TÍTULO ORIGINAL
L'invenzione di Morel
AÑO
1974
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español, Italiano e Inglés (Separados)
DURACIÓN
110 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Emidio Greco
GUIÓN
Andrea Barbato, Emidio Greco. Novela: Adolfo Bioy Casares
MÚSICA
Nicola Piovani
FOTOGRAFÍA
Silvano Ippoliti
REPARTO
Giulio Brogi, Anna Karina, John Steiner, Ezio Marano, Margareth Clémenti, Roberto Herlitzka, Claudio Trionfi, Laura De Marchi, Filippo De Gara, Valeria Sabel, Francesco D'Adda, Dolly Dee
PRODUCTORA
Alga Cinematografica, Mount Street Film, Ministero del Turismo e dello Spettacolo
GÉNERO
Drama. Fantástico
“L’isola”, nel cinema, è stato sempre un luogo che ha ispirato tanti registi. Il suo essere “luogo separato” dal resto del mondo, chiuso e spesso incontaminato, ha permesso che la fantasia di tanti cineasti, a volte ispirati da illustri scrittori, si scatenasse, creando dei luoghi dove, di volta in volta, a farla da padrone fosse il mistero, la passione, l’avventura o l’orrore.
Un esempio su tutti “L'isola del dottor Moreau” del ’77 basato su un racconto di H.G. Wells e poi ripreso nel ‘97 con il titolo “L’isola misteriosa” dove a fare la parte del “cattivo scienziato pazzo” troviamo un Marlon Brando un po’ sopra le righe. La rubrica "Review", questa settimana, andrà su un’isola sperduta, messa in scena dal regista Emidio Grego nel 1974 che, ispirandosi ad un romanzo di Adolfo Bioy Casares del 1940, ci fa conoscere i misteri de “L’invenzione di Morel”.
Su un’isola, apparentemente deserta, approda un naufrago (G.Brogi) ricercato dalla polizia.
''L'invenzione di Morel''Nel suo vagare alla ricerca di cibo il nostro novello Robinson Crusoe scopre una stravagante architettura nella quale si trova una biblioteca, una sala conferenze e degli eleganti saloni. Nei giorni seguenti, con grande sorpresa vede che l’isola in realtà non è disabitata ma frequentata da personaggi che, vestiti con eleganti abiti da sera un po’ anacronistici, vagano intorno alla struttura discutendo amabilmente. Fattosi coraggio, decide di palesarsi a Faustine (A.Karina), una bellissima donna che prende ogni giorno il sole in disparte dagli altri. Il tentativo di contatto sarà vano perché la giovane donna ignora il fuggitivo e sembra addirittura non vederlo. Con grande stupore si renderà conto che anche tutte le altre persone, non solo ignorano la sua presenza, ma ciclicamente ripetono gli stessi gesti, le stesse frasi e gli stessi comportamenti.
''L'invenzione di Morel''Il mistero però ne contiene un altro: l’ormai disorientato naufrago, durante una riunione tenuta dal dottor Morel (J.Steiner),a cui lui assiste, non visto, capisce che gli strani ospiti dell’isola sono vuote proiezioni tridimensionali dovute proprio ad una macchina alimentata dalle maree e dalla luce solare. La diabolica invenzione di Morel è riuscita a registrare non solo l'immagine o il suono, ma tutto quanto colpisce i sensi umani. Quelli della macchina sono però dei raggi mortali e chi ne viene colpito muore, resuscitando come pura immagine quando il meccanismo si mette in moto proiettando all’infinito le vite degli uomini che ha “risucchiato”. In preda alla disperazione anche il naufrago cede alla tentazione dell’immortalità (forse anche per incontrare “realmente” la bella Faustine) e si mette di fronte alla macchina. Solo all’ultimo momento ci ripensa e la distruggerà ma ormai è troppo tardi perché anche lui, ucciso da raggi mortali, si unirà al resto della compagnia di incorporei personaggi.
''L'invenzione di Morel''Girato sulle spiagge di Malta, il film è abbastanza insolito per quanto riguarda la produzione italiana. Pur non godendo di un ritmo veloce e avendo dei dialoghi essenziali e ridotti all’osso (le prime parole si sentono passati 32 minuti dall’inizio), il film è affascinante e nonostante la partenza in sordina, che tra l’altro è ben calibrata dai suoni della natura (il vento, la pioggia, il mare) riesce a trascinare lo spettatore e a metterlo affianco al naufrago nella scoperta del mistero che avvolge l’isola.
Il tema principale è quello antico quanto l’uomo: l’illusione di sottrarsi alla morte e riprodurre la vita magari diventando pura forma. Ma la superbia dell’uomo si scontra con la finitezza esistenziale dell’individuo stesso che sembra quasi votato ad un principio di autodistruzione. L’immortalità dei personaggi è molto effimera -a sopravvivere sono solo gli aspetti più superficiali- ma soprattutto è illusoria e paradossale perché è necessario passare prima per la morte.
''L'invenzione di Morel''Per certi versi potremo anche dire che il film di Greco -ma prima di tutto il libro che lo ha ispirato- potrebbe rappresentare il primo tentativo di messa in scena di “realtà virtuale” o meglio ancora di dualismo tra realtà e finzione: la vera morte e la finta vita eterna; la vera isola deserta contrapposta alla finte immagini/film che la macchina di Morel proietta. L’intera pellicola può, per questi motivi essere letta come il desiderio di lasciare la realtà per entrare dentro la finzione rappresentata in questo caso dal film generato da Morel. Il protagonista impossibilitato ad amare “veramente” la bella donna che lo affascina decide di entrare nel film per recitare affianco ai protagonisti. Insomma, quasi un esempio di “metacinema” che mi sento di consigliare vivamente a quelle persone che anche durante l’estate non disdegnano un buon film per riflettere ma anche per fantasticare. Il tutto accompagnato dalle “voci” di una natura selvaggia e dalle musiche di un giovanissimo e futuro premio oscar Nicola Piovani.
Frase del film: “…l'eternità rotatoria può sembrare atroce ad uno spettatore; è soddisfacente per i suoi attori. Liberi da cattive notizie e da malattie, vivono sempre come se fosse la prima volta, senza ricordare le precedenti. E' vero che neanche per le immagini c'è prossima volta: tutte le volte sono identiche alla prima.”
Filippo Primo
http://www.cinemecum.it/newsite/index.php?option=com_content&view=article&id=1850%3Alisola-del-dottor-moreau-di-emidio-grego&catid=128&Itemid=423
“C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera.”
Walter Benjamin, tesi Sul concetto di storia, Einaudi, 1997
“L’invenzione di Morel” è sicuramente uno dei film più complessi di Emidio Greco che esordì nel 1974 con questa trasposizione cinematografica del romanzo fantascientifico di Adolfo Bioy Casares.
È Giulio Brogi ad interpretare il naufrago dal volto sofferente e pallido che, fuggito da un penitenziario, raggiunge, trasportato dalle correnti a bordo di una “barca marcia”, la fatale bianca isola dove è nascosta al mondo l’invenzione di Morel.
Quest’uomo ha affrontato “un viaggio irripetibile”, ma approdato fortunosamente tra gli scogli, altro non trova che una distesa abbagliante di pietre aride. La fotografia luminosa di Silvano Ippoliti concorre alla creazione di una atmosfera che preannuncia una folgorazione, lo sconvolgimento futuro del protagonista.
Comincia così ad esplorare l’isola, fino a scoprire il luogo in cui è nascosto il mistero che sarà poi determinante nella vita dell’uomo.
L’architettura futurista del “museo”, come verrà chiamata la costruzione dallo stesso Morel, ricorda lo stile della scuola Bauhaus e di un certo Mendelsohn: l’aspetto del luogo inizialmente fa vivere nello spettatore la sensazione che la storia sia ambientata in anni relativamente contemporanei a quelli in cui è stato girato il film, ma quando il naufrago vaga per le stanze arredate secondo lo stile dei primi decenni del XX quel tempo che sembra definito diviene incerto. Amedeo Fago costruisce una scenografia perfettamente coerente con l’intenzione del regista: interpretare e rendere evidente il senso di ambiguità e di sospensione della dimensione temporale e spaziale, ambiguità peraltro già sottilmente richiamata nella scelta di collocare la vicenda sulle coste dell’isola di Malta, luogo topico della scoperta e del mistero, dell’ignoto.
Passano i giorni, una mattina si stagliano dagli scogli, come spettri che improvvisamente scelgano di comparire, alcuni uomini e donne che danzano sulla musica elegante e frizzante di Nicola Piovani. Il naufrago non comprende immediatamente la realtà della situazione, crede che questi siano villeggianti e che possano denunciarlo, perciò li teme e si nasconde.
Al tramonto incontra Faustine (Anna Karina), una giovane ed algida donna che legge, indifferente alle parole che il giovane le rivolge. Scosso dall’atteggiamento inspiegabile della ragazza, l’uomo raccoglierà dei fiori selvatici in una composizione per omaggiarla il giorno successivo, ma l’incontro si ripeterà simile al precedente: Faustine sembra disprezzarlo, rimane muta e assorta mentre il naufrago cerca delle risposte e crederà che la donna voglia difenderlo e coprire la sua fuga ed intanto continua a spiare i villeggianti da lontano. Presto si renderà conto che alcune azioni si ripetono ciclicamente, identiche: sono i passi dei personaggi, come il rumore dei tacchi di Faustine sulla pietra, o il suono della risacca, il silenzio dell’isola immobile e assolata a scandire la sua vita.
Solo quando l’uomo ascolterà Morel (John Steiner) confessare impassibile e glaciale di avere filmato, “fotografato”, l’essenza dei suoi amici riuniti nel “museo” per donare loro l’immortalità e l’eternità in quei “sette giorni di spensierata gaiezza”, solo allora comprenderà che Faustine e gli altri sono proiezioni materiali di una macchina, esistenze impresse nel tempo e nello spazio solo virtualmente reali.
Quello che sconvolge ed inquieta è che questa forma di fisicità metafisicamente riproducibile sia più tangibile della stessa fisicità: Morel definisce i suoi compagni di villeggiatura come attori su un palco, i loro atti sono stati fotografati, loro stessi sono stati inquadrati e impressi nello spazio in tutta la dimensione che li costituisce. La verità è folgorante: il naufrago comprende che non potrà vivere con l’immagine della donna che ha amato, perché questa possiede solo la coscienza del passato. Lo stesso Morel lo ammette: “l’influenza del futuro sul passato” è stata la ragione per cui ha deciso di “imprigionare” questo “hic et nunc” impregnato di fiducia e ottimismo, per potersi garantire l’eternità in un “ritratto di gruppo” ed essere al fianco di Faustine che ama non ricambiato, come a fermare lo sfacelo della parabola discendente della storia umana. “A chi servirà?” chiede uno degli amici dell’inventore interpretato da Roberto Herlitzka. “A noi stessi se torneremo” è la risposta dello scienziato che vorrebbe prolungare il soggiorno in un “paradiso privato perfettamente protetto”, perché Morel sa che il mondo fuori è sicuramente già cambiato in quei sette giorni, sicuramente è ancora di più brutale e terribile.
Isola di Capuano, luglio 1929
È questo il tempo di Faustine. Il naufrago è giunto circa cinquant’anni dopo. Per poterle essere accanto in eterno, l’uomo decide di entrare nella registrazione e di creare quindi una sovrapposizione temporale effettiva anche nella riproduzione ciclica di questa fotografia sensoriale. È impossibile per lui abbandonare l’isola e nel mondo non potrebbe raccontare ciò che ha visto. Entrare nell’invenzione implica, però, rinunciare a se stessi: Emidio Greco, che ha seguito i gesti dei personaggi con rigore e razionalità definendoli con inquadrature sempre più vicine dal momento in cui svela l’inganno della macchina, mostra adesso allo spettatore i tentativi dell’uomo di inserirsi tra i villeggianti come un pezzo della loro storia.
Il regista riesce a mostrare il velo di realismo magico che avvolge l’opera dello scrittore argentino, indica allo spettatore l’incertezza ed il senso di sospensione del protagonista nel dilatare la storia in tempi distesi: il montaggio di Mario Chiari assicura questa consequenzialità nelle azioni.
Per Jouvet l’attore è un uomo in fuga che cerca nel Teatro il suo altrove. Giulio Brogi interpreta un uomo in fuga che cerca il suo alibi e il suo altrove nel passato, insieme ad una figura femminile chimerica e distante, irraggiungibile. Si tratta di un Teatro registrato, imprigionato nell’invenzione di un uomo solo e insoddisfatto, Morel, che vorrebbe donare alla realtà e all’impossibile l’eterno ritorno e l’eterna fuga dal tempo.
Emidio Greco, però, aggiunge come sempre un “perché”: si interroga sugli strumenti di rappresentazione e di riproduzione della realtà, sul loro potenziale conoscitivo e sul modo di tradurli nel linguaggio proprio del genere, evocativo ma al contempo chiaro nell’evidenza dei significati profondi ad esso sottesi. Anche qui Greco, come avverrà ne “L’Uomo Privato“, ci propone un cinema di pensiero; anche qui conduce lo spettatore verso una riflessione sull’etica del cinema, sulla ricerca di senso dell’esistenza in sé e dell’uomo nei confronti della storia.
La realtà non può rinunciare a se stessa nell’illusione di fuggire alla dimenticanza ed alla solitudine del proprio tempo: il protagonista de “L’invenzione di Morel” distruggerà la macchina, i raggi mortali che lo dovrebbero condurre con l’immagine della donna che ama ad una felicità eterna stanno assorbendo la sua essenza ed egli si sta disfacendo.
Nell’ultimo primo piano del protagonista, Emidio Greco dà risonanza alla tensione ed al fermento che animano tutto il film e pervadono l’isola ed i personaggi: sembra abbia costruito nello sguardo perso del naufrago una consapevolezza che, però, non può salvarlo.
Irene Gianeselli
https://oubliettemagazine.com/2014/07/03/linvenzione-di-morel-film-di-emidio-greco-la-trasposizione-del-romanzo-fantascientifico-di-adolfo-bioy-casares/
Sinopsis: Un hombre llega en un bote hasta una apartada isla. Tras recorrerla de cabo a rabo, el único vestigio de presencia humana que encuentra es una gigantesca mansión abandonada. Tiempo después y sin que se haya producido ningún desembarco en la isla, descubre como un grupo de gente baila alegremente en las inmediaciones de la casa…
Resulta cuanto menos sorprendente el olvido en el que se encuentra sumido un film de la incuestionable valía de L’ invenzione di Morel, única traslación cinematográfica hasta la fecha de la novela “La invención de Morel” del argentino Adolfo Bioy Casares, publicada por primera vez en 1940. Más aún, tratándose, en mi opinión, de una de las más altas cimas alcanzadas por el cine italiano en general, y por el fantástico en particular, no teniendo nada que envidiar a lo más granado de aquella cinematografía. Sin embargo, rara vez, por no decir ninguna, su nombre ha aparecido al lado de títulos como Ladrón de bicicletas y El gatopardo, en un sentido, o La máscara del demonio y Rojo oscuro, en otro. No sólo eso, sino que antologías especializadas como puede ser el reciente y, por lo demás, imprescindible monográfico de la revista “Quatermass” dedicado al cine fantástico italiano despachan su existencia de pasada con un comentario de apenas un par de líneas de extensión.
Puede que a esta situación haya contribuido el que L’ invenzione di Morel sea una película en la que no es fácil entrar. Por el contrario, exige de cierta implicación por parte del espectador merced a una primera parte pausada, episódica y expositiva centrada en la llegada y familiarización del protagonista con la isla que sirve de marco de acción a la historia. Un esfuerzo que, no obstante, tiene su recompensa, ya que tras tan poco estimulante comienzo se encuentra un film que con un andamiaje argumental no demasiado complejo logra articular una ingente cantidad de reflexiones acerca de cuestiones filosóficas y metafísicas, tan rico en matices como en posibilidades de lectura. Y es que, en el fondo, de lo que trata la película no es de otra cosa que de la eterna búsqueda del ser humano de la inmortalidad a través del amor y viceversa, una historia que se viene repitiendo desde que el mundo es mundo.
De este modo, conceptos como el amor, la soledad, la rutina, la tiranía, o la estrecha línea que separa la realidad de la ficción desfilan con inusitada fluidez por una trama protagonizada por un prófugo de la justicia evadido a una isla deshabitada en la que descubre a otros habitantes que resultan ser, al menos en teoría, la proyección tridimensional de una grabación de antiguos veraneantes. Para tal fin, la película se vale de los contrastes y la ambigüedad en sus contenidos. Así, si la isla significa la libertad para el prófugo, al mismo tiempo es el lugar de encierro de él y de los turistas; si éstos viven en una confortable mansión con todos los lujos a su alcance, el evadido pasa sus días como un ermitaño escondido entre las rocas del rompeolas; si el protagonista llega a la isla huyendo de la sociedad que lo ha marginado, una vez advierta la presencia de otros habitantes hará todo lo posible para entablar relación con ellos.
Precisamente, esta última circunstancia acaba por brindar uno de los temas más interesantes que plantea la cinta: la necesidad del individuo de la existencia de otros con la que poder reafirmar la suya propia. Un razonamiento que queda explicado en los intentos del protagonista por relacionarse con unos vecinos que parecen querer ignorarle. Teniendo en cuenta que los demás personajes interactúan entre sí pero, sin embargo, no advierten la presencia del extraño aunque se encuentre delante de sus propias narices, ¿quiere decir que, en realidad, quien no existe es éste y no lo que no deja de ser una ilusión producida por una máquina? ¿O acaso ni la isla ni sus fantasmagóricos habitantes existen, y todo es fruto de la paranoica mente del fugitivo?
Al no conocer en profundidad la novela en que se basa ignoro hasta qué punto la película es una traslación fidedigna de la fuente literaria y, por tanto, si los logros hasta aquí indicados son responsabilidad de una u otra obra. Según parece, las principales diferencias de la película están en la modificación a la que es sometido el desenlace y la supresión de los primeros capítulos de la novela, aquellos en los que se ponía en antecedentes sobre las circunstancias que llevaban al personaje principal a viajar tan recóndito paraje. Una decisión esta última que ayuda a potenciar el clima de suspense que recorre el relato.
Sea como fuere, de lo que no cabe ninguna duda es que no estamos ante la típica ilustración en imágenes del texto adaptado tan habitual en otro tipo de filmes de idéntica naturaleza. Lejos de tan acomodaticia actitud, su director, Emidio Grieco, se preocupa de otorgar a su ópera prima de una entidad cinematográfica propia. La aparición de diálogos entre los personajes es limitada a la mínima expresión, prescindiendo asimismo de la figura de un narrador en el más estricto sentido literario. No hay pues ni voz en off, ni carteles explicativos, ni cualquier otra herramienta similar que denote los orígenes del producto. En lugar de eso, Grieco se apoya en una narración visual y sonora servida a través de su personaje principal, interpretado de forma soberbia por Giulio Brogi, quien, de esta forma, se convierte en espectador y protagonista de los extraños sucesos que acontecen en la isla.
Este estilo de narración, unido a las propias características de su trama y el hecho de que la idea principal sobre la que ésta está construida, la inmortalidad, se encuentre tan estrechamente ligada a un medio como el séptimo arte, capaz de revivir por unos instantes a personas fallecidas mucho tiempo atrás, hacen que L’ invenzione di Morel pueda ser también vista como todo un ejercicio de metacine. Así, el enamoramiento del prófugo de la imagen de Faustine y su posterior decisión de grabarse junto a ella para compartir de algún modo su vida para la posteridad, puede interpretarse como un reflejo, tanto en la forma como en el fondo, de la atracción que ejerce el cine en sus espectadores. El mismo poder de fascinación que (nos) lleva a muchos a querer fotografiarse junto a sus actores favoritos [1], como si la simple demostración de haber compartido fugazmente el mismo espacio con ellos significara algún tipo de posesión sobre la persona admirada.
[1] En esta particular, es de resaltar que, al parecer, el novelista Adolfo Bioy Casares se inspiró en la actriz de cine mudo Louise Brooks para dar forma al personaje de Faustine.
José Luis Salvador Estébenez
https://cerebrin.wordpress.com/2010/08/02/linvenzione-di-morel/
(…) E un giorno ci sarà un apparecchio più completo. Quel che viene pensato o sentito nella vita - o nei momenti della ripresa – sarà come un alfabeto, mediante il quale l'immagine continuerà a capire tutto (come noi, che con le lettere dell'alfabeto possiamo capire e comporre tutte le parole). La vita diventerà, cosí, un magazzino della morte. Ma nemmeno allora l'immagine sarà viva; oggetti essenzialmente nuovi non esisteranno per lei. Conoscerà tutto ciò che ha sentito o pensato, o le combinazioni ulteriori di ciò che ha sentito o pensato.
Il fatto che non possiamo capire nulla fuori del tempo e dello spazio, sta forse a suggerire che la nostra vita non è sostanzialmente diversa dalla sopravvivenza che si otterrebbe con un tale apparecchio. Quando intelletti meno rozzi di quello di Morel si occuperanno dell'invenzione, l'uomo sceglierà un luogo appartato, piacevole, vi starà insieme con le persone che più ama e rimarrà perpetuamente in un intimo paradiso. Uno stesso giardino, se le scene da perpetuare sono prese in momenti diversi, alloggerà innumerevoli paradisi, le cui società, ignorandosi a vicenda, funzioneranno simultaneamente, senza urti, quasi negli stessi luoghi. Saranno, purtroppo, paradisi vulnerabili, poiché le immagini non potranno vedere gli uomini, e gli uomini, se non danno ascolto a Malthus, avranno bisogno, un giorno, della terra anche del più piccolo di quei paradisi, e distruggeranno i suoi inermi abitanti, oppure li rinchiuderanno nella possibilità inutile delle loro macchine disinnestate. (…)
pag. 119 (Adolfo Bioy Casares, "L'invenzione di Morel", traduzione Livio Bacchi Wilcock, ed.Bompiani)
(…) L'eternità rotatoria può sembrare atroce ad uno spettatore; è soddisfacente per i suoi attori. Liberi da cattive notizie e da malattie, vivono sempre come se fosse la prima volta, senza ricordare le precedenti. Inoltre, per via delle interruzioni dovute al regime delle maree, la ripetizione non è implacabile.
Abituato a vedere una vita che si ripete, trovo la mia irrimediabilmente casuale. I propositi di ammenda sono vani: per me, non c'è prossima volta, ogni istante è unico, diverso, e parecchi vanno perduti per disattenzione. E' vero che neanche per le immagini c'è prossima volta ( tutte le volte sono identiche alla prima).
Si può pensare che la nostra vita è come una settimana di queste immagini e che torna a ripetersi in mondi attigui.
Senza concedere nulla alla mia debolezza, posso immaginare l'arrivo commovente in casa di Faustine, come la interesseranno i miei racconti, l'amicizia che queste circostanze contribuiranno a stabilire. Chissà se non sto davvero percorrendo il lungo e difficile cammino verso Faustine, verso il necessario riposo della mia vita. Ma, dove abita Faustine? L'ho seguita per settimane. Parla del Canadà. Non so altro. Ma c'è un'altra domanda che si può ascoltare – con orrore -: Faustine è viva?
Forse perché l'idea mi sembra cosí poeticamente straziante - cercare una persona senza sapere dove vive, senza sapere se è viva – Faustine mi importa più della mia vita.
Esiste una qualche possibilità di fare il viaggio? La barca si è putrefatta. Gli alberi sono marci, non sono un falegname tanto bravo da fabbricarne una seconda con altro legno (…)
pag.122 Adolfo Bioy Casares, L'invenzione di Morel, ed. Bompiani
Lentamente nella mia coscienza , ma puntuali nella realtà, le parole e i movimenti di Faustine e del barbuto coincisero esattamente con le loro parole e i loro movimenti di otto giorni prima. L'atroce eterno ritorno. Incompleto: il mio giardinetto, l'altro giorno mutilato dai piedi di Morel, è oggi un luogo confuso, con resti di fiori morti, schiacciati contro la terra. (…) Come a teatro, le scene si ripetono.
pag.64 (Adolfo Bioy Casares, "L'invenzione di Morel", traduzione Livio Bacchi Wilcock, ed.Bompiani)
(...) Dora gridò a Morel:
"Haynes sta dormendo nella camera di Faustine. Nessuno riuscirà a tirarlo fuori. "
Stavano dunque parlando di Haynes? Non pensai che ci potesse essere qualche relazione tra le parole di Dora e la conversazione di Morel con gli uomini. Dicevano di star cercando qualcuno e io ero spaventato, pronto a scorgere dappertutto allusioni e minacce. Ora sospetto che forse questa gente non si è mai occupata di me... Anzi: ora so che non possono cercarmi.
Ne sono certo? Un uomo di buon senso darebbe credito a ciò che ho sentito dire ieri notte, a ciò che immagino di sapere? Mi consiglierebbe di dimenticare l'incubo che mi fa vedere in ogni cosa una macchinazione tendente a catturarmi?
E se fosse una macchinazione tendente a catturarmi, perché così complessa? Perché non arrestarmi direttamente? Non sarebbe una pazzia tutta questa laboriosa rappresentazione?
Le nostre abitudini presuppongono un certo ordine degli eventi, una vaga coerenza del mondo. Adesso la realtà mi si propone cambiata, irreale. (bardo thodol?) Quando un uomo si sveglia oppure muore, impiega un po' di tempo a disfarsi dei terrori del sogno, delle preoccupazioni e delle manie della vita. Non mi sarà facile perdere l'abitudine di temere questa gente.
Morel aveva alcuni fogli di carta sottile, gialli, scritti a macchina. Li aveva presi da un recipiente piatto di legno sul tavolo. In questo piatto c'erano moltissime lettere appuntate con spilli e ritagli di annunci delle riviste Yachting e Motorboating. Vi si.chiedevano i prezzi di navi vecchie, condizioni di vendita, come e dove andarle a vedere. Ne vidi alcune (delle lettere).
"Haynes rimanga pure a dormire", disse Morel. – E' molto pesante e se dobbiamo andare a prenderlo non incominceremo mai."
(Adolfo Bioy Casares, "L'invenzione di Morel", traduzione Livio Bacchi Wilcock, ed.Bompiani)
Entrare in un mondo che non è il tuo, tentare di farlo non avendo i vestiti giusti, e magari con la barba incolta, stracciato, quasi scalzo. E’ questo che cerca di fare il naufrago in “L’invenzione di Morel”? Forse è davvero questa la chiave di lettura del libro. Spera di diventare uno scrittore, di entrare nel mondo dorato del cinema? Una speranza da illusi, in quel mondo non ti vedranno neanche, non sarai mai accettato, meglio spaccare tutto come indica Greco o accettare la consunzione come dice Bioy? Un mondo che non è il tuo e dove non ti vedono proprio: Bioy ha scritto questo romanzo quando era molto giovane, forse la chiave di lettura è proprio questa.
L’immortalità è la pubblicazione di un libro, o la realizzazione di un film: ma anche questa è illusione. Forse, oggi l’immortale settimana è finire su youtube? E per entrare nel mondo dorato di Faustine c’è chi prova ad ammazzare più persone possibile, come è successo in Virginia l’altro ieri? Fin qui pensavo a Platone, oggi sono sceso molto più sotto, magari a Plutone e all’inferno – e mi trovo costretto a chiedere scusa al caro Bioy... (una variazione su questo tema è anche La rosa purpurea di Woody Allen, però sul fantastico e non sul quotidiano e sul reale, come invece è abile a fare Bioy Casares.)
Il film è girato in esterni a Malta, le musiche sono di Nicola Piovani, i costumi (molto belli, stile anni ‘20) sono di Gitt Magrini, che poco prima aveva collaborato a “Il conformista” di Bertolucci. Le costruzioni che vediamo sono opera di Xavier Darmanin: avrei voluto saperne di più, così come sugli arredi degli interni, molto accurati: ma non è facile trovare informazioni in rete.
Morel è John Steiner, non particolarmente espressivo; tra i suoi ospiti c' anche un giovane Roberto Herlitzka. Nel libro l'azione si svolge a "Isola di Capo Nero, luglio 1929"; e quel che dice Morel ricorda molto alcune cose di Gurdjeff, quando parla di onde, vibrazioni, maree, futuro e passato)
Nel 2005 riprendo in mano il libro, che risale agli anni '70, e mi accorgo che sta cadendo a pezzi: la colla che teneva insieme le pagine si è inesorabilmente seccata. Non tutte le colle reggono infatti all’usura del tempo, e il mio libro (l’edizione Bompiani con la copertina nera) oltretutto non è nemmeno cucito, solo un po’ di colla sul dorso. Dato che ho un po’ di nozioni su come restaurare i libri, posso mettermi all’opera; e il libro ritorna maneggiabile. Sono abbastanza soddisfatto del risultato (miracoli non se ne possono fare, ma sono stato molto bravo e me ne compiaccio), e posso dunque rivedere la mia vecchia vhs dove ho registrato il film (dalla TSI, nel 1988).
Dispiace vedere con la scansione veloce un film così ben curato, ma come si fa? Ci sono due o tre errori gravi, ma questo era il primo film di Greco, e poi era l'epoca di Godard e nouvelle vague e andava di moda girare i film così. Comunque sia: 1) che bello rivedere Malta dopo esserci stati! Si vede anche, all'inizio, qualcosa che potrebbe essere Hagar Qim coi suoi templi (o era Tarxien?); e Brogi sbarca nella zona dell'isolotto, se non sbaglio. 2) Grave errore essersi dimenticati del fatto che il libro è narrato in prima persona. Una voce narrante avrebbe aiutato molto a capire il film, e anche a guardarlo...(la prima mezz’ora è micidiale, anche se ha il suo fascino). 3) Personalmente, io avrei fatto cominciare il film in Venezuela, da Ombrellieri (magari chiamandolo Cartaphilus, come in Borges?), spiegando così meglio il personaggio del protagonista, un perseguitato politico in fuga. Insomma, un inizio come Blade runner (magari pescando dal mio sogno del perseguitato politico), un bel 15 minuti; per poi passare a un Robinson Crusoe ma appena accennato: dopodiché il film di Greco mi trova d'accordo. 4) Il film di Greco è però notevole, pur con tutti i suoi difetti. 5) Alcuni attori non mi piacciono. Brogi è in gran forma, ma gli altri volti (sopr. Steiner e la Karina) mi lasciano freddo o sono fisicamente sbagliati (“il barbuto e la zingara”?).E non si capisce perché mai Morel e i suoi debbano muoversi e recitare come manichini o come automi, rigidi e quasi senza emozioni 6) Della proiezione in sala, nel 1973, ricordo ancora le reazioni del pubblico pagante, in particolare le due ragazze davanti a me che erano costernate perché non riuscivano a capire come mai ritornassero sempre le stesse sequenze (“ma questo l’ho già visto prima!!!”): penso che avessero ragione e che sia stata una reazione legittima. Nel libro tutto è chiaro, nel film non si può usare lo stesso linguaggio e bisognava inventarsi qualcosa d’altro. Chissà come la pensa Greco, oggi: all’epoca era molto giovane, in seguito ha fatto film molto interessanti, come il recente “Il consiglio d’Egitto” (da Sciascia) dove c’è anche molto humour. Quanto a me, il film mi aveva lasciato perplesso ma ero corso subito a procurarmi il libro, che è ancora qui insieme a tutti gli altri di Bioy Casares che sono riuscito a trovare (nel 1973 era ancora possibile trovarne molti in libreria). 7) Sarebbe bello rifarlo oggi col computer, magari alla maniera dei primi corti di Zbig, con le sovrapposizioni del naufrago sulle proiezioni "vere"... (e magari sarebbe anche un film di successo, ma se penso a come sarebbe sconciato se finisse nelle mani di chi oggi comanda il cinema, forse è meglio lasciar perdere) (e rileggersi Bioy).
E alcune mie fantasie finali, leggendo Guénon e le sue storie su Agharti: anche la Faustine di Morel in realtà non era un film, ma una visione e una serie di visioni nella quale voleva entrare il naufrago; e io forse sono come l'isola di Morel, e le maree (e le fasi di Luna) mi rimettono in moto? I nostri sogni sono le proiezioni dei "dischi" di Morel? Loro trasmettono, proiettano, e io sono parte dell'apparato ricevente e/o del proiettore? Io sono in samadhi, e gli altri mi disturbano?
(ma su Morel e sulla sua invenzione, una volta cominciato a fantasticare e a ragionarci sopra, si rischia di non finire più...) (l’ultimo appunto, quello sul samadhi e sul rifugiarsi nell’altrove, è però riferito a un altro libro di Bioy Casares, “Piano di evasione”).
http://giulianocinema.blogspot.com/2010/12/linvenzione-di-morel-v.html
È difficile descrivere a parole un'opera come L'invenzione di Morel, atipica in maniera quasi disturbante, irrazionale nel complesso della cinematografia italiana (e non solo?) contemporanea. Emidio Greco (di cui ho visto solo Una storia semplice, buon film) dirige nel 1974 quello che, nelle intenzioni, vuole essere un adattamento, il migliore dei possibili adattamenti, come sempre, nonché l'unico in questo caso, del romanzo di Adolfo Bioy Casares.
Ne esce un film estremamente metacinematografico, difficile e pieno di spunti. Giulio Brogi naufraga su un'isola, è un fuggiasco, un evaso, non si sa niente di più, anzi, si sa molto meno; come parlare della trama senza accennare ai trenta minuti (trenta!) di spaesamento iniziale, dall'approdo sull'isola al primo arrivo delle maree, all'ingresso della musica? Trenta minuti in cui non siamo a conoscenza di niente, nessun pensiero esternato dal protagonista, giustamente, ignoto vero e proprio, come se ci fossimo su quella maledetta isola, come se la scoprissimo insieme a lui. E poi musica, balli, una messa in scena architettonica futuristica e meravigliosa, Moebiusiana, molto!, la bellissima Anna Karina, Morel, lo scienziato, un favoloso John Steiner, eppure nessuno pare vederlo, il naufrago (cioè lo spettatore, cioè noi), nessuno pare ascoltare le sue richieste di aiuto. Ed ecco, ecco la svolta, finalmente: i discorsi si ripetono, le situazioni avvengono per la seconda volta, identiche, tutto sembra rinnovarsi, immutabile e infinito, senza dubbi, senza interruzioni (L'Année dernière à Marienbad, certo, eppure c'è una netta anticipazione del filone sci-fi prossimo a venire). Morel ha inventato una macchina che registra tutto, i sensi e forse la coscienza, dice lui; ogni cosa successa dalla messa in funzione della macchina, discorsi, pensieri, azioni, tutto vive in eterno (voila, le cinema), le immagini prendono corpo e si ripetono, a ciclo continuo. A una condizione, la morte de corpo originale, del corpo vero e proprio, vivo; Morel vuole immortalare la settimana trascorsa sull'isola per potersi legare per sempre a Faustine, Anna Karina, di cui è innamorato, non ricambiato.
Così farà anche il naufrago, innamoratosi anch'egli della donna, e vedrà il proprio corpo andare in frantumi; il tentativo di distruggere la macchina è tardivo e, forse, nemmeno troppo voluto. E, come si diceva, gli spunti sono molteplici: il ruolo del cinema, quello che vediamo è film dentro il film, la potenza della memoria e gli eterni tentativi (sempre illusori) di poterla conservare, trattenere per sé, le immagini mi spaventano ma mi proteggono dice Giulio Brogi in una delle sue rare battute, l'amore, è un film sull'amore, la potenza dei sentimenti, l'impossibilità. l'incomunicabilità. Ma è, comunque e soprattutto, cinema, autoriflessione; analizzare questo film e trovarlo immobile, incomprensibile in quanto cristallizzatore di attimi, eppure spiegato scena (lunghissime, volutamente) per scena (il tentativo di discernere in mezzo al flusso della memoria): la stessa sensazione deve averla provata quel naufrago, su quell'isola sperduta da cui non poteva, né voleva, scappare.
http://direzionecinema.blogspot.com/2015/06/dal-basso6-linvenzione-di-morel.html
muchas gracias por este interesante video.
ResponderEliminarmuchas gracias
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