TÍTULO ORIGINAL Dramma della gelosia - tutti i particolari in cronaca
AÑO 1970
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACIÓN 107 min.
DIRECTOR Ettore Scola
GUIÓN Ettore Scola, Agenore Incrocci, Furio Scarpelli
MÚSICA Armando Trovajoli
FOTOGRAFÍA Carlo Di Palma
REPARTO Marcello Mastroianni, Monica Vitti, Giancarlo Giannini, Manuel Zarzo, Marisa Merlini, Hércules Cortés, Fernando Sánchez Polack, Gioia Desideri, Juan Diego, Bruno Scipioni, Josefina Serratosa PRODUCTORA Coproducción Italia-España
PREMIOS 1970: Cannes: Mejor actor (Marcello Mastroianni)
GÉNERO Comedia. Drama
SINOPSIS Oreste, un albañil casado y con hijos, militante del Partido Comunista Italiano, vive una existencia tranquila con su esposa, una mujer mayor que él y que incluso se parece a su madre. Sin embargo, el día en que conoce a Adelaida, una joven y atractiva florista del cementerio, empieza a cortejarla y, locamente enamorado, lo deja todo por ella. Pero, cuando aparece en escena Nello, un vendedor de pizzas, Adelaida no sabe por cuál de ellos decidirse, pues le gustan los dos. Oreste, que empieza a sentirse relegado, se vuelve loco de celos y pierde el control de sus actos. (FILMAFFINITY)
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Subtítulos (Español)
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Sin dalle complicazioni dell'elaborato soggetto si capisce che Dramma della gelosia... segna un ulteriore salto di qualità nel cinema di Scola. Nell'affrontare l'universo proletario dei tre personaggi il regista colora la commedia di tinte melodrammatiche, coll'intento di sottolineare il carattere subculturale di una vicenda tante altre volte narrata e «vissuta»: narrata dal cinema, nella forma del film popolar-lacrimogeno alla Matarazzo; «vissuta» dal lettore/spettatore attraverso i puntuali (e spesso divertiti) resoconti giornalistici nelle pagine di cronaca. Sono poi gli stessi personaggi del film a nutrirsi di quelle letture e di quella "cultura": ne sono propriamente gli "attori", sia pure in un copione altrove concepito.
Questo primo film di Scola sui "poveri" (altri ne seguiranno, dal successivo Permettete? Rocco Papaleo, 1971, al più tardo Brutti, sporchi e cattivi, 1976) taglia corto con la politica: il fatto che Oreste militi nel PCI, che incontri Adelaide alla Festa dell'Unità e Nello durante una carica della polizia, non lo rende immune ai sentimenti, alle palpitazioni d'amore e poi agli effetti rovinosi della gelosia. Dramma della gelosia... non ha certo il provocatorio ardire de Il grido, con cui Antonioni, tredici anni prima, aveva mandato in soffitta gli eroi proletari del realismo socialista; il privato è già quasi politico nel 1970, quando gira questa sorta di Jules et Jim alla romana. Nondimeno, questa rappresentazione di una cultura popolare succube di modi di vedere
Questo primo film di Scola sui "poveri" (altri ne seguiranno, dal successivo Permettete? Rocco Papaleo, 1971, al più tardo Brutti, sporchi e cattivi, 1976) taglia corto con la politica: il fatto che Oreste militi nel PCI, che incontri Adelaide alla Festa dell'Unità e Nello durante una carica della polizia, non lo rende immune ai sentimenti, alle palpitazioni d'amore e poi agli effetti rovinosi della gelosia. Dramma della gelosia... non ha certo il provocatorio ardire de Il grido, con cui Antonioni, tredici anni prima, aveva mandato in soffitta gli eroi proletari del realismo socialista; il privato è già quasi politico nel 1970, quando gira questa sorta di Jules et Jim alla romana. Nondimeno, questa rappresentazione di una cultura popolare succube di modi di vedere
assorbiti dai mass media (televisione, cinema, fotoromanzi, giornali) manda in corto circuito certe utopiche (benché residue) schematizzazioni di classe ancora in voga da qualche parte a sinistra.
L'Adelaide di Monica Vitti s'illude veramente che la propria vita stia diventando un (foto)romanzo.
Ne è persino lusingata, intenta ad orientare, ora verso il maturo Oreste (Mastroianni) ora in direzione del focoso Nello (Giannini), il proprio "indivisibile" amore. «Pur nel tono grottesco della tragicommedia – osserva Lino Micciché, mai tenero in precedenza con i film di Scola – vi sono, sovente, penetranti notazioni di psicologia e di costume, sociale e individuale; e soprattutto c'è, portata sino in fondo, la felice idea di far parlare gli "eroi" di un "dramma" popolaresco, infiorato di patetiche espressioni da novelletta "rosa" e da "fumettone" a buon mercato. Il che finisce, in certo modo, per rendere plausibile e accettabile la svolta patetico-drammatica della seconda parte del film, dandole una venatura di non lacrimosa, ma pur percepibile malinconia»
(«Avanti!», 3 maggio 1970).
Su questo carattere morbidamente "metafilmico" di Dramma della gelosia... – il cui primo pregio consiste nel far aderire personaggi e situazioni alla proiezione semantica dei loro stereotipi – insistono parecchie altre note recensive, per la prima volta unanimi nel salutare con molti elogi e assai poche riserve un film di Scola. Unanimi o quasi, perché c'è anche chi (Giacomo Gambetti, su «Bianco e nero», n. 7/8, 1970) trova che il modello inimitabile resta pur sempre Lo sceicco bianco di Fellini: «Ciò che più sembrava nuovo in questo film... fu sperimentato e svolto con acume e fantasia ben maggiori quasi vent'anni fa». D'altra parte, quel che viene salutato con entusiasmo – ad esempio il riuscire «a condurre questa doppia scala di effetti (farsa e tragedia, sesso e sentimento, caricatura e verità, favola e vita di popolo) padroneggiandoli tutti, senza che mai l'azione si scolli, senza che questo fluido sottofondo problematico pregiudichi mai la marcia sicura dell'azione» (Filippo Sacchi, «Epoca», 17 maggio 1970) – è già ben in nuce nei lavori precedenti del regista e trova qui, più che l'incipienza della rivelazione, la conferma di un “metodo”.
Nuove, semmai, sono le incursioni oniriche, quel far sognare Oreste ad occhi aperti consentendo alla fantasia di entrare in scena, con un procedimento che sa di «realismo magico», come sostengono Pier Marco De Santi e Rossano Vittori (I film di Ettore Scola, op. cit.) e che rappresenta un segno di ulteriore affinamento stilistico. Se il gioco funziona (e, rivisto ad anni di distanza, non certo in chiave di «volgare fascismo e di razzismo antipopolare» come ebbe a sostenere Fofi sui «Quaderni piacentini», ora in Capire con il cinema, Milano, 1977) lo si deve naturalmente anche alla disponibilità degli interpreti, diciamo pure alla loro capacità di calarsi nei personaggi con versatile duttilità. Riso e pianto, lucidità e follia, tenerezza e ruvidità sono chiamati a mescolarsi continuamente, disegnando una varietà di stati d'animo che l'ispido Mastroianni, la sognante Monica Vitti, l'ansioso Giannini assecondano con azzeccata simpatia. La prova di
Mastroianni, in particolare, trova il massimo consenso a Cannes, dove la giuria del Festival gli attribuisce la Palma d'Oro per la migliore interpretazione. Trattandosi, inoltre, del primo film di Scola dove interagiscono diversi protagonisti, va segnalata l'accorta coesione dei ruoli, così importante in taluni successivi lavori, a cominciare da C'eravamo tanto amati (1974), le cui premesse sono in parte qui enunciate. (...)
Roberto Ellero, Ettore Scola, Il Castoro Cinema, 1995
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Questa cronaca romanesca puntuta e molto ben recitata potrebbe offrire uno sbocco abbastanza interessante al filone della commedia all'italiana, quello del film che assorbe nell'impianto farsesco spunti satirici e di costume e che non nasconde tra le buffonerie un risvolto amaro. Che, ad un certo momento, capovolge le carte e arriva al dramma « tout-court ».In apparenza, Dramma della gelosia fa tutto per ridere, ma a parte lo sbocco finale c'è qualcosa nella pellicola che non permette di abbandonarci del tutto all'allegria, come succede appunto negli esempi di quel «genere» complesso e difficile che si suole definire «grottesco».
Il fatto raccontato è quanto mai lineare: Adelaide (Monica Vitti) è una fioraia del Verano che s'innamora del muratore Oreste (Marcello Mastroianni) ma che non può impedirsi di amare «anche» il piazzaiolo Nello, toscano trapiantato nell'Urbe. Un triangolo proletario, insomma, che finirà soltanto in tragedia, di cui sarà vittima la povera Adelaide. Ma lo schema è vivificato dal particolare impianto in cui è calato. La partenza del film è infatti l'istruttoria per il processo a Oreste, l'uccisore, da cui si dipana l'esposizione della vicenda: tutti i personaggi ricostruiscono man mano i fatti davanti all'autorità inquirente, e mentre parlano e si giustificano o accusano fanno seguire le azioni alle parole, ripetendo cioè gli accadimenti, e mescolando talvolta in un'unica dimensione – nel quale caso i personaggi si sdoppiano nella stessa inquadratura, oppure sono contemporaneamente attivi come protagonisti e come testimoni – sia le loro deposizioni che gli accadimenti cui hanno partecipato. Un espediente non nuovissimo ma interessante, anche se talvolta un po' compiaciuto, che fa pensare ad una soluzione intellettualistica. Ma l'interesse del film è altrove, e cioè nel far agire e parlare i personaggi secondo una pseudo-cultura di massa fondata (o meglio orecchiata) sul consumo di un linguaggio diffuso da TV, rotocalchi, propaganda politica.
La «chiave» del racconto è nella lettura dei fumetti tipo «Sogno» da parte di Adelaide, illusa banderuola che si crede protagonista di strazianti passioni, e nel sogno di Oreste in cui lo sentiamo parlare con i versi di una canzonetta, e poi addirittura esprimersi cantando le frasi assurde dei rimatori di canzoni. Ambiziosetto, non tutto risolto, a volte fermo alla caricatura grossolana (vedi il personaggio del ricco commerciante di vacche e del suo improbabile aggiordomo-cugino), il film ha nella sceneggiatura di Age, Scarpelli e Scola e nella regia di quest'ultimo numerosi punti di forza. Anche perché il regista sa sfruttare nella maniera più schietta l'apporto recitativo degli attori, i quali fanno sfoggio di intelligenza non soltanto in una girandola di buffonerie assai godibili, ma anche e soprattutto nei fulminei trapassi da un «tono» all'altro del racconto.
Ermanno Comuzio, Cineforum n. 97-98, 11/12-1970
http://www.municipio.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitoloRB/0CEEA77CDABF50E7C125792600394767?opendocument
Roberto Ellero, Ettore Scola, Il Castoro Cinema, 1995
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Questa cronaca romanesca puntuta e molto ben recitata potrebbe offrire uno sbocco abbastanza interessante al filone della commedia all'italiana, quello del film che assorbe nell'impianto farsesco spunti satirici e di costume e che non nasconde tra le buffonerie un risvolto amaro. Che, ad un certo momento, capovolge le carte e arriva al dramma « tout-court ».In apparenza, Dramma della gelosia fa tutto per ridere, ma a parte lo sbocco finale c'è qualcosa nella pellicola che non permette di abbandonarci del tutto all'allegria, come succede appunto negli esempi di quel «genere» complesso e difficile che si suole definire «grottesco».
Il fatto raccontato è quanto mai lineare: Adelaide (Monica Vitti) è una fioraia del Verano che s'innamora del muratore Oreste (Marcello Mastroianni) ma che non può impedirsi di amare «anche» il piazzaiolo Nello, toscano trapiantato nell'Urbe. Un triangolo proletario, insomma, che finirà soltanto in tragedia, di cui sarà vittima la povera Adelaide. Ma lo schema è vivificato dal particolare impianto in cui è calato. La partenza del film è infatti l'istruttoria per il processo a Oreste, l'uccisore, da cui si dipana l'esposizione della vicenda: tutti i personaggi ricostruiscono man mano i fatti davanti all'autorità inquirente, e mentre parlano e si giustificano o accusano fanno seguire le azioni alle parole, ripetendo cioè gli accadimenti, e mescolando talvolta in un'unica dimensione – nel quale caso i personaggi si sdoppiano nella stessa inquadratura, oppure sono contemporaneamente attivi come protagonisti e come testimoni – sia le loro deposizioni che gli accadimenti cui hanno partecipato. Un espediente non nuovissimo ma interessante, anche se talvolta un po' compiaciuto, che fa pensare ad una soluzione intellettualistica. Ma l'interesse del film è altrove, e cioè nel far agire e parlare i personaggi secondo una pseudo-cultura di massa fondata (o meglio orecchiata) sul consumo di un linguaggio diffuso da TV, rotocalchi, propaganda politica.
La «chiave» del racconto è nella lettura dei fumetti tipo «Sogno» da parte di Adelaide, illusa banderuola che si crede protagonista di strazianti passioni, e nel sogno di Oreste in cui lo sentiamo parlare con i versi di una canzonetta, e poi addirittura esprimersi cantando le frasi assurde dei rimatori di canzoni. Ambiziosetto, non tutto risolto, a volte fermo alla caricatura grossolana (vedi il personaggio del ricco commerciante di vacche e del suo improbabile aggiordomo-cugino), il film ha nella sceneggiatura di Age, Scarpelli e Scola e nella regia di quest'ultimo numerosi punti di forza. Anche perché il regista sa sfruttare nella maniera più schietta l'apporto recitativo degli attori, i quali fanno sfoggio di intelligenza non soltanto in una girandola di buffonerie assai godibili, ma anche e soprattutto nei fulminei trapassi da un «tono» all'altro del racconto.
Ermanno Comuzio, Cineforum n. 97-98, 11/12-1970
http://www.municipio.re.it/cinema/catfilm.nsf/PES_PerTitoloRB/0CEEA77CDABF50E7C125792600394767?opendocument
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...ci permette di puntare la lente d’ingrandimento sia su uno dei registi più importanti della settima arte nostrana a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 sia, ed è questo forse ciò che realmente conta, sullo stato del cinema popolare dell’epoca.
Il curriculum di Ettore Scola a cavallo tra i due decenni crediamo parli decisamente da solo: tra il 1960 e il 1965 si dimostra sublime sceneggiatore per Dino Risi (Il mattatore, Il sorpasso, La marcia su Roma, I mostri), Antonio Pietrangeli (Adua e le compagne, Fantasmi a Roma, La parmigiana, Io la conoscevo bene) e Luigi Zampa (Gli anni ruggenti), firmando alcuni degli script più ispirati e dimostrandosi acuto osservatore della realtà che lo circonda. Questa dote lo accompagna anche dopo il suo esordio dietro la macchina da presa con l’incompiuto ma ammaliante Se permettete parliamo di donne, anno domini 1964. Nel momento in cui si mette al lavoro per portare a termine Dramma della gelosia, Scola sta senza dubbio attraversando la fase migliore della sua carriera: ha da poco portato a termine la straordinaria commedia post-coloniale Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, vertice assoluto di quello che fin troppo presto prenderà le vesti di “cinema vacanziero” nonché meticolosa e al contempo irresistibile incursione nella grettezza involontariamente razzista dell’approccio europeo al continente africano, e da ancor meno tempo ha posto la firma in calce a Il commissario Pepe, scandaglio rigoroso ma anche qui estremamente bonario della provincia italiana, con tutti i suoi paradossi – considerate che il Pupi Avati dell’horror padano è ancora al di là da venire alla luce. Qualora non bastasse, nei dieci anni seguenti Scola dirigerà quello che non esitiamo a considerare uno dei migliori film della storia del cinema italiano ed europeo (C’eravamo tanto amati), accompagnandolo con contorni sempre di altissimo livello, a dimostrazione di una capacità di spaziare nel cinema che non ha avuto molti pari al suo livello (Una giornata particolare, Brutti sporchi e cattivi, Trevico-Torino (viaggio nel Fiat-nam), La terrazza).
L’ago della bilancia di questo percorso creativo è probabilmente proprio Dramma della gelosia: di partenza, se vogliamo, l’operazione tentata da Scola in compartecipazione con i sempre fedelissimi Age e Scarpelli, non è poi così dissimile dalla ripresa del melodramma popolare, espanso e deflagrante, che si era respirata a pieni polmoni appena due anni prima, nel 1968, in Straziami ma di baci saziami di Dino Risi. Anche lì in fase di scrittura si era data da fare la coppia di sceneggiatori per eccellenza del nostro cinema, ma le analogie si fermano qui: laddove Risi aveva puntato l’accento sul fotoromanzo, massima aspirazione letteraria per gran parte della popolazione della penisola, spingendo il pedale dell’accelerazione su una deformazione grottesca del reale, Scola lavora di fino in direzione parallela ma mai convergente. Per quanto Dramma della gelosia non manchi di un sottofondo ironico, l’afflato poetico che lo sorregge dimostra una straziante ricongiunzione con la contemporaneità: se Risi porta a termine, come spesso e volentieri aveva fatto in passato e farà in futuro, un’operazione di stampo sanamente popolare, ci viene naturale definire Dramma della gelosia un prodotto popolano; non si tratta più di sollazzare il popolo, le classi meno abbienti, con una messa in scena sentita ma in fin dei conti edulcorata della loro condizione sociale, ma piuttosto di aprire gli occhi sulle pulsioni più profonde di quel popolo che si vorrebbe come principale spettatore – la critica di Scola a una determinata fumosità intellettuale attraversa, come un fil rouge, l’intera opera del cineasta irpino. In questo senso acquistano ancora più valore le scelte estetiche di Scola: l’universo romano sporco e degradato, in cui sboccia l’amore tra Oreste e Adelaide e successivamente esplode la passione tra la donna e Nello è il simbolo perfetto di un’esistenza ai margini, quel letame da cui nascono i fior che cantava Fabrizio De André. Perfette si dimostrano dunque le location selezionate per la bisogna: il sito dove si è svolta la Festa de L’Unità dominato dalla plastica e dai rottami, il Verano, le giostre, la fabbrica dismessa sono null’altro che emblemi di un intero mondo, quello che un tempo sarebbe stato chiamato proletariato e che proprio in quegli anni iniziava a far sentire la propria voce. Affidandosi alle musiche di Armando Trovajoli – e sarebbe ora che il suo nome rientrasse definitivamente di diritto tra i geni della composizione musicale italiana del secondo novecento – e alle immagini del compianto Carlo Di Palma, Scola mette al servizio della storia le sue folgoranti intuizioni visive, che torneranno con ancora maggior forza ed efficacia nel capolavoro C’eravamo tanto amati (attori che parlano in macchina, montaggio libero, costruzione notevolmente complessa della struttura narrativa).
http://www.cineclandestino.it/articolo.asp?sez=66&art=3447
Il curriculum di Ettore Scola a cavallo tra i due decenni crediamo parli decisamente da solo: tra il 1960 e il 1965 si dimostra sublime sceneggiatore per Dino Risi (Il mattatore, Il sorpasso, La marcia su Roma, I mostri), Antonio Pietrangeli (Adua e le compagne, Fantasmi a Roma, La parmigiana, Io la conoscevo bene) e Luigi Zampa (Gli anni ruggenti), firmando alcuni degli script più ispirati e dimostrandosi acuto osservatore della realtà che lo circonda. Questa dote lo accompagna anche dopo il suo esordio dietro la macchina da presa con l’incompiuto ma ammaliante Se permettete parliamo di donne, anno domini 1964. Nel momento in cui si mette al lavoro per portare a termine Dramma della gelosia, Scola sta senza dubbio attraversando la fase migliore della sua carriera: ha da poco portato a termine la straordinaria commedia post-coloniale Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, vertice assoluto di quello che fin troppo presto prenderà le vesti di “cinema vacanziero” nonché meticolosa e al contempo irresistibile incursione nella grettezza involontariamente razzista dell’approccio europeo al continente africano, e da ancor meno tempo ha posto la firma in calce a Il commissario Pepe, scandaglio rigoroso ma anche qui estremamente bonario della provincia italiana, con tutti i suoi paradossi – considerate che il Pupi Avati dell’horror padano è ancora al di là da venire alla luce. Qualora non bastasse, nei dieci anni seguenti Scola dirigerà quello che non esitiamo a considerare uno dei migliori film della storia del cinema italiano ed europeo (C’eravamo tanto amati), accompagnandolo con contorni sempre di altissimo livello, a dimostrazione di una capacità di spaziare nel cinema che non ha avuto molti pari al suo livello (Una giornata particolare, Brutti sporchi e cattivi, Trevico-Torino (viaggio nel Fiat-nam), La terrazza).
L’ago della bilancia di questo percorso creativo è probabilmente proprio Dramma della gelosia: di partenza, se vogliamo, l’operazione tentata da Scola in compartecipazione con i sempre fedelissimi Age e Scarpelli, non è poi così dissimile dalla ripresa del melodramma popolare, espanso e deflagrante, che si era respirata a pieni polmoni appena due anni prima, nel 1968, in Straziami ma di baci saziami di Dino Risi. Anche lì in fase di scrittura si era data da fare la coppia di sceneggiatori per eccellenza del nostro cinema, ma le analogie si fermano qui: laddove Risi aveva puntato l’accento sul fotoromanzo, massima aspirazione letteraria per gran parte della popolazione della penisola, spingendo il pedale dell’accelerazione su una deformazione grottesca del reale, Scola lavora di fino in direzione parallela ma mai convergente. Per quanto Dramma della gelosia non manchi di un sottofondo ironico, l’afflato poetico che lo sorregge dimostra una straziante ricongiunzione con la contemporaneità: se Risi porta a termine, come spesso e volentieri aveva fatto in passato e farà in futuro, un’operazione di stampo sanamente popolare, ci viene naturale definire Dramma della gelosia un prodotto popolano; non si tratta più di sollazzare il popolo, le classi meno abbienti, con una messa in scena sentita ma in fin dei conti edulcorata della loro condizione sociale, ma piuttosto di aprire gli occhi sulle pulsioni più profonde di quel popolo che si vorrebbe come principale spettatore – la critica di Scola a una determinata fumosità intellettuale attraversa, come un fil rouge, l’intera opera del cineasta irpino. In questo senso acquistano ancora più valore le scelte estetiche di Scola: l’universo romano sporco e degradato, in cui sboccia l’amore tra Oreste e Adelaide e successivamente esplode la passione tra la donna e Nello è il simbolo perfetto di un’esistenza ai margini, quel letame da cui nascono i fior che cantava Fabrizio De André. Perfette si dimostrano dunque le location selezionate per la bisogna: il sito dove si è svolta la Festa de L’Unità dominato dalla plastica e dai rottami, il Verano, le giostre, la fabbrica dismessa sono null’altro che emblemi di un intero mondo, quello che un tempo sarebbe stato chiamato proletariato e che proprio in quegli anni iniziava a far sentire la propria voce. Affidandosi alle musiche di Armando Trovajoli – e sarebbe ora che il suo nome rientrasse definitivamente di diritto tra i geni della composizione musicale italiana del secondo novecento – e alle immagini del compianto Carlo Di Palma, Scola mette al servizio della storia le sue folgoranti intuizioni visive, che torneranno con ancora maggior forza ed efficacia nel capolavoro C’eravamo tanto amati (attori che parlano in macchina, montaggio libero, costruzione notevolmente complessa della struttura narrativa).
http://www.cineclandestino.it/articolo.asp?sez=66&art=3447
Ettore Scola e la commedia della delusione politico-esistenziale
Il travaso continuo dalla delusione politica a quella esistenziale e viceversa da quella esistenziale alla politica, con lo sfondo più o meno sfuocato dei grandi movimenti della storia, è uno degli elementi strutturali - vero e proprio leitmotiv - su cui Ettore Scola ha fondato buona parte della weltanschauung dei propri film e in particolare di quelli della maturità artistica. Dal nostalgico e struggente C’eravamo tanto amati (1974) - in cui, in termini di disinganno, a pagare lo scotto più cocente della fine del sogno della palingenesi sociale sono, non a caso, i due "intellettuali" del terzetto - a Mario, Maria e Mario (1993), cronistoria dell’autoffondamento del vecchio Partito Comunista Italiano (vissuto attraverso la crisi di tre militanti), la corrente alternata tra fallimento politico e disfatta esistenziale tende inevitabilmente a cortocircuitare, prima del "mesto" ritorno dei protagonisti a una più o meno bastante "normalità". Film paradigmatici, nel primo la fittizia rinascenza d’una amicizia e solidarietà verso il fine comune del grande sole rosso dell’avvenire, è destinata a chiudere per sempre un capitolo rimasto troppo a lungo "ambiguamente" in sospeso, con la scoperta da parte di Nicola (il professore "rivoluzionario", severo critico cinematografico) e Antonio (il portantino comunista) dello smodato arricchimento del "traditore" Gianni. Nel secondo la "fine dell’eccezionalità" coincide con il rientro degli adulteri nelle rispettive famiglie, dopo la misteriosa malattia di Maria e l’altrettanto misteriosa guarigione, ma con qualcosa di finito per sempre, proprio come canta Guccini in Stagioni, brano musicale in equilibrio tra disinganni del presente e speranza nel domani.
Entrambi segnati da mancate epifanie, i due film saldano passaggi cruciali della Storia contemporanea italiana, ma i temi di fondo (come nella gran parte della produzione "autoriale" e della "poetica" di Scola, sempre anche sceneggiatore, spessissimo soggettista) restano immutati: il tramonto della prospettiva rivoluzionaria, "l’imborghesimento" dei partiti della sinistra divenuti incapaci di contrapporre valide alternative alle "razionalizzazioni" del capitalismo avanzato; la fine degli ideali e le inevitabili compromissioni; il lento, fatale, erodersi dei sentimenti; l’insufficienza morale ad affrontare gl’imprevedibili accadimenti della vita; l’ineluttabile scorrere del tempo e il conseguente sopravvenire della vecchiaia e della morte. "Kantianamente"
Entrambi segnati da mancate epifanie, i due film saldano passaggi cruciali della Storia contemporanea italiana, ma i temi di fondo (come nella gran parte della produzione "autoriale" e della "poetica" di Scola, sempre anche sceneggiatore, spessissimo soggettista) restano immutati: il tramonto della prospettiva rivoluzionaria, "l’imborghesimento" dei partiti della sinistra divenuti incapaci di contrapporre valide alternative alle "razionalizzazioni" del capitalismo avanzato; la fine degli ideali e le inevitabili compromissioni; il lento, fatale, erodersi dei sentimenti; l’insufficienza morale ad affrontare gl’imprevedibili accadimenti della vita; l’ineluttabile scorrere del tempo e il conseguente sopravvenire della vecchiaia e della morte. "Kantianamente"
dubbioso, nel senso di nutrire forti perplessità sulla marcia perpetua del progresso verso la "città ideale" di un’umanità sempre più smarrita, più vicino alla profetica distinzione pasoliniana tra "progresso" e "sviluppo", Scola mostra di non credere nell’immediato compimento della visione utopica marcusiana di "liberazione dalla società opulenta", irrimediabilmente corrotta dal denaro e dalla cupidigia, oggi invero scopertasi molto più fragile e meno fastosa di quel che si è voluto e fatto credere e tuttavia sempre incline allo spreco e all’ingiustizia programmata.
Laico insoddisfatto, politicamente schierato e impegnato, Scola (uomo e artista) non si sottrae alla convinzione "che l’ordine dell’essere dovrà essere cambiato nel corso di un processo storico", ma con altrettanto distacco egli si pone sulla vexata questio del ruolo degli intellettuali e dell’auspicato avvento (più o meno messianico), per dirlo ancora con Marcuse, di quel "...tipo di uomo che rigetta il principio di prestazione che regge la società, un tipo di uomo che ha rigettato l’aggressività e la brutalità, cardini dell’organizzazione della nostra società, e rifiuta la sua moralità puritana e ipocrita; un tipo di uomo che è biologicamente incapace di fare le guerre e di creare la sofferenza; un tipo di uomo che sa rallegrarsi della gioia e del piacere e che opera, a livello individuale e collettivo, affinché si determini un ambiente naturale e sociale dove una tale esistenza divenga possibile". È Il sogno lungamente covato del "superuomo marcusiano", tappa estrema di quel processo di secolarizzazione e immantizzazione che partendo dalle speculazioni della filosofia classica arriva fino all’uomo positivista di Comte, a quello "nuovo" di Moro, alla società senza classi di Marx ed Engels... Un sogno di rinascenza rimasto ampiamente irrealizzato e che invece di avvicinarsi, a ogni tappa del "progresso" umano, alla secolare utopia del mondo nuovo, pare allontanarsene quasi con un senso di malcelata diffidenza. "Una delle colpe di cui devono farsi carico gli intellettuali - dice Scola - è che accanto alla sacrosanta lotta per la diminuzione delle ore di lavoro, non c’è stata l’altrettanto sacrosanta lotta per l’occupazione del tempo libero: anche qui l’intellettuale non ha saputo aiutare la massa, non è stato capace di riempire quel vuoto che si è creato. E ciò in tutti i campi: la televisione, il cinema, la politica, la letteratura".
Laico insoddisfatto, politicamente schierato e impegnato, Scola (uomo e artista) non si sottrae alla convinzione "che l’ordine dell’essere dovrà essere cambiato nel corso di un processo storico", ma con altrettanto distacco egli si pone sulla vexata questio del ruolo degli intellettuali e dell’auspicato avvento (più o meno messianico), per dirlo ancora con Marcuse, di quel "...tipo di uomo che rigetta il principio di prestazione che regge la società, un tipo di uomo che ha rigettato l’aggressività e la brutalità, cardini dell’organizzazione della nostra società, e rifiuta la sua moralità puritana e ipocrita; un tipo di uomo che è biologicamente incapace di fare le guerre e di creare la sofferenza; un tipo di uomo che sa rallegrarsi della gioia e del piacere e che opera, a livello individuale e collettivo, affinché si determini un ambiente naturale e sociale dove una tale esistenza divenga possibile". È Il sogno lungamente covato del "superuomo marcusiano", tappa estrema di quel processo di secolarizzazione e immantizzazione che partendo dalle speculazioni della filosofia classica arriva fino all’uomo positivista di Comte, a quello "nuovo" di Moro, alla società senza classi di Marx ed Engels... Un sogno di rinascenza rimasto ampiamente irrealizzato e che invece di avvicinarsi, a ogni tappa del "progresso" umano, alla secolare utopia del mondo nuovo, pare allontanarsene quasi con un senso di malcelata diffidenza. "Una delle colpe di cui devono farsi carico gli intellettuali - dice Scola - è che accanto alla sacrosanta lotta per la diminuzione delle ore di lavoro, non c’è stata l’altrettanto sacrosanta lotta per l’occupazione del tempo libero: anche qui l’intellettuale non ha saputo aiutare la massa, non è stato capace di riempire quel vuoto che si è creato. E ciò in tutti i campi: la televisione, il cinema, la politica, la letteratura".
Quanto a televisione e politica, oggi possiamo indicare per nome chi ha avuto la capacità di obnubilare il pensiero degli italiani imponendo un vero e proprio "sdoganamento dell’ignoranza, il cui strumento principale è stato in Italia la televisione, privata e di Stato, la peggiore del mondo; e non solo nei notiziari e nelle trasmissioni 'politiche', quanto soprattutto nella pappa securitaria (fondata sulla propalazione della paura) e decerebrata rifilata quotidianamente al pubblico culturalmente più indifeso delle trasmissioni di intrattenimento...".
Il percorso di maturazione di Scola verso un soffuso disincanto, frutto non di aprioristici preconcetti bensì d’una acuta osservazione (quasi da entomologo) dei limiti e delle miserie della natura umana, tuttavia, non è immediato. "Più giovane d’una generazione, Ettore Scola, come gli apprendisti pittori medievali che per almeno sette anni avevano il compito di mescolare i colori, ha compiuto un lungo apprendistato scrivendo barzellette per i giornali umoristici, andando a bottega da Age e Scarpelli, lavorando come 'negro', ideatore di scenette in decine di film come soggettista e sceneggiatore (tra tutti, nel corso del tempo, gli ormai cult: Adua e le compagne, Il sorpasso, La parmigiana, Io la conoscevo bene, I mostri, quindici anni dopo "aggiornato" in una regia collettiva, n.d.a.) prima di compiere il grande salto". Dal 1952, poco più che ventenne, inizia a scrivere soggetti e sceneggiature (a oggi una sessantina), nel 1964 esordisce come regista in un film a episodi (Se permettete parliamo di donne, seguito due anni dopo da La congiuntura), dove la lezione di Pietrangeli e Risi comincia ad amalgamarsi dando vita alla sua originale cifra stilistica: "È qui che confluiscono due fra i principali 'modi di essere' della commedia, destinati a trovare un punto di equilibrio e di ipotetica sintesi proprio nel lavoro registico di Scola, che continuerà a indagare sui personaggi secondo la lezione di Pietrangeli ma accettando - come Risi - la sfida dell’abnorme che si cela dietro l’anonimato, e combinando la tendenza al rigore dell’uno con il generoso prolifico rischiare dell’altro... Le oscillazioni dei suoi film, ora verso la farsa, ora verso il dramma, hanno quale premessa l’itinerario della commedia nelle sue più variegate espressioni, nobili e meno nobili".
Mano a mano che la padronanza del mezzo tecnico cresce, lo sguardo di Scola si apre alla Storia – mai "in quanto tale", ma come grandioso fondale con il quale l’uomo interagisce e reagisce – in modo paradossalmente inversamente proporzionale allo spazio fisico, che tende invece a restringersi claustrofobicamente (Un giornata particolare, La famiglia, La terrazza...), in un microcosmo archetipico, mentre trasforma in una costante il vezzo di aggiungere piccole ma significative autocitazioni cinefile, da leggere nel segno di una continuità e riconoscibilità artistica piuttosto che in quello d’un manierato autocompiacimento. Apparentemente sfondo lontano, la grande Storia irrompe fragorosamente nel mondo e nella vita di personaggi crepuscolari, d’esistenze votate allo scacco, come nel "minimalista" Una giornata particolare (1977), casuale incontro di due vite alla deriva nel giorno della visita di Hitler a Roma nel maggio del 1938; o come nell’eterogeneo gruppo dei viaggiatori in carrozza di Il mondo nuovo (1982), colti on the road in piena Rivoluzione Francese (che ne conferma anche la passione per i film in costume, già manifestata con lo "storico-machiavellico" L’Arcidiavolo,1966, e replicata con Il viaggio di Capitan Fracassa,1990,
Il percorso di maturazione di Scola verso un soffuso disincanto, frutto non di aprioristici preconcetti bensì d’una acuta osservazione (quasi da entomologo) dei limiti e delle miserie della natura umana, tuttavia, non è immediato. "Più giovane d’una generazione, Ettore Scola, come gli apprendisti pittori medievali che per almeno sette anni avevano il compito di mescolare i colori, ha compiuto un lungo apprendistato scrivendo barzellette per i giornali umoristici, andando a bottega da Age e Scarpelli, lavorando come 'negro', ideatore di scenette in decine di film come soggettista e sceneggiatore (tra tutti, nel corso del tempo, gli ormai cult: Adua e le compagne, Il sorpasso, La parmigiana, Io la conoscevo bene, I mostri, quindici anni dopo "aggiornato" in una regia collettiva, n.d.a.) prima di compiere il grande salto". Dal 1952, poco più che ventenne, inizia a scrivere soggetti e sceneggiature (a oggi una sessantina), nel 1964 esordisce come regista in un film a episodi (Se permettete parliamo di donne, seguito due anni dopo da La congiuntura), dove la lezione di Pietrangeli e Risi comincia ad amalgamarsi dando vita alla sua originale cifra stilistica: "È qui che confluiscono due fra i principali 'modi di essere' della commedia, destinati a trovare un punto di equilibrio e di ipotetica sintesi proprio nel lavoro registico di Scola, che continuerà a indagare sui personaggi secondo la lezione di Pietrangeli ma accettando - come Risi - la sfida dell’abnorme che si cela dietro l’anonimato, e combinando la tendenza al rigore dell’uno con il generoso prolifico rischiare dell’altro... Le oscillazioni dei suoi film, ora verso la farsa, ora verso il dramma, hanno quale premessa l’itinerario della commedia nelle sue più variegate espressioni, nobili e meno nobili".
Mano a mano che la padronanza del mezzo tecnico cresce, lo sguardo di Scola si apre alla Storia – mai "in quanto tale", ma come grandioso fondale con il quale l’uomo interagisce e reagisce – in modo paradossalmente inversamente proporzionale allo spazio fisico, che tende invece a restringersi claustrofobicamente (Un giornata particolare, La famiglia, La terrazza...), in un microcosmo archetipico, mentre trasforma in una costante il vezzo di aggiungere piccole ma significative autocitazioni cinefile, da leggere nel segno di una continuità e riconoscibilità artistica piuttosto che in quello d’un manierato autocompiacimento. Apparentemente sfondo lontano, la grande Storia irrompe fragorosamente nel mondo e nella vita di personaggi crepuscolari, d’esistenze votate allo scacco, come nel "minimalista" Una giornata particolare (1977), casuale incontro di due vite alla deriva nel giorno della visita di Hitler a Roma nel maggio del 1938; o come nell’eterogeneo gruppo dei viaggiatori in carrozza di Il mondo nuovo (1982), colti on the road in piena Rivoluzione Francese (che ne conferma anche la passione per i film in costume, già manifestata con lo "storico-machiavellico" L’Arcidiavolo,1966, e replicata con Il viaggio di Capitan Fracassa,1990,
vero e proprio atto d’ossequio e d’amore al teatro); o ancora nell’anonima sala da ballo della periferia parigina di Ballando, ballando (1983), con gli sfondi inquietanti della Francia collaborazionista, della guerra d’Indocina e i fatti d’Algeria, del Sessantotto... Ma sebbene catturato dall’urgenza di relazionare sempre i personaggi al groviglio della storia, in Scola una mai disseccata vena ancor più intimista tende sempre a riemergere puntualmente. Ne sono testimonianze film come Passione d’amore (1981, dal romanzo Fosca di Igino Ugo Tarchetti), Maccheroni (1985), La famiglia (1987), Che ora è (1989), dove comunque a ben guardare il "minimalismo" conclamato più che destoricizzare incunea la storia nei dettagli, in quel senso malinconico del tempo che passa, annullando o alterando passioni, sentimenti e vicende esistenziali che spesso "il regista si limita a descrivere fenomenologicamente", sempre con un’indulgenza mai complice e una pietas frutto di "quell’umanesimo di fondo senza il quale i suoi film non avrebbero lasciato una traccia tanto profonda nell’immaginario collettivo e nella cultura italiana".
Riprendendo dalla letteratura (e dal cinema dei maestri) la lezione "manzoniana" (innesto della vicenda individuale nei grandi sommovimenti della storia), già all’indomani dell’esordio il cinema di Scola entra nel cono dell’interazione inscindibile tra storia e sentimenti, mantenendo quelle doti di perlustrazione sociale chiaramente già manifestate attraverso la momentanea fuga verso paradisi perduti di quel campione d’italianità che è l’editore, "progressista e democratico", Di Salvo (un sempre straordinario Alberto Sordi) nell’amaramente divertente Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968) o nel fustigante Il commissario Pepe (1969), vero e proprio prontuario della corruzione e dei vizi "consustanziali" al nostro paese, oggi letteralmente esplosi e sciorinati nelle pubbliche arene televisive senza neppure il pudore di celare le proprie malefatte. Due estremi opposti: il canagliesco industriale Alfredo Rossi (ancora Sordi), "processato" dal kafkiano tribunale di La più bella serata della mia vita, 1972, è castigato da una sacrosanta punizione "divina" (l’incidente mortale...ma l’interrogativo se si potrà sperare
Riprendendo dalla letteratura (e dal cinema dei maestri) la lezione "manzoniana" (innesto della vicenda individuale nei grandi sommovimenti della storia), già all’indomani dell’esordio il cinema di Scola entra nel cono dell’interazione inscindibile tra storia e sentimenti, mantenendo quelle doti di perlustrazione sociale chiaramente già manifestate attraverso la momentanea fuga verso paradisi perduti di quel campione d’italianità che è l’editore, "progressista e democratico", Di Salvo (un sempre straordinario Alberto Sordi) nell’amaramente divertente Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968) o nel fustigante Il commissario Pepe (1969), vero e proprio prontuario della corruzione e dei vizi "consustanziali" al nostro paese, oggi letteralmente esplosi e sciorinati nelle pubbliche arene televisive senza neppure il pudore di celare le proprie malefatte. Due estremi opposti: il canagliesco industriale Alfredo Rossi (ancora Sordi), "processato" dal kafkiano tribunale di La più bella serata della mia vita, 1972, è castigato da una sacrosanta punizione "divina" (l’incidente mortale...ma l’interrogativo se si potrà sperare
nella giustizia umana resta aperto); mentre l’idiota d’ascendenza dostoevskiana di Permette? Rocco dall’anarchico alcolizzato e comunque ancor più improbabilmente potrà essere proposto a modello di liberazione. La mutazione antropologica dell’italiano, denunciata dal compianto Pasolini, avanza a grandi passi (ma l’evoluzione in peggio doveva e forse deve ancora arrivare) e Scola ne interpreta a suo modo i passaggi allestendo ancora il feuilleton Dramma della gelosia (1970, grottesco triangolo popolaresco), giungendo già coraggiosamente negli anni Settanta alla sconvolgente estremizzazione della visione "poetica" del sottoproletariato pasoliniano con la crudele "sinfonia dell’orrore" di Brutti, sporchi e cattivi (1976), che lo stesso Pasolini, ormai "sconfitto", "avrebbe voluto (con) un finale ancora più amaro, convinto che 'gli abitanti delle baracche erano essi stessi, responsabili della loro evoluzione, essendosi voluti far colonizzare e distruggere'".
Radicalmente opposta, quattro anni prima, era stata la reazione del giovane operaio di Trevico-Torino... Viaggio nel Fiat-Nam (1973), "proletario senza rivoluzione" che prende coscienza nella fredda "città-fabbrica" Torino del suo sfruttamento, ma finisce col rifiutare ogni massimalismo ribellistico (scontentando la sinistra estrema) per abbracciare la linea riformista pro-Partito Comunista Italiano, da cui il film – scritto insieme a Diego Novelli, futuro sindaco comunista del capoluogo piemontese – è finanziato (Unitelefilm).
Parallelamente al binomio Storia-sentimento cresce, però, anche lo scetticismo laico e l’amaro disincanto del regista di Trevico, per quanto il suo ottimismo della ragione accompagnato da un greve pessimismo dell’intelligenza, non può e non dev’essere genericamente confuso con la perdita della fiducia nella funzione dell’intellettuale e dell’artista, di cui egli continua a mantenere chiara la "funzione decisiva di preparazione". Se gli intellettuali "non sono e non possono essere una classe rivoluzionaria, possono diventare peraltro un elemento catalizzatore e avere una funzione preparatoria: non l’avranno certo per la prima volta, e infatti tutte le rivoluzioni utilizzarono gli intellettuali come elemento catalizzatore; ma questa possibilità è forse più reale oggi che nel passato. È da questo gruppo...che saranno reclutati nel futuro più che oggigiorno i detentori del
Radicalmente opposta, quattro anni prima, era stata la reazione del giovane operaio di Trevico-Torino... Viaggio nel Fiat-Nam (1973), "proletario senza rivoluzione" che prende coscienza nella fredda "città-fabbrica" Torino del suo sfruttamento, ma finisce col rifiutare ogni massimalismo ribellistico (scontentando la sinistra estrema) per abbracciare la linea riformista pro-Partito Comunista Italiano, da cui il film – scritto insieme a Diego Novelli, futuro sindaco comunista del capoluogo piemontese – è finanziato (Unitelefilm).
Parallelamente al binomio Storia-sentimento cresce, però, anche lo scetticismo laico e l’amaro disincanto del regista di Trevico, per quanto il suo ottimismo della ragione accompagnato da un greve pessimismo dell’intelligenza, non può e non dev’essere genericamente confuso con la perdita della fiducia nella funzione dell’intellettuale e dell’artista, di cui egli continua a mantenere chiara la "funzione decisiva di preparazione". Se gli intellettuali "non sono e non possono essere una classe rivoluzionaria, possono diventare peraltro un elemento catalizzatore e avere una funzione preparatoria: non l’avranno certo per la prima volta, e infatti tutte le rivoluzioni utilizzarono gli intellettuali come elemento catalizzatore; ma questa possibilità è forse più reale oggi che nel passato. È da questo gruppo...che saranno reclutati nel futuro più che oggigiorno i detentori del
potere del processo produttivo... Questo è dunque il raggruppamento sociale dal quale verranno estratte le persone che avranno ruoli decisivi nelle posizioni di comando: scienziati, ricercatori, tecnici, ingegneri, anche psicologi, perché la psicologia continuerà a essere uno strumento socialmente necessario sia nel senso della servitù che in quello della liberazione". Per un’impensabile eterogenesi dei fini, dopo la rovinosa caduta della cosiddetta Prima Repubblica, la profezia marcusiana si è pienamente realizzata in Italia, nel senso più aberrante della "servitù".
Tuttavia, il caso italiano non è isolato: "La tendenza universale della fase finale della mutazione neoliberista era stata anticipata da Michel Foucault...col modello antropologico dell’homo oeconomicus". Non a caso alla delusione seguita dalla (ri)scoperta di un paese intollerante, ignorante, razzista, dominato da una nuova borghesia arrogante e incolta e perfino separatista ("Il problema delle sub-culture...ha veementemente ripreso il sopravvento nell’Italia contemporanea, creando da nord a sud un avvitamento della Storia...") Scola, portando indietro le lancette del tempo - ma, more solito, chiaramente riferendosi all’Italia contemporanea - gira nel 2001
Concorrenza sleale, pacata ma risoluta denuncia delle leggi razziali introdotte nel belpaese degli italiani "brava gente" nel 1938.
Scetticismo di fondo nei confronti delle "magnifiche sorti e progressive" stabilendo "una concordanza tra la fuga di Luigi XVI e quella, ingloriosa, di Vittorio Emanuele III da Roma, dopo aver destituito Mussolini alla fine di luglio 1943", manifesta nuovamente Scola riportandoci al periodo della Rivoluzione Francese vissuta "in diretta", nel già citato Il mondo nuovo (1982) in cui la declinante figura di Giacomo Casanova (un superbo e umanissimo Marcello Mastroianni), ormai in disfacimento e ridotto in miseria - offeso dalla spocchia e l’arroganza con cui un giovane "cittadino" lo rimbrotta - più degli aristocratici compagni di viaggio, riassume la delusione del vecchio illuminista di fronte al terrore giacobino, rabbrividente nuovo che avanza mozzando teste. I paradigmatici e verbosi personaggi, ideologiche incarnazioni, ne fanno quasi un film a tesi di sapore "rosselliniano", dove tuttavia l’acutezza della descrizione psicologia e la sontuosa mise en scène (coadiuvata da cast e troupe di livello internazionale) restituiscono all’opera un fascino ancor oggi rimasto immutato.
E delusioni, frustrazioni, crisi di valori, impotenza intellettuale, rabbia repressa, velleitarismi parolai, per celare l’avvenuto il distacco dalla realtà da parte dei protagonisti, accompagnano la coralità della variopinta fauna umana di La terrazza (1980) e La cena, (1998, contrappuntata dalle esternazioni di un cuoco logorroico, visto come "coscienza politica negativa"), che in opposizione alla compressione claustrofobica dello spazio - una terrazza e la sala di un ristorante - spinge l’occhio indagatore su una più generale condizione d’incupimento del paese (esistenziale, intellettuale, politico), di deriva verso il nulla, con esiti forse non del tutto soddisfacenti, ma la cui disordinata commistione è anche qui sintomo della confusione individuale e dello stordimento generale. Entrambi radiografie impietose della complessità dell’esistenza (con qualche "inevitabile" stereotipo caratteriale) e marcati dai continui rimandi storici, i due film confermano la straordinaria capacità registica di Scola di dirigere gli attori utilizzati (soprattutto nel secondo) alla stregua di strumenti musicali, per ricavarne una specie di concerto dove ora prevale il solista, ora il duetto, il trio, il quartetto... Perfetto ed esteticamente efficacissimo l’assemblaggio dell’intera "orchestra"; assoluto il dominio dell’eterogenea e nel contempo unitaria materia trattata; da manuale l’organizzazione delle entrate e delle uscite dei molti avventori, che fanno di Scola il più "altmaniano" dei registi nazionali.
Un bisogno di narrare il fosco stato di malessere del paese spinge Scola (ormai onusto di premi nazionali ed europei) ad approdare perfino nel noir, con un attualizzato Romanzo di un giovane povero (1995, ispirato al celeberrimo romanzo popolare francese), clamoroso tonfo commerciale, che - contrariamente alle garrulanti sirene d’una critica narcotizzata e spesso prona al potere - mantiene una capacità di cogliere i mutamenti (in peggio) della realtà italiana (condensata, ad esempio, nella Roma dell’ultimo, ma meno graffiante, Gente di Roma, 2003) dove ormai la risata ha definitivamente lasciato il passo di fronte alla rovinosa distruzione della democrazia.
Dall’affollata galleria scoliana di sconfitti - in cui non è banalmente la condizione economica, l’arricchimento, il posto al sole e il raggiungimento delle mete culturali imposte da una società intimamente malata e corrotta, a escluderne l’appartenenza e legittimarne l’estromissione - nessuno sembra trovare via di scampo, riferendosi egli principalmente (oltre che a quella politica) a una condizione morale sciancata, a un’inveterata insufficienza spirituale. Dall’ampio spettro della stratificazione sociale rappresentata nei suoi film - dai politici agli imprenditori, dagli intellettuali al ceto medio, dagli operai al sottoproletariato, dai reietti agli emigrati - Scola non ha mai lasciato alcuno fuori dalla porta del palcoscenico della vita. Più in generale si può dire che mostrando, senza astioso sussiego, l’Italia e gli italiani dal dopoguerra agli anni del boom a quelli attuali della sconfitta dei sogni, Scola ha voluto ritrarre una condizione esistenziale pressoché atemporale, metastorica, archetipica e comune a larga parte degli gli esseri umani, goffi e penosi naufraghi da sempre incapaci perfino d’essere, l’uno per l’altro, relitto di salvataggio.
Franco La Magna
http://www.cinemavvenire.it/saggi/ettore-scola-e-la-commedia-della-delusione-politico-esistenziale
Scetticismo di fondo nei confronti delle "magnifiche sorti e progressive" stabilendo "una concordanza tra la fuga di Luigi XVI e quella, ingloriosa, di Vittorio Emanuele III da Roma, dopo aver destituito Mussolini alla fine di luglio 1943", manifesta nuovamente Scola riportandoci al periodo della Rivoluzione Francese vissuta "in diretta", nel già citato Il mondo nuovo (1982) in cui la declinante figura di Giacomo Casanova (un superbo e umanissimo Marcello Mastroianni), ormai in disfacimento e ridotto in miseria - offeso dalla spocchia e l’arroganza con cui un giovane "cittadino" lo rimbrotta - più degli aristocratici compagni di viaggio, riassume la delusione del vecchio illuminista di fronte al terrore giacobino, rabbrividente nuovo che avanza mozzando teste. I paradigmatici e verbosi personaggi, ideologiche incarnazioni, ne fanno quasi un film a tesi di sapore "rosselliniano", dove tuttavia l’acutezza della descrizione psicologia e la sontuosa mise en scène (coadiuvata da cast e troupe di livello internazionale) restituiscono all’opera un fascino ancor oggi rimasto immutato.
E delusioni, frustrazioni, crisi di valori, impotenza intellettuale, rabbia repressa, velleitarismi parolai, per celare l’avvenuto il distacco dalla realtà da parte dei protagonisti, accompagnano la coralità della variopinta fauna umana di La terrazza (1980) e La cena, (1998, contrappuntata dalle esternazioni di un cuoco logorroico, visto come "coscienza politica negativa"), che in opposizione alla compressione claustrofobica dello spazio - una terrazza e la sala di un ristorante - spinge l’occhio indagatore su una più generale condizione d’incupimento del paese (esistenziale, intellettuale, politico), di deriva verso il nulla, con esiti forse non del tutto soddisfacenti, ma la cui disordinata commistione è anche qui sintomo della confusione individuale e dello stordimento generale. Entrambi radiografie impietose della complessità dell’esistenza (con qualche "inevitabile" stereotipo caratteriale) e marcati dai continui rimandi storici, i due film confermano la straordinaria capacità registica di Scola di dirigere gli attori utilizzati (soprattutto nel secondo) alla stregua di strumenti musicali, per ricavarne una specie di concerto dove ora prevale il solista, ora il duetto, il trio, il quartetto... Perfetto ed esteticamente efficacissimo l’assemblaggio dell’intera "orchestra"; assoluto il dominio dell’eterogenea e nel contempo unitaria materia trattata; da manuale l’organizzazione delle entrate e delle uscite dei molti avventori, che fanno di Scola il più "altmaniano" dei registi nazionali.
Un bisogno di narrare il fosco stato di malessere del paese spinge Scola (ormai onusto di premi nazionali ed europei) ad approdare perfino nel noir, con un attualizzato Romanzo di un giovane povero (1995, ispirato al celeberrimo romanzo popolare francese), clamoroso tonfo commerciale, che - contrariamente alle garrulanti sirene d’una critica narcotizzata e spesso prona al potere - mantiene una capacità di cogliere i mutamenti (in peggio) della realtà italiana (condensata, ad esempio, nella Roma dell’ultimo, ma meno graffiante, Gente di Roma, 2003) dove ormai la risata ha definitivamente lasciato il passo di fronte alla rovinosa distruzione della democrazia.
Dall’affollata galleria scoliana di sconfitti - in cui non è banalmente la condizione economica, l’arricchimento, il posto al sole e il raggiungimento delle mete culturali imposte da una società intimamente malata e corrotta, a escluderne l’appartenenza e legittimarne l’estromissione - nessuno sembra trovare via di scampo, riferendosi egli principalmente (oltre che a quella politica) a una condizione morale sciancata, a un’inveterata insufficienza spirituale. Dall’ampio spettro della stratificazione sociale rappresentata nei suoi film - dai politici agli imprenditori, dagli intellettuali al ceto medio, dagli operai al sottoproletariato, dai reietti agli emigrati - Scola non ha mai lasciato alcuno fuori dalla porta del palcoscenico della vita. Più in generale si può dire che mostrando, senza astioso sussiego, l’Italia e gli italiani dal dopoguerra agli anni del boom a quelli attuali della sconfitta dei sogni, Scola ha voluto ritrarre una condizione esistenziale pressoché atemporale, metastorica, archetipica e comune a larga parte degli gli esseri umani, goffi e penosi naufraghi da sempre incapaci perfino d’essere, l’uno per l’altro, relitto di salvataggio.
Franco La Magna
http://www.cinemavvenire.it/saggi/ettore-scola-e-la-commedia-della-delusione-politico-esistenziale
Gracias por regresar, saludos
ResponderEliminarHo scaricato i file ma non sono .rar... Cosa devo fare? Grazie infinite per l'aiuto e per lo splendido blog.
ResponderEliminarTenés que unirlos con el programa 7ZIP
EliminarGrande siempre Ettore Scola, el último maestro. Grazie, Amarcord!
ResponderEliminarjDownloader no descarga los links, pone un mensaje, que menciona algo asi como que hay que tener el developer version of jd?. saben de que se trata?. Gracias
ResponderEliminarNo tengo la menor idea.
EliminarAldo, descarga con FreeRapid, a mí me ha bajado volando.
Eliminargracias por la data, ya lo pude descargar. Gracias!!!
ResponderEliminarSei grosso Ammarcord, sei grosso
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