TÍTULO ORIGINAL Vaghe stelle dell'Orsa
AÑO 1965
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Epañol (Separados)
DURACIÓN 93 min.
DIRECTOR Luchino Visconti
GUIÓN Suso Cecchi D'Amico, Enrico Medioli, Luchino Visconti
MÚSICA César Franck
FOTOGRAFÍA Armando Nannuzzi (B&W)
REPARTO Claudia Cardinale, Jean Sorel, Michael Craig, Renzo Ricci, Marie Bell
PRODUCTORA Vides
PREMIOS 1965: Festival de Venecia: León de Oro (mejor película)
GÉNERO Drama
SINOPSIS Sandra Dawson (Claudia Cardinale) regresa al pueblo de su infancia, Volterra, en la Toscana, y lo hace acompañada de Andrew, su marido (Michael Craig). Una vez instalada en su casa natal, la persigue el recuerdo de su padre, muerto en el campo de concentración de Auschwitz. (FILMAFFINITY)
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Subtítulos (Español)
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Questo film è un "giallo" diverso dal consueto.
Si è parlato di una "Elettra moderna", ma per spiegare cosa intendo in questo caso per"giallo" citerò un'altra tragedia classica: l'Edipo Re, uno tra i primi "gialli" mai scritti, in cui il colpevole è il personaggio meno sospettabile (Edipo stesso all'inizio della tragedia si definisce "l'unico estraneo").
Può darsi che gli spettatori dell'epoca sofoclea lasciassero il teatro convinti che il vero colpevole non fosse Edipo, ma il fato; allo spettatore contemporaneo però questa comoda spiegazione non basta. Egli scagiona Edipo solo in quanto si sente a sua volta chiamato in causa, come per un concorso di colpa.
Così nel mio film ci sono dei morti e dei presunti responsabili, ma non è detto che siano i veri colpevoli e le vere vittime. In questo senso il riferimento che io stesso ho fatto all'"Orestiade" è più che altro di comodo. Prendiamo Sandra e Gilardini, per esempio: l'una somiglia ad Elettra per l'occasione che la muove, l'altro ad Egisto perchè al di fuori del nucleo familiare, ma si tratta di analogie schematiche. Sandra ha il volto di giustiziere, Gilardini quello dell'imputato, ma in realtà le loro posizioni potrebbero anche risultare capovolte.
L'ambiguità è il vero aspetto di tutti i personaggi del film, tranne uno, quello di Andrew, il marito di Sandra. Egli vorrebbe una spiegazione logica a tutto, e invece si scontra con un mondo dominato dalle più profonde, contraddittorie, inspiegabili passioni.
Questo personaggio è il più vicino alla coscienza dello spettatore, che a sua volta, proprio perché incapace di trovare una soluzione logica agli avvenimenti, dovrebbe trovarsi alla fine chiamato direttamente in causa, obbligato a chiedersi non tanto se la madre e Gilardini siano responsabili della morte del professore, o Sandra responsabile di quella di Gianni, quanto se colpa vi è stata e quale, e se non si celino dentro di noi una Sandra, un Gianni, un Gilardini.
Insomma, un "giallo" ove tutto è chiaro all'inizio e oscuro alla fine, come ogni volta che ciascuno inizia la difficile impresa di leggere dentro se stesso con la baldanzosa sicurezza di non aver nulla da imparare, e si ritrova di poi con l'angosciosa problematica del non-essere.
Ho fatto questo film perché sono convinto, e non da ora, che uno tra i mezzi, e non il meno importante, per osservare la società contemporanea e i suoi problemi, e cercare di trovarne una soluzione non convenzionale né statica, sia quello di studiare l'animo di certi suoi personaggi rappresentativi, comunque collocati e angolati.
Non condivido perciò la sorpresa di quanti, interessati al mio lavoro, si sono chiesti come mai io abbia scelto una storia intimista, quasi da"kammerspiel", dopo il respiro storico di film come Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo.
Il fatto è che, se sarò riuscito nel mio scopo, Vaghe stelle dell'Orsa somiglierà più di quanto oggi si creda ai miei film precedenti e costituirà la continuazione di un discorso che ho iniziato oltre vent'anni fa.
Del vecchio "kammerspiel" di Mayer e Lupu Pick avrà solo la relativa unità di tempo e di luogo, lo spunto drammatico a forti tinte, l'abbondanza di primi piani, cose del tutto accidentali cioè.
La mia vera attenzione è stata rivolta alla coscienza di Sandra, al suo disagio morale, al suo impegno di capire: gli stessi tiranti che a suo tempo hanno mosso 'Ntoni, Livia, Rocco o il principe Salina.
E se altrove mi sono servito di un ballo, di una battaglia, del fenomeno dell'emigrazione interna, della conquista del pane quotidiano, qui mi hanno stimolato l'antico enigma etrusco, Volterra, che ne è perfetta espressione, il complesso di superiorità della razza ebraica, una figura di donna.
Questi sono gli elementi "storici", di fondo, e sostanzialmente entro certi limiti, da cui muove la vicenda di questo mio film. Così come ne sono elementi psicologici la conclamata esigenza di giustizia e di verità, l'insoddisfazione sentimentale e sessuale di Sandra, la sua crisi matrimoniale.
E così come, infine, ne costituisce essenziale elemento ambientale il dramma familiare (comune anche ai personaggi dei miei film che citavo prima).
Mossa dall'"incidente" (il ritorno alla casa paterna), la coscienza di Sandra inizia il difficile cammino verso la ricerca della verità, una verità profondamente diversa da quella in cui ella credeva d'essere saldamente radicata, una verità penosa e che forse a un personaggio come lei non sarà mai concesso di conquistare interamente.
In tal modo Sandra e le sue vittime (o i suoi persecutori) trovano un posto nel quadro della società contemporanea, o scoprono che per essi non c'è più posto. Ed aiutano, attraverso la loro tragedia, a meglio intendere la realtà del nostro momento storico e le sue finalità.
Se mi è permesso riprendere un argomento che mi fu caro agli inizi della mia carriera, dirò che oggi più che mai m'interessa un cinema antropomorfico. Vaghe stelle dell'Orsa è una conferma, non un'eccezione, di questo mio interesse dominante. Ecco "perché" ho fatto questo film.
Per quanto riguarda la sua elaborazione, "dal soggetto al film" cioè, Vaghe stelle dell'Orsa è stato forse il più laborioso tra i miei film.
Come si potrà notare dai testi, molte cose sono cambiate anche in fase di ripresa. Questo è dipeso dal fatto che la materia del film si è andata precisando di giorno in giorno.
Vorrei dire che vi hanno contribuito per un certo verso lo stesso soggiorno a Volterra, l'ambiente di palazzo Inghirami dove ho girato la maggior parte delle scene del film, il lento procedere dell'autunno durante le riprese; e per un altro verso la conoscenza degli attori, alcuni dei quali scelti all'ultimo momento.
(...)
Jean Renoir, che da giovane fu un appassionato ceramista, soleva dire che la ceramica e il cinema hanno questo in comune: l'autore sa sempre quel che vuol fare, ma una volta messa l'opera nel forno non sa mai bene se verrà fuori come lui ha voluto, o almeno in parte diversa.
Io ho tenuto a lungo nel forno Vaghe stelle dell'Orsa. Lunga è stata la gestazione e, finite le riprese, lungo il periodo trascorso prima di montarlo. Nessuno più di me è oggi ansioso di sapere se questo "quiz di anime" avrà avuto la sua giusta gradazione di cottura.
Per la protagonista infatti avevo sempre pensato a Claudia Cardinale. Il personaggio di Sandra, anzi, era stato scritto su di lei, e non solo per quel che di enigmatico si cela dietro l'apparente semplicità di quest'attrice, ma anche per l'aderenza somatica della sua figura (la testa, in specie) a quella che delle donne etrusche ci è stata tramandata.
Non vi furono problemi neppure per la mia cara amica Marie Bell nel ruolo della madre, ne per Ricci in quello di Gilardini.
Più difficile risultò trovare Gianni. Non avevo mai lavorato con Sorel, e - una volta sceltolo - dovetti imparare a conoscerlo, ad adattargli addosso il personaggio di Gianni, giorno per giorno.
Ancora più avventurosa fu infine la scelta di Michael Craig, arrivato in Italia la vigilia dell'inizio di lavorazione. Anche per lui si pose lo stesso problema, ma credo che questa complicata gestazione non sia stata del tutto accidentale.
Forse era nella stessa natura del film nascere in modo laborioso, così come laboriosamente si spiegano i suoi protagonisti. Lo stesso titolo creò non pochi problemi. Adesso che ne sono quanto mai soddisfatto, specie dopo che anche nei paesi stranieri lo si è adottato, nonostante fosse stato ritenuto all'inizio troppo difficile da masticare.
© Vaghe stelle dell'orsa..., Cappelli, Bologna 1965.
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Firenze, 24 settembre 1965. Un film di Visconti può in parte deludere, ma è difficile che si sottragga a un cattivante taglio viscontiano. Siamo di fronte a un regista che si fa valere anche nei difetti. Diamo pure per scontato, e salvo poche eccezioni è stato il giudizio comune a Venezia, che Vaghe stelle dell’Orsa… sia inferiore alle opere migliori di Visconti, sia per ispirazione che per esecuzione (ma le due cose sono quasi sempre legate). Si resta però sempre in un terreno provvisto di singolarità e di fascino. Non fosse altro perchè il regista mette allo scoperto un lato della sua personalità che ci aveva sempre lesinato nel cinema, o mostrato solo a sprazzi: il decadentismo compiaciuto, revivalistico, nel quale confluiscono ricordi di altre epoche, di altri climi.
E’ stato detto che si tratta di un film dannunziano. E’ vero, ma in senso lato, prendendo D’Annunzio come caso limite del decadentismo e del compiacimento estetizzante. Non come riferimento preciso. C’è però il culto delle atmosfere esasperate, protette da un calore di serra, tese più al passato che al presente. Un film che teme l’apertura dei vetri, il contatto con la società, lievitante in un humus artificiale. Dannunziano in un senso irreale e superomistico.
La vicenda, più che nascere da indicazioni attuali di costume, si ispira al mito greco dell’uccisione di Agamennone da parte di Egisto, dell’usurpazione del trono da parte dell’assassino, amante della vedova Clitennestra, e della complicità fra Elettra ed Oreste nel perseguire gli assassini. Visconti e i suoi sceneggiatori hanno però introdotto modifiche, facendo diventare incestuosi i rapporti tra i fratelli e sfumando la questione della morte del padre: è stato veramente ucciso dalla moglie e dal suo amante, o non piuttosto le accuse dei figli sono ingiustificate? Così la questione dell’assassinio rimane un fondale: in primo piano passa la passione singolare fra Elettra e Oreste, tesa oltre i limiti di un’umanità possibile.
I nomi, naturalmente, sono cambiati, e le situazioni. I tempi sono i nostri. Il padre non è stato ucciso direttamente ma, come israelita, denunziato ai nazisti (forse). L’azione si svolge nell’ambiente cemeteriale e vetusto di Volterra, città che sembra suggerire il non trascorrere del tempo, la perennità del passato, il ricorso delle epoche e la pochezza del presente. A Volterra in ventiquattr’ore i protagonisti del dramma si incontrano, i loro sentimenti si scaldano fino al diapason emotivo, alla fine Gianni-Oreste rifiutato da Sandra-Elettra si uccide. I tre quarti della vicenda si svolgono tra le consolles e gli alabastri di palazzo Inghirami (caro alla narrativa dannunziana) il resto sottoterra nella piscina romana oppure sull’orlo delle Balze. Poco è concesso alla Volterra moderna, vista solo di straforo. I personaggi contro i fondali antiquari o archeologici, recitano quasi come in teatro, in atteggiamenti stilizzati: Visconti li circonda di oggetti antichi, anche le persone sembrano fatte di alabastro e di letteratura. Fa da connettivo un gusto che rievoca motivi cari al decadentismo europeo internazionale al momento del suo apogeo: l’epoca, appunto, di Dannunzio.
Nonostante i sentimenti esasperati messi in gioco, Vaghe stelle dell’Orsa… è uno spettacolo da vedere con distacco, col gusto di chi frequenta un’esposizione, poco provvisto di una sua tensione emotiva. L’altra opera viscontiana a cui fa pensare è Le notti bianche, appunto la più incerta e letteraria.
E’ un film che guarda all’indietro. Tutto il retroterra culturale di Visconti collezionista, uomo di gusto, amante di cavalli e di palazzi, il nobile che egli è, prende la mano all’artista o per lo meno lo condiziona. E c’è anche il regista di teatro incontentabile in fatto di scenografia, che non sbaglia un oggetto di epoca. Ma questo sovraccarico forza la vicenda, la sommerge, ne fa un pezzo da collezione anch’essa.
Sergio Frosali (estratto da La Nazione, 24 settembre 1965)
http://ricercavisconti.wordpress.com/tag/vaghe-stelle-dellorsa-1965/
E’ stato detto che si tratta di un film dannunziano. E’ vero, ma in senso lato, prendendo D’Annunzio come caso limite del decadentismo e del compiacimento estetizzante. Non come riferimento preciso. C’è però il culto delle atmosfere esasperate, protette da un calore di serra, tese più al passato che al presente. Un film che teme l’apertura dei vetri, il contatto con la società, lievitante in un humus artificiale. Dannunziano in un senso irreale e superomistico.
La vicenda, più che nascere da indicazioni attuali di costume, si ispira al mito greco dell’uccisione di Agamennone da parte di Egisto, dell’usurpazione del trono da parte dell’assassino, amante della vedova Clitennestra, e della complicità fra Elettra ed Oreste nel perseguire gli assassini. Visconti e i suoi sceneggiatori hanno però introdotto modifiche, facendo diventare incestuosi i rapporti tra i fratelli e sfumando la questione della morte del padre: è stato veramente ucciso dalla moglie e dal suo amante, o non piuttosto le accuse dei figli sono ingiustificate? Così la questione dell’assassinio rimane un fondale: in primo piano passa la passione singolare fra Elettra e Oreste, tesa oltre i limiti di un’umanità possibile.
I nomi, naturalmente, sono cambiati, e le situazioni. I tempi sono i nostri. Il padre non è stato ucciso direttamente ma, come israelita, denunziato ai nazisti (forse). L’azione si svolge nell’ambiente cemeteriale e vetusto di Volterra, città che sembra suggerire il non trascorrere del tempo, la perennità del passato, il ricorso delle epoche e la pochezza del presente. A Volterra in ventiquattr’ore i protagonisti del dramma si incontrano, i loro sentimenti si scaldano fino al diapason emotivo, alla fine Gianni-Oreste rifiutato da Sandra-Elettra si uccide. I tre quarti della vicenda si svolgono tra le consolles e gli alabastri di palazzo Inghirami (caro alla narrativa dannunziana) il resto sottoterra nella piscina romana oppure sull’orlo delle Balze. Poco è concesso alla Volterra moderna, vista solo di straforo. I personaggi contro i fondali antiquari o archeologici, recitano quasi come in teatro, in atteggiamenti stilizzati: Visconti li circonda di oggetti antichi, anche le persone sembrano fatte di alabastro e di letteratura. Fa da connettivo un gusto che rievoca motivi cari al decadentismo europeo internazionale al momento del suo apogeo: l’epoca, appunto, di Dannunzio.
Nonostante i sentimenti esasperati messi in gioco, Vaghe stelle dell’Orsa… è uno spettacolo da vedere con distacco, col gusto di chi frequenta un’esposizione, poco provvisto di una sua tensione emotiva. L’altra opera viscontiana a cui fa pensare è Le notti bianche, appunto la più incerta e letteraria.
E’ un film che guarda all’indietro. Tutto il retroterra culturale di Visconti collezionista, uomo di gusto, amante di cavalli e di palazzi, il nobile che egli è, prende la mano all’artista o per lo meno lo condiziona. E c’è anche il regista di teatro incontentabile in fatto di scenografia, che non sbaglia un oggetto di epoca. Ma questo sovraccarico forza la vicenda, la sommerge, ne fa un pezzo da collezione anch’essa.
Sergio Frosali (estratto da La Nazione, 24 settembre 1965)
http://ricercavisconti.wordpress.com/tag/vaghe-stelle-dellorsa-1965/
Retorno al pasado
Realizada a continuación de "El gatopardo", sorprendió esta película de presupuesto mucho más modesto, última que Visconti filmó en blanco y negro y centrada en escasos personajes, y obtuvo tan sólo un moderado éxito en su estreno; pero, en mi opinión, merece ser hoy reivindicada como una de sus grandes obras (algo que hago extensible a otras también menos valoradas, como "El inocente").
Sandra, acompañada de su marido, regresa a su villa natal de Volterra con motivo de un homenaje a su idolatrado padre, fallecido en Auschwitz; allí se reencuentra con su hermano, con quien le une una muy particular relación, y su odiada madre, casada en segundas nupcias. O, si se prefiere, Electra se reencuentra con Orestes, bajo la sombra de Agamenón y Clitemnestra. En efecto, estamos ante una libre trasposición de la Orestíada, aunque sólo como punto de partida para definir a los personajes y sus dilemas, no de llegada: los conocedores del mito clásico no han de temer a anticiparse a la resolución del conflicto, que Visconti maneja a su antojo.
Uno de los puntos fuertes del film, a mi entender, es la manera cómo muestra ese retorno al pasado, en definitiva a las pasiones ancestrales, asociándolas a los elementos naturales, como el viento, y a la antigüedad, simbolizada por la imaginería etrusca, o las ruinas de unas cisternas romanas (*véase spoiler). El carácter gótico se ve reforzado por la extraordinaria y muy contrastada fotografía, que dibuja sombras amenazantes sobre los rostros de los protagonistas en los momentos álgidos y que juega también con sus reflejos en el agua o en los espejos.
Esta fotografía realza como nunca la belleza de C.C., como Sternberg hacía con Marlene. Quizás —y como única objeción a esta gran película—, cabría decir que sus cualidades interpretativas —y más en un papel tan cargado de resonancias como este, auténtico caramelo para las más grandes actrices— no brillan a la misma altura que su físico. De todos modos, parece ser que Visconti ya contaba con ello, pues en entrevistas de la época admite que era plenamente consciente de estas carencias, pero que la eligió por su "belleza un poco tosca, casi animal", que iba bien para el papel. Por su parte, el trabajo de Jean Sorel en el rol de hermano me parece prodigioso.
La composición de cada encuadre tiene la armonía típica en Visconti, que se inicia aquí en el uso del zoom, ese mecanismo a menudo tan denostado, seguramente porqué no forma parte de la gramática clásica del cine y porqué en los setenta fue llevado hasta el abuso y la extenuación por directores rupestres (si Godard dijo que un travelling es una cuestión moral, el pobre zoom parece a veces que sea inmoral). Pero a mi me parece una figura de estilo tan legítima como cualquier otra, y creo que Visconti fue uno de los primeros, junto al Rossellini televisivo, que, con mejor criterio —en otras palabras, otorgándole un sentido significativo—, lo supo utilizar.
En su primera noche en la mansión, el marido le dice a Sandra que le ha parecido ver a alguien en el jardín, ella replica burlona que allí no hay fantasmas y sale al jardín. Con un viento huracanado que retuerce las ramas de los árboles y sus cabellos, se acerca al busto de su padre, tapado aún con una sábana (es la escultura con la que la localidad le rendirá homenaje) y lo abraza. Me parece magistral esta idea visual en la que, literalmente, vemos el abrazo a un fantasma. En ese momento, como un espectro que surge de las sombras, aparece el hermano; ella corre hacia él y se abrazan también apasionadamente.
Más tarde, los hermanos, rememorando sus citas de amor clandestinas de adolescencia, se encuentran de nuevo en la vieja cisterna romana. El hermano le arrebata el anillo de casada y le pide que se lo preste, al menos por veinticuatro horas. Sin tener que recurrir a ningún primer plano, Visconti nos mostrará en diversas ocasiones cómo lo lleva puesto. No hace falta decir más.
En una época en que la censura ya empezaba a permitir la explicitud en todos sus términos, me parece extraordinaria la capacidad de Visconti para sugerir los afectos incestuosos de una manera tan bella, sutil e inteligente, sin necesidad de recurrir a otro tipo de imágenes que, sin duda, tan sólo habrían sido una demasiado fácil concesión a la comercialidad.
Quim Casals
http://www.filmaffinity.com/es/reviews/1/158875.html
Sandra, acompañada de su marido, regresa a su villa natal de Volterra con motivo de un homenaje a su idolatrado padre, fallecido en Auschwitz; allí se reencuentra con su hermano, con quien le une una muy particular relación, y su odiada madre, casada en segundas nupcias. O, si se prefiere, Electra se reencuentra con Orestes, bajo la sombra de Agamenón y Clitemnestra. En efecto, estamos ante una libre trasposición de la Orestíada, aunque sólo como punto de partida para definir a los personajes y sus dilemas, no de llegada: los conocedores del mito clásico no han de temer a anticiparse a la resolución del conflicto, que Visconti maneja a su antojo.
Uno de los puntos fuertes del film, a mi entender, es la manera cómo muestra ese retorno al pasado, en definitiva a las pasiones ancestrales, asociándolas a los elementos naturales, como el viento, y a la antigüedad, simbolizada por la imaginería etrusca, o las ruinas de unas cisternas romanas (*véase spoiler). El carácter gótico se ve reforzado por la extraordinaria y muy contrastada fotografía, que dibuja sombras amenazantes sobre los rostros de los protagonistas en los momentos álgidos y que juega también con sus reflejos en el agua o en los espejos.
Esta fotografía realza como nunca la belleza de C.C., como Sternberg hacía con Marlene. Quizás —y como única objeción a esta gran película—, cabría decir que sus cualidades interpretativas —y más en un papel tan cargado de resonancias como este, auténtico caramelo para las más grandes actrices— no brillan a la misma altura que su físico. De todos modos, parece ser que Visconti ya contaba con ello, pues en entrevistas de la época admite que era plenamente consciente de estas carencias, pero que la eligió por su "belleza un poco tosca, casi animal", que iba bien para el papel. Por su parte, el trabajo de Jean Sorel en el rol de hermano me parece prodigioso.
La composición de cada encuadre tiene la armonía típica en Visconti, que se inicia aquí en el uso del zoom, ese mecanismo a menudo tan denostado, seguramente porqué no forma parte de la gramática clásica del cine y porqué en los setenta fue llevado hasta el abuso y la extenuación por directores rupestres (si Godard dijo que un travelling es una cuestión moral, el pobre zoom parece a veces que sea inmoral). Pero a mi me parece una figura de estilo tan legítima como cualquier otra, y creo que Visconti fue uno de los primeros, junto al Rossellini televisivo, que, con mejor criterio —en otras palabras, otorgándole un sentido significativo—, lo supo utilizar.
En su primera noche en la mansión, el marido le dice a Sandra que le ha parecido ver a alguien en el jardín, ella replica burlona que allí no hay fantasmas y sale al jardín. Con un viento huracanado que retuerce las ramas de los árboles y sus cabellos, se acerca al busto de su padre, tapado aún con una sábana (es la escultura con la que la localidad le rendirá homenaje) y lo abraza. Me parece magistral esta idea visual en la que, literalmente, vemos el abrazo a un fantasma. En ese momento, como un espectro que surge de las sombras, aparece el hermano; ella corre hacia él y se abrazan también apasionadamente.
Más tarde, los hermanos, rememorando sus citas de amor clandestinas de adolescencia, se encuentran de nuevo en la vieja cisterna romana. El hermano le arrebata el anillo de casada y le pide que se lo preste, al menos por veinticuatro horas. Sin tener que recurrir a ningún primer plano, Visconti nos mostrará en diversas ocasiones cómo lo lleva puesto. No hace falta decir más.
En una época en que la censura ya empezaba a permitir la explicitud en todos sus términos, me parece extraordinaria la capacidad de Visconti para sugerir los afectos incestuosos de una manera tan bella, sutil e inteligente, sin necesidad de recurrir a otro tipo de imágenes que, sin duda, tan sólo habrían sido una demasiado fácil concesión a la comercialidad.
Quim Casals
http://www.filmaffinity.com/es/reviews/1/158875.html
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