TÍTULO ORIGINAL
Capricci
AÑO
1969
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Inglés (Separados)
DURACIÓN
89 min.+
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Carmelo Bene
GUIÓN
Carmelo Bene
REPARTO
Carmelo Bene, Anne Wiazemsky, Giovanni Davoli
GÉNERO
Comedia | Crimen
Intervista a Carmelo Bene a cura di Noël Simsolo apparsa nel numero 213 dei “Cahiers du Cinéma” (giugno 1969) in occasione della presentazione del suo film Capricci alla Quinzaine des Réalisateurs del 22° Festival di Cannes. Anche questo film, come Nostra Signora dei Turchi, venne apprezzato dai critici e intellettuali francesi, raccogliendo pure il consenso del poeta Jacques Prevert.
Cahiers : Cos’è Capricci in rapporto a Nostra Signora dei Turchi ?
C.B. : E’ un capriccio di Nostra Signora. A differenza di Nostra Signora, Capricci è il nulla totale nell’arte, nella vita, nell’amore, nella passione, in tutto. Il nulla completo. Tutto è falso. Nei miei film, non bisogna credere ai personaggi, né a nient’altro.
Cahiers : Dopo avere scritto il romanzo, ha fatto di Nostra Signora l’adattamento teatrale. La dimensione teatrale l’ha limitata?
C.B. : Per niente! Nessun limite! Non ho potuto buttarmi dalla finestra, ma c’erano altre cose. Non ho utilizzato nessun artificio. C’era soltanto una vetrata al posto del sipario. Il pubblico doveva seguire l’azione attraverso questa vetrata. Non sentiva niente, tranne quando l’attore si degnava di aprire una finestrella. E’ stato un gioco diverso, ma anche più forte che nel film. Per colpa della vetrata, il pubblico era obbligato a vedere delle azioni senza sentire una parola. In teatro, questo era ancora più importante. Nel film, si capivano poche parole, ma non era come a teatro, dove il pubblico è abituato a comunicare proprio attraverso queste parole. A causa di questa specie di acquario a teatro c’era un’impossibilità totale di comunicazione: era un fatto, e io così ho realizzato l’impossibile, mentre invece nel film c’è un equivoco. Le immagini e i colori possono colpire lo spettatore al punto da fargli credere di comunicare e di capire. Infatti, gli è impedito di capire. Il film, a causa di questo equivoco è infernale; la realizzazione teatrale è uno spettacolo astratto. Questa è l’unica differenza. Capricci è molto vicino a quello che sono riuscito a raggiungere con la versione teatrale di Nostra Signora. E’ un film più moderno, nel senso reale del termine.
Cahiers : Come si sono svolte le riprese? Ha avuto problemi tecnici?
C.B. : Tutto semplicissimo! Spero che un giorno ogni spettatore comprenda che può prendere una macchina da presa e cominciare a fare un film.
Cahiers : Quanto tempo è occorso per le riprese?
C. B. : Tre settimane per Capricci. Nostra Signora ha richiesto 40 giorni, perché eravamo lontani da Roma ed eravamo sempre in attesa, per poter girare, di pellicola e di materiali. Il montaggio ha richiesto due settimane, mentre ho fatto la post-sincronizzazione in ventiquattr’ore.
Cahiers : Come concepisce il montaggio?
C.B. : Non mi pongo nessun problema del genere. Faccio quello che si fa da secoli in pittura e in musica. Bisogna fare del cinema non stupido, e non fare del cinema intelligente. Nella musica di Monteverdi il montaggio ha un ruolo capitale. Molti pensano di scoprire queste cose per mezzo del cinema, invece le hanno scoperte in Bach, in Verdi, in Mozart. Quando parlo di cineasti, penso a Borges, a Joyce, a Gounod… Una cosa, uno può scriverla, metterla in musica, dirla, berla, tutto.
Cahiers : Perché farne un film?
C.B. : Perché no? Se per tre anni lei ha mangiato, un giorno può bere; per me, il cinema è questo. Penso alla musica come cinema. Non la colonna sonora, ma la musica delle immagini. In questo senso il montaggio mi interessa enormemente. E soprattutto, il cinema è un mezzo più ricco del teatro. Per l’attore, il teatro (con la sua comunicazione necessaria) è un alibi. Alla fine si inchina, è applaudito, una strizzatina d’occhio al pubblico… Il cinema è una terza persona destinata non soltanto ai popoli civilizzati; mentre il teatro è fatto solo per questi.
Cahiers : Quando pensa alla colonna sonora?
C.B. : Giro sempre con la musica in testa. Dico all’operatore: “Attento! Qui c’è un valzer, ecc…”. Calcolo tutto questo prima delle riprese. Detesto la musica applicata al film finito, come un’etichetta.
Cahiers : Cosa pensa del cinema italiano?
C.B. : Ci sono due parole che non deve pronunciare insieme: la parola cinema e la parola italiano. Il vero pericolo non sono in realtà gli americani, ma i falsi americani, gli europei che vogliono imitare gli americani. Arrivano ad applicare teorie economiche gratuite. Credo che il giorno in cui il pubblico cinematografico rinuncerà a Chaplin, il cinema potrà cominciare. Bisogna demistificare a tutti i livelli. Sono d’accordo con Borges quando dice: ” non posso esprimermi, posso soltanto fare delle citazioni”. Non credo all’espressione. (…)
Cahiers : Attraverso la forma dei suoi film, lei cerca di portare il pubblico a certi punti di forza…
C.B. : E’ un difetto del mio primo film. Se qualcuno legge Ulisse, può sospendere la lettura quando vuole; il che è impossibile al cinema. Se porto il pubblico ad accettare certe cose a livello razionale, è una disonestà. Per me, la comunicazione non è nient’altro che una corruzione. Non voglio che i miei film comunichino qualcosa.
Cahiers : Giustamente, in Capricci, ogni sequenza è una distruzione della precedente e impedisce qualsiasi interpretazione. E’ un po’ come nel Trovatore, dove il messaggio apparente è distrutto dalla comunicazione musicale …
C.B. : E’ vero, ma Verdi non ha composto la sua opera con questo scopo. Ha semplicemente realizzato una scrittura musicale. Credo che, fuori dall’ideologia e dalla comunicazione di spirito letterario, sia ora di recuperare una parola che oggi sembra maledetta: sentimento. Se uno ci arriva davvero, arriva alla situazione ideale e può realizzare quello che è stato realizzato con la musica.
Cahiers : Si tratta di una sorta di comunione che rimpiazza ogni comunicazione, come tenta il Living Theatre?
C.B. : Ah no! Quella del Living è una comunione di idee, che io non voglio! Parlo di una comunione-comunione, completamente astratta, gratuita e umana. Perché cercare ragioni che rendono una cosa bella, se la si trova bella? Quando si fa l’amore, non ci si chiede se ci piace per questo o per quello. Il Living invece fa così, e questo è il suo torto.
https://www.umbertocantone.it/carmelo-bene-capricci-entretien-in-cahiers-du-cinema-numero-213-juin-1969/
Un telefono rosso: questa è la prima immagine del film. Il rosso è un colore che tornerà spesso, in Capricci. Il rosso è il colore della passione, del sangue e dunque della vita; il colore della violenza, del desiderio e dunque della passione; il colore della vita, della violenza e dunque del sangue. Il rosso, nelle sue sfumature politiche, è il colore del Comunismo. Lo ritroveremo nella sciarpa indossata dal vandalico e passionale personaggio che ha le sembianze di Carmelo Bene; nel tavolo attorno al quale i tre anziani protagonisti siedono e parlano (parole ripetitive e ridondanti); nella camicia a quadri del pittore, ovvero del creatore-di-quadri; in molte altre occasioni, tra le quali la scena dei titoli di coda: il film si apre con il rosso, il film si chiude con il rosso. Capricci è una matrioska i cui singoli elementi non contengono copie più piccole di sé stessi ma gli stessi sé.
L’opera seconda di Carmelo Bene, dunque, si apre con un telefono rosso che squilla. E, squillando, trascina sullo schermo frammenti dello spazio entro il quale esso è situato, cornici e quadri, fino a quando la macchina da presa non incontra il volto di C. B. Lo squillo cessa e vediamo un uomo, il creatore-di-quadri, che spruzza un qualche gas, infastidendo Bene, con indosso degli occhiali che lo proteggono da quel gas (la cui natura verrà esplicitata più avanti nel film). Un terzo uomo appare sullo schermo, un anziano in posa da crocifisso che, ripetutamente, continuamente, inutilmente guarda l’orologio che indossa al polso. Tre personaggi, dunque, occupati in azioni che, in verità, smentiscono ciò che dovrebbero essere: il pittore non dipinge ma colloca dietro cornici vuote gli oggetti che dovrebbero appartenere alla tela; l’uomo crocifisso non è crocifisso, quando volge lo sguardo all’alto non è per chiedere perdono a Dio per i peccati commessi dall’umanità ma perché impaziente e spazientito; e Bene, che presumiamo essere uno scrittore, non scrive. Tutti e tre non-agiscono. Il che è diverso dal non agire, ovvero dallo star quieti, dall’oziare, in quanto non-agire è, qui, un prodigarsi in azioni che non sono ciò che ciascuno dei tre personaggi dovrebbe fare. Così, quando vediamo il pittore dipingere dei pesci, non lo fa ritraendoli su una tela ma macchiandoli con della vernice; il crocifisso, che capiamo essere un modello per il creatore-di-quadri, non attende la sua morte inchiodato a dei legni ma, stando sui propri piedi, attende qualcosa che si trova altrove, nel tempo e/o nello spazio (ed immaginiamo che sia il momento in cui può abbandonare la propria posa); lo scrittore sfoglia pagine bianche pasticciate con un pennarello nero, trascina dentro e fuori il rullo della macchina da scrivere (che, nelle mani di Bene, diventa una macchina da non-scrivere) fogli senza mai battere un tasto. Ogni cosa, in questa scena d’apertura di Capricci, è il negativo di sé stessa e diviene così simbolo. La negazione diventa forza simbolica e trasforma così l’immagine, da Bene ritenuta volgare, in un significante il cui significato non è interno al significante stesso. Il significato, ovvero questo sasso in bocca al significante (espressione di Jacques Lacan che Bene soleva ripetere), dunque, mostra come non solo il linguaggio parlato ma anche l’immagine stessa sia vuota ed in-significante, priva di significato, e che solo arbitrariamente essa viene riempita con un concetto, un’idea, un “significato”. Ad esempio: quando vediamo Bene che agita i fogli tra le mani, vediamo semplicemente una persona che, avendo tra le mani dei pezzi rettangolari di carta, li muove compulsivamente. Siamo noi ad attribuire a questo “linguaggio visivo” un significato, così come siamo noi ad attribuire alla combinazione di lettere (o suoni, nel caso si usasse la voce) f-o-g-l-i-o il significato che conosciamo.
Dopo questo iniziale follia negativa (nel senso che abbiamo appena descritto, ovvero di azioni che si smentiscono da sé), finalmente udiamo le prime parole del film. Il pittore ha freddo e vuole accendere il camino, vicino al quale si trovano diverse tele che, su sfondo bianco, riproducono il simbolo del Comunismo, la falce e martello. “La commedia è finita”, dice rivolgendosi a Bene. Quale commedia? Ancor più oscura è la risposta di C. B., il quale, con tono annoiato, porge quegli stessi fogli che stava trascinando dentro e fuori la macchina da scrivere dopo aver detto “Primo atto”. Primo atto? Primo atto di cosa? Forse della commedia a cui il creatore-di-quadri ha fatto riferimento? Ma come può il primo atto di una commedia giungere dopo la fine della commedia stessa? È qui presentato sullo schermo cinematografico quello che probabilmente è il più grande traguardo raggiunto da Bene a teatro: la vanità del gesto, ovvero, con le parole di Maurizio Grande, “il gesto che afferma la propria vanità” (nel senso di vano, non di vanesio) protagonista assoluto del geniale Lorenzaccio. Questo “primo atto” che segue la fine viene poi dal pittore dato alle fiamme, nel tentativo di accendere finalmente il camino. Ma le fiamme originate dalla combustione di un (non-)testo teatrale risultano inutili, non possono raggiungere lo scopo per il quale sono nate. Troviamo qui, così, l’ennesimo, feroce e meraviglioso attacco al teatro da parte di Carmelo Bene, al testo, alla scrittura. Capricci è un atto di negazione del linguaggio, in ogni sua forma e declinazione: gli anziani signori protagonisti del film parlano reiterando continuamente una singola frase, o urlando, o usando il dialetto, insomma in qualsiasi modo permetta loro di rendersi il meno comprensibili possibile; il “linguaggio” dell’automobile viene ribaltato mostrando macchine che continuamente si scontrano ed accartocciano; il linguaggio dell’amore perde la parola e si limita all’istinto passionale e fisico, violento e distruttivo.
La macchina da non-scrivere, che pare in questo primo frammento come un oggetto tra gli oggetti, una “cosa” che esiste lì, in quel luogo e quel tempo, solo perché “serve”. In verità, quella macchina da non-scrivere che viene maneggiata da Carmelo Bene è la protagonista, silente, nascosta, sfuggente, di questa scena incipitaria, se non addirittura dell’intero film stesso. Perché quella macchina da non-scrivere è Carmelo Bene, in quanto motore della negazione. Bene ha sempre negato, è sempre stato, sempre prodotto, sempre pensato un non-qualcosa: ha negato l’attore, portando alla luce la macchina attoriale; ha negato l’esistenza, aspirando alla non-esistenza; ha negato la storia, ponendosi al di fuori di essa (significativa, in questo senso, la pubblicazione nei Classici Bompiani del suo Opere: primo “classico” ad interagire con la propria contemporaneità); ha negato il linguaggio ed il pensiero, parlando attraverso (o, meglio, lasciandosi parlare da) filosofi e pensatori del passato. Carmelo Bene, come quella macchina da non-scrivere, è un uomo non-esistente. Forse, non è mai stato neanche un uomo. Forse è stato solo un’ombra illusoria con la forza di negare l’innegabile, di rappresentare l’irrapresentabile, di dire l’indicibile. Questo inizio di Capricci, nella sua insensatezza apparente, nella sua follia che potrebbe apparire come pretenziosa ed intellettualoide, racchiude proprio in quell’insensatezza, in quella follia la propria grandezza e l’arte intera dell’autore, che disse “Io sono per il Grande Teatro” ovvero “quanto è incomprensibile”, durante il celeberrimo Uno contro Tutti al Maurizio Costanzo Show del 1994. E, come ben mostra questa prima sequenza, il cinema di Carmelo Bene è profondamente incomprensibile. L’unica cosa che possiamo fare è limitarci a provare a tentare di cercare di sperare di interpretarlo.
Federico Querin
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Mario Masini, I miei film con Carmelo Bene
A cura di Carlo Alberto Petruzzi
Entre 1968 y 1973, Carmelo Bene (1937-2002) interrumpió temporalmente su labor teatral para realizar cinco incursiones en el cine: Nostra Signora dei Turchi (1968, Premio Especial del Jurado en el Festival de Venecia), Capricci (1969), Don Giovanni (1970), Salomè (1972) y Un Amleto di meno (1973). En todas ellas, el diablo del teatro italiano siguió trabajando, como había hecho ya en la escena, contra la representación y practicó una forma de escritura (aquí cinematográfica) que juega con las promesas de mímesis y de sentido propias del relato clásico. En los films de Bene, ocurre que la presencia de personajes, acción y lugar es perfectamente compatible con un montaje antinarrativo que parece desconocer la coherencia espacio-temporal así como con un uso antinaturalista del color y de la iluminación. Las promesas clásicas quedan incumplidas y la escritura cinematográfica opone resistencia a la lectura; es más, podríamos decir que se afirma a sí misma como acto de creación justamente en su ilegibilidad. Bene socavó también la fiabilidad fotográfica de la película manipulando el material rodado y recurriendo, ya durante el rodaje, a sobreimpresiones, espejos y cristales coloreados que permitían desenfocar la visión hasta el límite de la estabilidad visual. En esta liquidación de la ecuación realista –entre lo que se ve y lo que se piensa como referente– fue determinante la colaboración del director de fotografía, Mario Masini, que acompañó Bene en cuatro de los cinco largometrajes (todos menos Capricci, donde el director fue Maurizio Centini) y que gracias a su inventiva técnica logró materializar muchas de las acrobacias formales que el director teatral le exigía al cine. Es preciso recordar que Masini ha sido, antes y después de su trabajo con Carmelo Bene, uno de los protagonistas del cine experimental italiano de los años sesenta (Il sogno di Anita, 1963; Immagine del tempo, 1964; X chiama Y, 1968) y que ha trabajado además con muchos cineastas, entre otros Paolo y Vittorio Taviani (San Michele aveva un gallo, 1972; Padre Padrone, 1977, Palma de oro al Festival de Cannes) y Haile Gerima (Teza, 2008, Premio Especial del Jurado en Venecia). En el volumen que reseñamos, Masini recuerda sus días de trabajo con Bene ofreciendo muchos detalles hasta ahora desconocidos y nos permite entender cómo, para el director teatral, se trataba ante todo de transformar la actitud naturalista del cine en una elaboración artística superando los límites impuestos al cine por la realidad y la naturaleza (Masini, 2020, p. 35). Los recuerdos de Masini muestran a un Carmelo Bene que juega con el cine explorando posibilidades para liberar al medio de sus servidumbres miméticas y narrativas. La pasión experimental que el director vivía durante el rodaje se extendía también a actores y colaboradores técnicos: “Carmelo accettava l’inventiva sul set perché permetteva anche a lui di poter intervenire in modo inaspettato” (p. 30). En efecto, si hay algo que se desprende de estas páginas es una forma de trabajar en la que el único límite es el de la imaginación porque incluso la escasez de recursos se convierte, para Bene, en una oportunidad imprevista, como ocurre, por ejemplo, con la ausencia de sonido en directo: “Nei quattro film che ho realizzato con Carmelo, non abbiamo mai registrato l’audio spesso anche a causa della scarsità delle risorse a nostra disposizione [...] Invece di rappresentare un limite, non dover pensare all’audio ci ha per-messo di essere molto più liberi sul set. Potevamo cambiare idea anche nel corso delle riprese” (p. 9).Masini corrobora así, con sus recuerdos, el carácter heroico de la experien-cia cinematográfica de Bene quien solía definir su cine como “el ciclo de la dépense”, por el inmenso gasto de sí (Bene, 1983, p. 87) y porque allí la vida era inseparable de la escena, como sugiere el mismo director de fotografía cuando recuerda que la cocina de Bene fue convertida en la escena del gusto del disgusto de Nostra Signora... (p. 20) o que la casa de Bene en Roma fue el castillo medieval (de una sola habitación) de Don Giovanni (p. 26). Otras fueron las circunstancias de trabajo en el caso de Salomé y Un Amleto di menocuando ambos pudieron disfrutar de la opulencia de Cinecittà. Sin embargo, tampoco entonces, renunciaron a la experimentación, como revelan los detalles técnicos que menciona Masini acerca del uso del Scotchlite en Salomé (p. 28) o de la montaña de libros en Amleto (p. 32). El relato del director de fotografía está subdividido en capítulos (uno por cada film) e incluye también dos apartados sobre proyectos no realizados (Faust y Giuseppe Desa da Copertino). El volumen ofrece además unas fotografías hasta ahora inéditas que fueron tomadas durante la realización de Un Amleto di meno y que se conservan en el Archivio Papi Cipriani.Carlo Alberto Petruzzi ha sabido reunir estas memorias conservando toda la precisión del relato técnico y la inmediatez del registro oral. Sin duda, el profundo conocimiento que el investigador posee del trabajo de Bene –y que le ha permitido, hace dos años, reunir la más completa bibliografía de y sobre las obras del director (Petruzzi, 2018)– fundamenta la impecabilidad filológica de las notas aclaratorias que, en el volumen, contextualizan los momentos evocados.
Queremos destacar finalmente que el texto se publica en lengua italiana, francesa e inglesa, incrementando así el todavía reducido número de publicaciones sobre Bene en ámbito internacional. Para el investigador interesado en una de las figuras más relevantes de la historia del teatro italiano este documentado volumen con su interesante apéndice fotográfico, así como la ya citada recopilación bibliográfica, constituyen un utilísimo instrumento de trabajo.
Annalisa Mirizio - Universitat de Barcelona
Riferimenti bibliografici
Bene, Carmelo. (1983). Sono apparso alla Madonna.Milano: Bompiani.
Petruzzi, Carlos Alberto. (2018). Carmelo Bene: Una bibliografia (1959-2018). Venezia: Damocle.
https://www.readcube.com/articles/10.5565%2Frev%2Fqdi.496
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