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domingo, 4 de abril de 2021

Atto di accusa - Giacomo Gentilomo (1950)

TÍTULO ORIGINAL
Atto di accusa
AÑO
1950
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
90 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Giacomo Gentilomo
GUIÓN
Franco Bursati, Gaspare Cataldo, Ezio D'Errico, Giacomo Gentilomo
MÚSICA
Carlo Rustichelli
FOTOGRAFÍA
Alvaro Mancori (B&W)
REPARTO
Marcello Mastroianni, Lea Padovani, Andrea Checchi, Marga Cella, Emma Baron, Alda Mangini, Karl Ludwig Diehl, Amilcare Pettinelli
PRODUCTORA
Athena Cinematografica
GÉNERO
Intriga. Drama

Sinopsis
Mientras Renato es hecho prisionero en Rusia, al final de la segunda guerra mundial, Irene, que lo cree muerto ha contraído matrimonio con Massimo Ruska, antiguo profesor de derecho de ambos jóvenes y hoy rico abogado. El regreso de Renato a Italia, hará renacer el amor entre la joven pareja, cosa que el marido tratará de evitar por todos los medios con astucia diabólica. (FILMAFFINITY)
 
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Atto di accusa, nascita del thriller italiano

Bello, bello, bello. Finalmente un thriller italiano come si deve. Atto di accusa, diretto da Giacomo Gentilomo, è un film quasi perfetto dalle inquadrature al cast, dall’intreccio al sottofondo sonoro, fino allo splendido bianco e nero che sembra uscito da un’opera della metà del secolo scorso. E in effetti è proprio così. Pellicola del 1950 che non sfigura con i grandi classici internazionali del periodo, Atto di accusa presenta un giovane Marcello Mastroianni (Renato) sugli scudi, innamorato di una giovane donna sposata (Irene, Lea Padovani) e sospetto omicida con un passato dietro il filo spinato. Non mancano i momenti divertenti, la caratterizzazione della vicina testimone (la brava Alda Mangini) stempera la tensione così come il padre scroccone di Irene, mentre il tedesco Karl Ludwig Diehl rende bene la parte dell’avvocato Ruska, anziano marito e vera bussola della storia che si fa trascinare dalla gelosia fino al baratro.

Evitando spoiler non graditi da chi non ha visto il film, possiamo comunque dire che Atto di accusa riunisce diversi elementi di suspense che partono fin dai primi secondi di una storia che sembra in apparenza sentimentale ma che poi rivela trame di sospetto, ricatti apparenti e un nuovo omicidio che complica ulteriormente le cose per il protagonista. Bellissimi i primi piani, usate con buon equilibrio le riprese sghembe, il racconto non manca di una certa malizia in alcuni dettagli, affidata anche ai ragazzi dell’orfanotrofio seguiti da Renato e che osservano quanto li circonda. Poi c’è il classico commissario che intuisce che qualcosa non quadra finendo per risolvere il dilemma.

Atto di accusa, in definitiva, vale la pena vederlo e riscoprirlo considerato che Gentilomo non è ricordato certo come un regista amante dei riflettori, individuare dettagli (Ruska che esce dal parlatorio e si dirige per sbaglio verso le celle… un caso?), sapere da subito il colpevole per poi osservarne le mosse, immedesimarsi nell’innocente e sollevare il proprio spirito mentre il filo logico degli investigatori mette insieme gli indizi e completa il quadro. Con la finzione onirica che rivela la realtà manifesta nello sparo sentito ma non visto, lasciando comunque aperto un ultimo dubbio. Consigliato a chi è stanco di indagini scientifiche, DNA e quant’altro.
Paolo Morati
https://www.indiscreto.info/atto-di-accusa/

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Perfino migliore è Atto di accusa (novembre 1950; 99 min.), valido poliziesco in cui Mastroianni riveste per la seconda volta i panni dell’innocente ingiustamente accusato di omicidio. La pellicola girata da Giacomo Gentilomo (già autore di un paio di discreti gialli in epoca fascista (Brivido, 1941; Cortocircuito, 1943; vedi), deriva da un soggetto di Silvana Magnoni, sceneggiato dallo stesso regista (aiutato, tra gli altri, da un giovane Franco Brusati) e segna l’episodio finora più riuscito nella poliedrica carriera del cineasta triestino.
Renato (Marcello Mastroianni) torna in Italia dopo sei anni di prigionia sovietica e ritrova la bella fidanzata Irene (Lea Padovani) sposata con Massimo Ruska (Carl Ludwig Diehl), un anziano e prestigioso principe del foro, un tempo loro professore universitario. La coppia si incontra clandestinamente nei locali di una sarta e il marito geloso - dopo aver pedinato la moglie - uccide accidentalmente la padrona di casa nel tentativo di entrare con la forza. A quel punto decide di sfruttare la tragica situazione per far ricadere ogni colpa sul rivale. Un valente commissario (un ottimo Andrea Checchi) indaga: mentre quasi tutti danno per scontata la colpevolezza del giovane (il quale nel frattempo - dopo un secondo abile delitto del Ruska sempre finalizzato ad aggravare la sua posizione - si è costituito), egli capisce che qualcosa non quadra. Approfondisce ogni indizio fino a che non giunge a conoscere l’identità della donna al centro del dramma. Da lì a comprendere che il colpevole è l’ “autorevole” marito, il passo è breve.
Atto di accusa - giallo intenso e oscuro, ambientato in una Roma periferica e notturna di grande suggestione (tra piccoli bar malfamati e salette cinematografiche di terza visione) - mostra come i registi italiani sappiamo far tesoro della lezione del noir americano e riguadagnare il tempo perduto (il poliziesco era un genere filmico pressoché vietato durante il fascismo). Gentilomo fonde il dramma sociale (la questione del reduce “tradito” era già stata trattata nel magnifico La vita ricomincia, Mattoli 1945 e in Fatalità, Bianchi 1947) con il gioco a incastro di un aggrovigliato puzzle dalla logica avvincente nel quale - come in Contro la legge - perfino Irene finisce per dubitare dell’innocenza di Renato. Ne fuoriesce un’abile rappresentazione del macabro gioco del gatto e del topo, di carnefice e vittima, all’interno del quale l’anziano e stimato avvocato Ruska sembra essere inattaccabile e sembra governare il sinistro complotto con signorile eleganza. Irene stessa finisce col cadere nella rete del marito il quale - anziano e (si intuisce) soggiogato dalla bella e giovane moglie - è pronto a ogni crudeltà pur di non perderla. E’ insomma l’egoismo di un’esistenza al crepuscolo che vive in modo morboso la sua ultima primavera. Irene cade poi malata e rivive in un atroce incubo la propria angosciosa situazione (secondo moduli visivi debitori nei confronti di Io ti salverò, Hitchcock, 1946), fino a percepire il pericolo incombente (immagina di venire strangolata dal marito). Infatti nella parte finale, allorché il commisario giunge finalmente nella ricca dimora dell’avvocato per interrogare Irene, l’assassino capisce che il suo castello sta per dissolversi e prende in considerazione anche l’ipotesi di eliminare l’ormai scomoda moglie.
Il poliziesco di Gentilomo procede a ritmo serrato, fondendo dramma umano e perverso gioco criminale e calando il tutto in un affresco sociale differenziato in cui la povertà degli umili appartamenti di Renato e della sarta così come lo spoglio grigiore dei bar, dei cinematografi e dell’orfanotrofio ove Renato lavora come maestro, stridono con la principesca abitazione dell’assassino, nella quale Irene si aggira come una triste prigioniera.Su tutto prevale infine l’intelligente operato del commissario il quale scopre il colpevole e libera l’innocente, garantendo un fulmineo happy end.
In questa impostazione fiduciosa nelle istituzioni (simile a quella di Contro la legge), descritte come efficienti e popolate da individui tenaci e moralmente integerrimi, si evince una visione politica filocentrista (o se si preferisce filogovernativa) che doveva disturbare non poco la critica militante dell’epoca la quale - ovviamente - stronca il film (Aristarco - per tutti- parla semplicemente di “un mediocre film”). Il poliziesco - inviso al fascismo - irrita anche i socialcomunisti poiché tale genere cinematografico, con il suo obbligatorio lieto fine (all’epoca - con rarissime eccezioni - era impensabile concludere senza punire i colpevoli) e con l’implicita tendenza a lodare l’operato dell’odiata polizia di Scelba, possiede qualità “inutili” o peggio dannose all’ideologia progressista. In esso, infine, per quanto si metta l’accento su problematiche sociali, non si giunge a quel tipo di disamina desolante e amara che solamente appare idonea a generare frustrazione negli spettatori e a spostare il voto verso le opposizioni politiche. Per costoro quindi il giallo è un genere di “intrattenimento” da declassare e possibilmente da evitare. Ciò spiega la sistematica sottovalutazione di queste pellicole, anche quando (come nei casi qui esaminati), esse appaiono degne di una ben diversa cosiderazione.
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http://www.giusepperausa.it/_la_strada_buia__contro_la_leg.html


 

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