TÍTULO ORIGINAL
Sei donne per l'assassino
AÑO
1964
IDIOMA
Italiano e Inglés (Opcionales)
SUBTÍTULOS
Inglés (Opcional) y Español (Separado)
DURACIÓN
88 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Mario Bava
GUIÓN
Mario Bava, Marcello Fondato, Giuseppe Barilla (Historia: Marcello Fondato)
MÚSICA
Carlo Rustichelli
FOTOGRAFÍA
Ubaldo Terzano
REPARTO
Cameron Mitchell, Eva Bartok, Thomas Reiner, Ariana Gorini, Dante DiPaolo, Mary Arden, Franco Ressel, Claude Dantes, Luciano Pigozzi, Francesca Ungaro
PRODUCTORA
Co-production Italia-Mónaco-Francia; Emmepi Cinematografica, Monachia Film
GÉNERO
Terror. Thriller. Intriga | Giallo. Asesinos en serie
...
Sulla carta questo film, che esce nelle sale italiane nell’aprile del 1964, non ha nessun riflesso soprannaturale: parla di una serie di omicidi in un atelier di moda, e lo spettatore ha netta la percezione di un serial killer in carne e ossa. Eppure fin dalla primissima inquadratura, con il vento che fa staccare l’insegna dell’atelier Christian, si respira un’aria tardo-gotica. Come può però un genere come il gotico far parte di un mondo moderno come la Roma della dolce vita, quella già cantata da Fellini e che – almeno restando a via Veneto – attira le personalità più illustri da mezzo mondo, capitale di un rinnovamento dei costumi che getta in soffitta proprio superstizioni, riti magici e via discorrendo? Ecco dunque che appare inevitabile la scelta di concentrare l’attenzione su un luogo, l’atelier, che per sua natura esula dalla concezione materiale della realtà: le modelle sono oggetto del desiderio, si ergono al di sopra della media della popolazione, eppure allo stesso tempo è come se fossero tutte uguali. Estremizzando il discorso Bava fa in modo che tutti i personaggi si somiglino, al punto che perfino gli abiti dell’assassino e quelli dell’ispettore di polizia sembrino identici. Un mondo replicato all’infinito che non ha più distinzioni, né tra esseri umani, né tra questi ultimi e i manichini utilizzati per provare i tessuti e gli orditi. Nell’apparenza di un gioco vacuo e sterile Mario Bava in realtà propone già una messa in mostra delle atrocità – e del nitore – dell’avant pop, anticipando perfino l’esplosione della Pop Art che arriverà di lì a pochi mesi alla Biennale di Venezia. Per quanto all’epoca venne accusato delle peggiori nefandezze per aver osato mettere in scena la morte con piglio creativo, con processi virtuali al sadismo della pellicola e al connubio considerato malsano tra eros e tanathos – Bava mette in scena gli omicidi puntando su una forte componente sessuale, trasformando il gesto dell’assassino in una funzione quasi orgasmica, per quanto poi smentita dall’intreccio: nulla di così nuovo, perché è uno dei tratti distintivi anche dell’immediatamente precedente La frusta e il corpo, dove però era stato più facile farlo accettare per via del carattere dichiaratamente fantastico della pellicola – Sei donne per l’assassino propone una riflessione teorica sulla visualizzazione cinematografica della violenza: le vittime sono già manichini, il sangue è una mistura evidente di vernice collocata sui corpi. Dichiara la sua falsità, Bava, e ne fa un eccezionale punto di forza per scardinare le regole ferree – e castranti – del genere, della morale pubblica, delle attese degli spettatori.
Non c’è nulla da capire, in Sei donne per l’assassino. L’intreccio è beota – della sceneggiatura si occupa anche Marcello Fondato, futuro regista tra gli altri di …altrimenti ci arrabbiamo! –, il colpo di scena così difficile da comprendere che lascia il tempo che trova, per quanto si dimostri a sua volta seminale per gli sviluppi futuri del genere, su cui si tornerà fra poco. Debolezze enormi, per chiunque ma non per Bava. Che ancora una volta dimostra di non sentire il peso di una pessima sceneggiatura, ma di saperne valorizzare le parole non scritte, i dialoghi non detti, i passaggi obliati. Bava ha tra le mani la macchina da presa, e sa di poter ancora dominare il mondo. Si trova nel mezzo di un thriller sanguinolento, e lavora su quello. Come un discepolo attento e curioso di Thomas De Quincey costruisce la sua trama visiva ricorrendo al principio secondo il quale l’assassinio non sia altro se non una delle belle arti. Così facendo mette lo spettatore con le spalle al muro: l’interesse di chi assiste al film, e perde nozione dei personaggi finendo per confondere una modella con l’altra, non risiede più nel desiderio di scoprire chi sia il colpevole, ma solo nella brama di poter assistere a un altro atto di violenza, di poter prendere parte da posizione privilegiata a un altro svilimento del corpo femminile, reso in maniera talmente evidente oggetto da scoperchiare l’ipocrisia di una società che ancora lo sfrutta fingendo di essersi emancipata, e di volerle donare il giusto rilievo. Bava utilizza la macchina da presa con una leggerezza sorprendente, fingendo che sia una volta la punta di un coltello e un’altra volta parte del décor della moda; lo stesso fa con le luci, che non hanno alcuna velleità di apparire credibili ma al contrario devono sviare una volta di più il pubblico, convincerlo di stare assistendo a uno spettacolo di marionette per far sì che la violenza possa irrompere con ancora maggior crudeltà sullo schermo, senza lasciare scampo a nessuno. La stessa funzione, a ben vedere, che nel cinema gotico svolge la nebbia artificiale. Un modo per sospendere il tempo, e ridefinire il concetto di “vero”.
Non esiste nulla, nel cinema italiano e mondiale, che abbia il furore ghignante e il coraggio leonino nel ribadire il potere dell’immagine-senso su quello del senso della narrazione trasmesso da Sei donne per l’assassino. In modo pressoché inconsapevole Bava sta creando un vero e proprio canone espressivo, che influenzerà completamente il cinema di genere. Già nel sublime La ragazza che sapeva troppo, uscito in sala poco più di un anno prima, Bava aveva gettato le basi per la costruzione di quello che a livello industriale e critico sarebbe divenuto poi noto – un decennio più tardi – come “giallo all’italiana”: vi era lì l’indagine di un comune cittadino (meglio se straniero: la lezione dimostrerà di averla imparata Dario Argento in Profondo rosso) su un misterioso fatto di cronaca, il ruolo della colonna sonora e dell’illuminazione. Ma è con Sei donne per l’assassino che la codifica del genere compie il passo in avanti decisivo: c’è la perversione portata all’eccesso delle sequenze di omicidio (con tanto di donna ustionata a morta su una stufa con inquadratura soggettiva dell’assassino che le tiene una mano sulla collottola), il numero plurimo di morti, l’assassino coperto da una maschera e con le mani guantate, la creatività degli omicidi, con la brutalità che flirta in maniera fertile con il concetto di estetica. Tutto è già qui, anni prima che il genere prenda davvero piede. Dopotutto Bava, con il suo approccio sornione e bonario, ha nei fatti anticipato buona parte dei sottogeneri divenuti poi celebri in mezzo mondo, dal gotico allo slasher (Reazione a catena), facendosi beffe allo stesso tempo sia dell’arte pura che dell’intrattenimento.
Raffaele Meale
https://quinlan.it/2019/12/27/sei-donne-per-lassassino/
Hablar del giallo es hablar de dos directores clave. Dario Argento es quizá quien lo llevó al sumun con su obra maestra ‘Rojo Oscuro‘ (Profondo Rosso, 1975). Pero las bases del giallo surgieron más de 10 años antes gracias a Mario Bava, y dos de las películas más importantes del género: ‘La muchacha que sabía demasiado‘ (La Ragazza che sapeva troppo, 1962) y ‘Seis mujeres para el asesino‘ (Sei donne per l’assassino, 1964).
‘Seis mujeres para el asesino’: Salón de moda, salón de muerte
«Una joven modelo es asesinada brutalmente en los jardines de un lujoso salón de moda por un asesino enmascarado. Durante la investigación, más modelos serán asesinadas, y con muertes cada vez más violentas. La única pista es ver que tienen en común, y remover en el oscuro pasado de cada una de las víctimas y sospechosos.»
‘Seis mujeres para el asesino‘ comienza ya con el asesinato violento de una modelo: estrangulada por un asesino con gabardina, guantes negros, sombrero y su rostro oculto tras una máscara sin ningún tipo de facciones. A partir de aquí, saldrán nuevos sospechosos y surgirán sus secretos más oscuros, mientras aparecen más cadáveres, y la policía bastante perdida dando tumbos tras pistas falsas.
Hay que reconocer que hay más peso en las muertes violentas, la estética y la narración, que en el propio guión, el cual no encontraremos excesivas sorpresas. Ni mucho menos es malo, pero algunos momentos están cogidos por los pelos, o con poca explicación.
La mayoría de la trama de ‘Seis mujeres para el asesino‘ transcurre en esa casa de modas (algo que también haría Argento con ‘Suspiria‘, pero en una escuela de baile), que ofrecerá una escenografía visual y artística genial, que contrasta perfectamente con las muertes. Mario Bava aprovechará su pasado como director de fotografía para jugar con enormes salas coloridas y llenas de sombras, para llenarlas con maniquíes tétricos y biombos semitransparentes, todo perfecto para que se esconda el asesino y crear inquietantes atmósferas.
Mario Bava y el nacimiento del giallo
Desde que comienza la película nos encontraremos suspense, misterio, investigación policial, trazas de terror, muertes violentas, y con un estilismo muy definido. Esta mezcla es precisamente lo que afianzaría por completo el giallo criminal.
En 1962, Mario Bava dirigió ‘La muchacha que sabía demasiado‘ (la que se considera el inicio del giallo), con la que mostró las bases de este subgénero por el uso de la iluminación, los claroscuros, lugares públicos solitarios amenazantes, zooms, la cámara subjetiva, y cierta influencia de Welles, Hitchcock, e incluso del expresionismo alemán.
Con ‘Seis mujeres para el asesino‘ terminaría de consolidarlo con colores llamativos y con más muertes (y más violentas), que se mezclarían para crear una estética visual y sonora muy cuidada y llamativa. Todos estos usos se multiplicarían, y añadirían algunos, en la opera prima de Dario Argento, ‘El pájaro de las plumas de cristal‘ (1970).
Además aparecería la figura del asesino con guantes negro, recurso que se utilizaría más de una vez en el género. Estos estilismos están detallados en las reseñas de ‘Rojo Oscuro‘ (Dario Argento, 1975), y ‘¿Qué habéis hecho con Solange?‘ (Massimo Dallamano, 1972).
También empezamos a ver unas muertes más violentas, teniendo cuenta que era 1964, a manos de un asesino sin rostro que estrangula, abrasa, golpea y maltrata, a toda mujer que se encuentra por delante. No se recrea en algo gore (aunque la sangre excesivamente roja ya se empezaría a usar como recurso estético), si no en la propia violencia del asesinato, convirtiendo el antes, el durante y el después, en parte de la narración.
Conclusión
La película tiene momentos muy interesantes, donde veremos el porqué de su repercusión y que influyera tanto en gran parte del cine policiaco, thriller, y de terror italiano. Toda la estética, puesta en escena, y los asesinatos, son pequeñas recreaciones artísticas. Quizá lo peor para mí son las actuaciones, que algunas son muy flojas y otras aprueban muy justo, y tampoco es que tenga un guion sorprendente. Aún así, encontraremos giros y todo estará atado.
En definitiva, ‘Seis mujeres para el asesino‘ es una película donde nos adentraremos en el giallo, y descubriremos sus orígenes y bases. También se disfruta si te gusta el género de misterio y del whodunnit, adornado con muertes imaginativas.
https://lascronicasdedeckard.com/seis-mujeres-para-el-asesino-de-mario-bava/
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