale acquista una dimensione abnorme tanto da travolgere il loro equilibrio mentale – diventando un’idea fissa – o le loro funzioni fisiologiche -  condannandoli ad un comportamento senza alternative. Ciò che provoca la “vendetta” di Mimì nei confronti del marito è la rabbia di essere stata esclusa dai giochi: «E se aveva questi vizi, perché non…?», è la sua prima, sottintesa, reazione alla scoperta della garçonnière sadomaso. Ci penserà il timido, (apparentemente) svagato prof. De Marchi (un Jean-Louis Trintignant irresistibilmente sornione) a guarirla dai suoi problemi, mostrandosi impassibile di fronte alle sue provocazioni e tenacemente attaccato all’amore per lei («Quando ci sposiamo?» diventa il suo tormentone), con una testardaggine che alla fine l’avrà vinta. I duetti tra la Spaak e Trintignant, che occupano tutta la seconda parte del film, sono la cosa migliore de La matriarca, e la riportano nell’alveo della commedia sofisticata, risolta ormai dal regista con brillante naturalezza, come dimostra la sequenza della notte in albergo: quando finalmente l’uomo si accorge che la donna che la segue da mesi, iscrivendosi ai suoi corsi universitari e facendogli da assistente nei passatempi archeologici, è innamorata di lui; e Mimì, con una decisione fulminea («Adesso basta, non esageriamo…»), balza dal suo letto a quello di lui. Sono tempi comici perfetti, un aggiornamento sessantottino del vecchio Accadde una notte (1934) di Frank Capra. Sì, Festa Campanile ed il suo sceneggiatore Jemma sapevano proprio quello che facevano.

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