TITULO ORIGINAL Le belle famiglie
AÑO 1964
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 98 min.
DIRECCION Ugo Gregoretti
ARGUMENTO Y GUION Ugo Gregoretti e Steno
PRODUCTOR Giuseppe Colizzi para Archimede Film. Cromo Film (Roma), Les Films Number One (Parigi)
DIRECTOR DE FOTOGRAFIA Ajace Parolin
MUSICA Armando Trovajoli
MONTAJE Mario Serandrei
ESCENOGRAFIA Dario Micheli
AYUDANTE DE DIRECCION Ferando Morandi
SONIDO Umberto Picistrelli.
GENERO Comedia / Película en episodios
INTERPRETES Y PERSONAJES
Annie Girardot ... Maria (segment "Il principe azzurro")
Jone Salinas ... (segment "Il principe azzurro")
Oreste Palella ... (segment "Il principe azzurro")
Maria Grazia Spadaro ... (segment "Il principe azzurro")
Angelo Infanti ... (segment "Il principe azzurro")
Susy Andersen ... Carla (segment "Il bastardo della regina madre")
Nanni Loy ... Uberto (segment "Il bastardo della regina madre")
Hanil Ranieri ... (segment "Il bastardo della regina madre")
Tony Anthony ... Luigi (segment "La cernia")
Susanna Clemm ... Trude Muller (segment "La cernia")
Lars Bloch ... Muller (segment "La cernia")
Maria Grazia Bon ... Camilla (segment "La cernia")
Totò ... Filiberto Comanducci (segment "Amare e un po' morire")
Sandra Milo ... Esmeralda (segment "Amare e un po' morire")
Jean Rochefort ... Il marchese Osvaldo (segment "Amare e un po' morire")
Adolfo Celi ... Professore Della Porta (segment "Amare e un po' morire")
SINOPSIS Il film si compone dei seguenti episodi:
1.-"Il principe azzurro": una ragazza si fa suora piuttosto che sposare l'uomo impostole dai genitori.
2.-"Il bastardo della regina": una signora assume un cameriere per ingelosire il marito, ma otterrà che il coniuge per preferire il domestico alla mogliettina.
3.-"La cernia": chi la fa l'aspetti; un ragazzo "fila" con una bella straniera maritata e il coniuge seduce la fidanzata del playboy.
4.-"Amare è un pò morire": Esmeralda, donna dalla mania di proteggere sempre qualcuno, esce di senno quando il marito, arteriosclerotico, e l'amante, epilettico, guariscono e non hanno più bisogno delle sue cure. Torna serena quando il medico di famiglia, respinto in passato perchè integro, è uscito menomato da un incidente.
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Ugo Gregoretti: vagabondando nelle diverse forme di spettacolo
Siamo innanzi al regista Ugo Gregoretti. Intanto restiamo incantati dalla sua armonia caratteriale, dalla sua dolcezza, dal suo ottimismo, dalla assoluta saggezza, rafforzata sicuramente dai suoi magnifici ottantuno anni. Ci riceve nel suo appartamento al centro di Roma, nonostante una leggera sindrome influenzale lo costringa da qualche giorno al riposo. Gregoretti è un autore degli anni del boom cinematografico italiano, il suo esordio è l’esordio di Pasolini, Olmi, Ferreri, i fratelli Taviani, Montaldo, De Seta, Vancini, Petri, De Bosio, Brusati Orsini, Damiani, Caprioli, Scola, Bertolucci, Brass, Wertmuller, Cavani, Bellocchio, Mingozzi. Stiamo parlando propriamente, ancora una volta, del grande ed irripetibile cinema italiano di cui Gregoretti è stato e resta, sicuramente un alfiere. Ed infatti ci piace sapere che il suo lavoro nel cinema continua ed il suo ultimo film, in procinto di uscire nelle sale, si chiama Scossa. In realtà è un film a più episodi ed a più autori: oltre a Gregoretti filmano quelle che sono le riflessioni sul terribile terremoto di Messina accaduto nel 1908, Carlo Lizzani, Francesco Maselli, Nino Russo.
Dice Gregoretti: “Quello che era un progetto nato per celebrare i cento anni dal terribile sisma di Messina, reputo che sia diventato, per quel che mi riguarda, la cosa migliore che ho fatto sin’ ora nel cinema”. Ed il cinema Ugo Gregoretti lo ha interpretato proprio percorrendo per intero l’arco costituzionale dello spettacolo, infatti oltre che regista, sceneggiatore, commediografo e giornalista cine-televisivo, è stato anche attore. Anzi per dirla ancora, ha curato e presentato anche un’edizione di Domenica In, trasmissione che è rimasta una delle più longeve della televisione italiana. Precisa, ad esempio, la definizione data al particolare modo di interpretare la sua carriera: “Un vagabondaggio, anche estremo, nelle diverse forme di spettacolo”.
La sua verve, sempre profondamente ironica ed autoironica, ha convinto appieno, a suo tempo, uno dei più stimati maestri del cinema umoristico e dell’ironia come Alberto Sordi, che in qualità di regista lo ha voluto tra gli interpreti dei suoi film Amore mio aiutami (1968) e Il comune senso del pudore (1976). Gregoretti d’altronde segna anche l’esordio nel cinema del regista Gianni Amelio, interpretando il ruolo di protagonista nel suo primo film, La fine del gioco (1970). In seguito Amelio produrrà opere che marchieranno la storia del cinema italiano come, uno su tutti, Il ladro di bambini (1992). Ugo Gregoretti si dichiara ancora ottimista verso le possibilità del cinema italiano che, proprio al contrario di molti suoi colleghi, tende ancora a definire energico, vitale, bello. Dice infatti Gregoretti: “Sono un po’ aiutato da quella che è la mia innata tendenza caratteriale, che è sempre stata sensibilmente puntuale verso l’ottimismo più profondo, anche se qualche volta ho come l’impressione che questo ottimismo sia, in verità, un espediente, forse di radice inconscia, per continuare a vivere più serenamente. Quindi, al di là di tutto, sono portato a vedere in una prospettiva positiva anche quello che è lo sviluppo del cinema italiano attuale e a mettere l’accento soprattutto sulle cose valide, ai diversi livelli generazionali. Certo, non vedo in questo percorso, però, le punte altissime dei decenni passati”. Noi incalziamo dicendo che in fondo quegli esordi avevano una garanzia, anche industriale, che oggi non esiste più. Quei nomi, riferiti all’epoca del debutto di Ugo Gregoretti, che il tempo confermerà certamente uno più importante dell’altro, hanno avuto l’opportunità di fare anche un secondo film, che, anche se sbagliato (un esempio in questo senso potrebbe essere Marco Bellocchio), non ha interdetto la possibilità di farne un terzo, un quarto e un quinto. Cioè quello che riesce impossibile oggi. Se oggi un autore sbaglia il primo film o il secondo, è difficile, se non impossibile, arrivare al terzo. Il mercato ti respinge inesorabilmente. Ugo Gregoretti ha in questo senso un’altra risposta: “In fondo oggi il cinema non è più visto come una sorta di fata Morgana, quasi inarrivabile; la quantità di giovani determinati a fare cinema è smisuratamente cresciuta rispetto a quei tempi, forse perchè è cresciuta, quasi di pari passo, anche l’opportunità generale di fare cinema. Basti pensare all’uso del telefonino, ad esempio, alla nuova tecnica del digitale, alla televisione che con le sue fiction dà modo di esprimersi a molti, presumibilmente, talenti”.
Ugo Gregoretti è un regista dalla filmografia non particolarmente capiente. Tra i suoi lungometraggi, essenzialmente di fiction, possiamo segnalarne solo una mezza dozzina: I nuovi angeli (1961) Ro.Go.Pa.G (1963), Le più belle truffe del mondo (1963), Omicron (1963), Le belle famiglie (1964), Maggio musicale (1989), un film tanto amato, interpretato dallo splendido attore Malcolm McDowell. In seguito sarà appunto il genere del documentario la forma scelta dal regista per esprimersi nel suo cinema.
Il suo esordio, frutto anche di un preciso intuito del produttore Alfredo Bini è, appunto, il film I nuovi angeli. La pellicola nasceva dalle inchieste giornalistiche sulla gioventù italiana negli anni dl boom, realizzate dal giornalista Mino Guerrini, colui che sarà in futuro anche un regista cinematografico. Questo esordio sarà un successo, ed il produttore Bini lo vanterà per parecchio tempo, tale da incoraggiare il giovane Gregoretti a proseguire sulla strada del cinema, lui che era già un affermato regista di documentari e di inchieste televisive, come ad esempio La Sicilia del Gattopardo, e di trasmissioni giornalistiche realizzate per la televisione come Controfagotto (1961), che in realtà era, per i tempi, sicuramente un’innovativa ed anticonformista, tutto sommato, rubrica di costume.
La sua verve, sempre profondamente ironica ed autoironica, ha convinto appieno, a suo tempo, uno dei più stimati maestri del cinema umoristico e dell’ironia come Alberto Sordi, che in qualità di regista lo ha voluto tra gli interpreti dei suoi film Amore mio aiutami (1968) e Il comune senso del pudore (1976). Gregoretti d’altronde segna anche l’esordio nel cinema del regista Gianni Amelio, interpretando il ruolo di protagonista nel suo primo film, La fine del gioco (1970). In seguito Amelio produrrà opere che marchieranno la storia del cinema italiano come, uno su tutti, Il ladro di bambini (1992). Ugo Gregoretti si dichiara ancora ottimista verso le possibilità del cinema italiano che, proprio al contrario di molti suoi colleghi, tende ancora a definire energico, vitale, bello. Dice infatti Gregoretti: “Sono un po’ aiutato da quella che è la mia innata tendenza caratteriale, che è sempre stata sensibilmente puntuale verso l’ottimismo più profondo, anche se qualche volta ho come l’impressione che questo ottimismo sia, in verità, un espediente, forse di radice inconscia, per continuare a vivere più serenamente. Quindi, al di là di tutto, sono portato a vedere in una prospettiva positiva anche quello che è lo sviluppo del cinema italiano attuale e a mettere l’accento soprattutto sulle cose valide, ai diversi livelli generazionali. Certo, non vedo in questo percorso, però, le punte altissime dei decenni passati”. Noi incalziamo dicendo che in fondo quegli esordi avevano una garanzia, anche industriale, che oggi non esiste più. Quei nomi, riferiti all’epoca del debutto di Ugo Gregoretti, che il tempo confermerà certamente uno più importante dell’altro, hanno avuto l’opportunità di fare anche un secondo film, che, anche se sbagliato (un esempio in questo senso potrebbe essere Marco Bellocchio), non ha interdetto la possibilità di farne un terzo, un quarto e un quinto. Cioè quello che riesce impossibile oggi. Se oggi un autore sbaglia il primo film o il secondo, è difficile, se non impossibile, arrivare al terzo. Il mercato ti respinge inesorabilmente. Ugo Gregoretti ha in questo senso un’altra risposta: “In fondo oggi il cinema non è più visto come una sorta di fata Morgana, quasi inarrivabile; la quantità di giovani determinati a fare cinema è smisuratamente cresciuta rispetto a quei tempi, forse perchè è cresciuta, quasi di pari passo, anche l’opportunità generale di fare cinema. Basti pensare all’uso del telefonino, ad esempio, alla nuova tecnica del digitale, alla televisione che con le sue fiction dà modo di esprimersi a molti, presumibilmente, talenti”.
Ugo Gregoretti è un regista dalla filmografia non particolarmente capiente. Tra i suoi lungometraggi, essenzialmente di fiction, possiamo segnalarne solo una mezza dozzina: I nuovi angeli (1961) Ro.Go.Pa.G (1963), Le più belle truffe del mondo (1963), Omicron (1963), Le belle famiglie (1964), Maggio musicale (1989), un film tanto amato, interpretato dallo splendido attore Malcolm McDowell. In seguito sarà appunto il genere del documentario la forma scelta dal regista per esprimersi nel suo cinema.
Il suo esordio, frutto anche di un preciso intuito del produttore Alfredo Bini è, appunto, il film I nuovi angeli. La pellicola nasceva dalle inchieste giornalistiche sulla gioventù italiana negli anni dl boom, realizzate dal giornalista Mino Guerrini, colui che sarà in futuro anche un regista cinematografico. Questo esordio sarà un successo, ed il produttore Bini lo vanterà per parecchio tempo, tale da incoraggiare il giovane Gregoretti a proseguire sulla strada del cinema, lui che era già un affermato regista di documentari e di inchieste televisive, come ad esempio La Sicilia del Gattopardo, e di trasmissioni giornalistiche realizzate per la televisione come Controfagotto (1961), che in realtà era, per i tempi, sicuramente un’innovativa ed anticonformista, tutto sommato, rubrica di costume.
Dopo Gregoretti, forse, solo Renzo Arbore, su certi temi, riuscirà a mantenere in televisione certi livelli intellettivi . Dice Gregoretti: “In verità in quegli anni volevo fare assolutamente cinema e il successo anche internazionale del mio primo film mi incoraggiava alquanto a proseguire”. Continua Gregoretti: “Ho portato nella mia prima esperienza cinematografica la grande voglia che avevo di fare cinema con lo stesso metodo che avevo adottato fino a quel momento, cioè usando come attori i personaggi reali che avevo incontrato nel lavoro di giornalista televisivo. Ero effettivamente convinto, per questo, che il mio passato televisivo era già essenzialmente cinema”. E l’esperienza successiva fu per Gregoretti una esperienza sicuramente da manuale. “Subito dopo si presentò una esperienza importante” dice Gregoretti “mentore del progetto era Roberto Rossellini”. Il film, realizzato ad episodi, si chiamava Ro.Go.Pa.G, dalle iniziali dei registi impegnati, Roberto Rossellini, Jean Luc Godard, Pier Paolo Pasolini, Ugo Gregoretti. L’episodio di Gregoretti, Il pollo ruspante (insieme a quello, famosissimo e contestatissimo, di Pasolini, La ricotta), realizzato secondo i canoni della migliore commedia all’italiana, sarà ricordato come il momento più autentico e sincero di un film complesso e difficile.
“L’idea del film” dice Gregoretti “ era di soffermarsi, secondo le nostre intuizioni, sul condizionamento profondo che la società dei consumi avrebbe alla fine comportato sugli individui”. Continua Gregoretti: “Questo film fu importantissimo per me proprio per il rapporto di profonda simpatia e di relazioni che si riuscì a stabilire con Rossellini e Pasolini”. Con Omicron, invece le cose presero un percorso diverso. Dice infatti Gregoretti: “Omicron era un film sulla fabbrica, anzi sulla Fiat. La base era assolutamente documentaria, un’inchiesta del giornalista Giovanni Carocci uscita sulla rivista Nuovi Argomenti. Di supporto all’inchiesta di Carocci avevo organizzato, sui temi del lavoro, un incontro con alcuni giovani redattori di Ombre Rosse, come Fofi e Soavi. Omicron non raggiunse il successo sperato perché, in realtà, il film non fu capito. Il film fu riabilitato, in qualche maniera, solo dopo il sessantotto, grazie alle grandi lotte degli operai e degli studenti. Ricordo che anche a sinistra c’erano state forti resistenze quando il film uscì. Forse perché Omicron trattava la fabbrica con toni fortemente umoristici”. Infatti Ugo Gregoretti è stato pure il regista che ha diretto anche il fenomeno comico Totò. Il film si chiamava Le belle famiglie. Dice Gregoretti: “Le belle famiglie era, almeno così lo avevo vissuto, un tentativo per risalire un pò la china sul versante economico dopo il completo insuccesso di Omicron. Invece così non è stato perché, anche Le belle famiglie, nonostante fu pensato molto a tavolino proprio per andare incontro alle esigenze che chiedeva il pubblico, non ebbe successo. Mi fu affiancato per raggiungere il risultato, in sede di sceneggiatura, persino Steno, esperto proprio nel soddisfare appieno il gusto del pubblico, ma la cosa non ha funzionato lo stesso. Sono andato quindi, pesantemente, incontro ad un nuovo insuccesso. Ma devo dire, però, che su di me è sempre pesata l’ascia di essere stato un regista cinematografico che veniva dal mondo della televisione. A quei tempi non c’era assolutamente alcun rapporto tra le due discipline, anzi…”.
“L’idea del film” dice Gregoretti “ era di soffermarsi, secondo le nostre intuizioni, sul condizionamento profondo che la società dei consumi avrebbe alla fine comportato sugli individui”. Continua Gregoretti: “Questo film fu importantissimo per me proprio per il rapporto di profonda simpatia e di relazioni che si riuscì a stabilire con Rossellini e Pasolini”. Con Omicron, invece le cose presero un percorso diverso. Dice infatti Gregoretti: “Omicron era un film sulla fabbrica, anzi sulla Fiat. La base era assolutamente documentaria, un’inchiesta del giornalista Giovanni Carocci uscita sulla rivista Nuovi Argomenti. Di supporto all’inchiesta di Carocci avevo organizzato, sui temi del lavoro, un incontro con alcuni giovani redattori di Ombre Rosse, come Fofi e Soavi. Omicron non raggiunse il successo sperato perché, in realtà, il film non fu capito. Il film fu riabilitato, in qualche maniera, solo dopo il sessantotto, grazie alle grandi lotte degli operai e degli studenti. Ricordo che anche a sinistra c’erano state forti resistenze quando il film uscì. Forse perché Omicron trattava la fabbrica con toni fortemente umoristici”. Infatti Ugo Gregoretti è stato pure il regista che ha diretto anche il fenomeno comico Totò. Il film si chiamava Le belle famiglie. Dice Gregoretti: “Le belle famiglie era, almeno così lo avevo vissuto, un tentativo per risalire un pò la china sul versante economico dopo il completo insuccesso di Omicron. Invece così non è stato perché, anche Le belle famiglie, nonostante fu pensato molto a tavolino proprio per andare incontro alle esigenze che chiedeva il pubblico, non ebbe successo. Mi fu affiancato per raggiungere il risultato, in sede di sceneggiatura, persino Steno, esperto proprio nel soddisfare appieno il gusto del pubblico, ma la cosa non ha funzionato lo stesso. Sono andato quindi, pesantemente, incontro ad un nuovo insuccesso. Ma devo dire, però, che su di me è sempre pesata l’ascia di essere stato un regista cinematografico che veniva dal mondo della televisione. A quei tempi non c’era assolutamente alcun rapporto tra le due discipline, anzi…”.
Ugo Gregoretti, comunque, resterà importante, soprattutto per le generazioni più giovani, negli anni che andranno sino alla metà dei settanta, per un film documentario tra i più utili girati nel decennio, quel Vietnam, scene del dopoguerra (1975), che il regista girerà in concomitanza con l’ex direttore dell’Unità, il giornalista Romano Ledda. In molti, alla fine della proiezione nei circuiti d’essai, molto in voga in quel periodo, si resero conto di una cosa semplicissima, ma che per anni era sfuggita quasi a tutti: mentre tutti noi avevamo vissuto, bene o male poco importa, già trent’anni di pace e di democrazia, il popolo vietnamita, invece, usciva da trent’anni di guerra sanguinaria. E cosa mostrava, di così autentico, quel film? Semplicemente un popolo che non si piangeva addosso, ma neppure esultava, però scopriva, finalmente, che poteva cercare e trovare la giusta quiete e la pace. Soprattutto si rendeva conto che non era un popolo finito in poltiglia. Vietnam, scene del dopoguerra è stata davvero una visione importantissima e di grande maturità. Ci sarebbe potuto essere ancora un futuro per il cinema di Ugo Gregoretti. La sua autobiografia, raccolta nel libro Finale aperto, era già un trattamento cinematografico raccolto dallo sceneggiatore Girgio Arlorio. È successo, però, che la Commissione che assegna i fondi pubblici per lo spettacolo (oggi senza questo finanziamento elargito dallo Stato è quasi impensabile montare un film) ha ignorato questa proposta presentata dalla produttrice Grazia Volpi. La motivazione ufficiale del Ministero è stata che “i pochi fondi disponibili per lo spettacolo cinematografico sono assegnati per sviluppare sceneggiature di autori più giovani”.
Giovanni Berardi
http://www.taxidrivers.it/24612/rubriche/ugo-gregoretti-vagabondando-nelle-diverse-forme-di-spettacolo.html
Giovanni Berardi
http://www.taxidrivers.it/24612/rubriche/ugo-gregoretti-vagabondando-nelle-diverse-forme-di-spettacolo.html
Critica:
Scriveva Guglielmo Biraghi:" [..] Ma nel complesso il film è divertente ed efficace, riuscendo appieno Gregoretti nei suoi agrodolci intenti sarcastici. generalmente buoni anche i molti interpreti, diversi da episodio a episodio. Ricordiamo Totò, spassosissimo nei panni del marito arteriosclerotico [..]".
Nell'ambito di un film ad episodi, tutti firmati dallo stesso regista Ugo Gregoretti, che si proponeva di illustrare in tono ironico-satirico la patologia della famiglia italiana a metà degli anni '60, questo "Amare è un po' morire" ha il sapore della commedia a sfondo farzesco-pochadistico, centrata su una nevrosi e tre vittime. Il personaggio interpretato da Totò rientra nello schema che abbiamo chiamato dell' "eroe borghese", ossia con quei tratti realistici su cui vanno a sovrapporsi gli apporti recitativi in chiave comica, farsesca, caricaturale e grottesca, per cui vediamo contemporaneamente un centro profondamente umano e realistico su cui si sovrappone l'evidente stilizzazione del carattere. Filiberto Comanducci, l'anziano e arteriosclerotico capitano d'industria interpretato da de Curtis, che richiama vagamente il "tipo" Antonio La Trippa de "Gli onorevoli" e Antonio Cavalli de "Il Comandante", è risolto con una recitazione mai esagerata, che, proprio per questo, raggiunge i più convincenti risultati, strizzando l'occhio, in caricatura, a quelle figure vere che andavano costruendo i cosiddetti "poteri forti" nell'Italia del boom.
La caricatura intelligente di Gregoretti però trova un suo pendant narrativo nella nevrosi della moglie Esmeralda (un'efficace Sandra Milo} con il complesso della crocerossina, che ama solo uomini malati perchè può accudirli con tutte le attenzioni possibili: analisi a vista delle urine; la misurazione della temperatura basale e altre più intime perlustrazioni del corpo. Gregoretti parlando di questa nevrosi ci fa riflettere sulle patologie dei "potenti" e, di riflesso, sulla crisi più generale della famiglia. Si vedano in proposito gli altri due episodi più significativi del film, quali "Il principe azzurro" e "Il bastardo della regina", dove la satira si fa ancora più amara e profonda.
Ovviamente nell'episodio "Amare è un po' morire", la struttura narrativa e l'idea di fondo è molto precisa, costringendo la recitazione di Totò ad articolarsi e ad esprimersi prevalentemente nell'ambito del carattere, ma non mancano risvolti che suscitano persino una autentica pena pur rimanendo nell'ambito della dichiarata caricatura. Si tratta di una commedia di "carattere", dove anche gli altri personaggi, la moglie Esmeralda, l'amante della moglie, il marchese Osvaldo (Jean Rochefort), che vive solo per i suoi cavalli e il medico curante di entrambi, il professor La Porta (Adolfo Celi) sono evidenti caratteri inseriti in una struttura che probabilmente al suo nascere doveva essere stata pensata per il teatro.
Totò è comunque divertente nel ruolo dell'arteriosclerotico, riuscendo anche ad esprimere tratti umani di malinconico compatimento, con un volto ormai appesantito e una recitazione consumata, su cui si sono ormai sedimentati decenni di esperienza, che lo portano a raggiungere il risultato perfetto di una clownerie di tipo realistico o di un realismo comico. Esilaranti alcune trovate, tra cui quella del camion che, nella sua elaborazione fantastica, entra nella stanza o le telefonate demenziali o l'autoconvincimento di avere delle visioni quando invece vede la realtà oggettiva.
http://www.antoniodecurtis.org/famiglie.htm
http://www.antoniodecurtis.org/famiglie.htm
Totò visto da: Ugo Gregoretti
Sono riuscito a fargli fare solo un episodio de Le belle famiglie. Prima che morisse, volevo fargli fare un personaggio nel Circolo Pickwick, il sindaco Nupkins, un magistrato che amministra la giustizia in modo un pò arbitrario, che fu interpretato invece da Buazzelli. Quando cominciai Le belle famiglie lo andai a trovare per proporgli la parte.
Mi prese in simpatia perchè sapeva che mia moglie apparteneva a un'antica famiglia napoletana. Io per soprammercato gli dimostrai che anche mia madre veniva da una famiglia titolata e allora diventammo amici. Durante la lavorazione alcuni collaboratori lo chiamavano principe, altezza, e durante la pausa gli preparavano un "dejeneur sur l'herbe". Quando mi avvicinavo mentre stava mangiando con le posate d'argento mi diceva, ci davamo ancora del lei, "Vuol favorire un poperuolo"?
Veniva a lavorare tardi, mai prima delle 11.00 - 11,30 e, pur essendo quasi completamente privo della vista, si muoveva sul set con sicurezza, aveva una specie di antenna per cui non sbagliava mai il posto.
Al doppiaggio (anche se avevano cercato di fare il più possibile in diretta) non vedeva le immagini sullo schermo e allora doppiava voltando lo sguardo alle immagini, seguendo la cuffia la colonna guida, però siccome questo gli costava fatica, avevamo cercato di fare la colonna sonora per la massima parte pulita.
Il film fu accolto molto male, con eccessiva severità, secondo me. Totò faceva la parte di un industriale, un uomo ricco che aveva dei momenti di amnesia, e credeva di stare in qualche altro posto.
Andando in bicicletta, nella ciclette in palestra, aveva delle allucinazioni e gli sembrava di essere investito da un comò, e allora telefonava alle assicurazioni. Un particolare: Totò fu molto impressionato dai funerali di Togliatti e arrivò sul set con un'espressione molto preoccupata; "Ugo, ho visto una marea di bandiere rosse, chissà dove andremo a finire", ma io lo tranquillizzai dicendo che non c'era da preoccuparsi.
http://www.antoniodecurtis.org/ugo_gregoretti.htm
Mi prese in simpatia perchè sapeva che mia moglie apparteneva a un'antica famiglia napoletana. Io per soprammercato gli dimostrai che anche mia madre veniva da una famiglia titolata e allora diventammo amici. Durante la lavorazione alcuni collaboratori lo chiamavano principe, altezza, e durante la pausa gli preparavano un "dejeneur sur l'herbe". Quando mi avvicinavo mentre stava mangiando con le posate d'argento mi diceva, ci davamo ancora del lei, "Vuol favorire un poperuolo"?
Veniva a lavorare tardi, mai prima delle 11.00 - 11,30 e, pur essendo quasi completamente privo della vista, si muoveva sul set con sicurezza, aveva una specie di antenna per cui non sbagliava mai il posto.
Al doppiaggio (anche se avevano cercato di fare il più possibile in diretta) non vedeva le immagini sullo schermo e allora doppiava voltando lo sguardo alle immagini, seguendo la cuffia la colonna guida, però siccome questo gli costava fatica, avevamo cercato di fare la colonna sonora per la massima parte pulita.
Il film fu accolto molto male, con eccessiva severità, secondo me. Totò faceva la parte di un industriale, un uomo ricco che aveva dei momenti di amnesia, e credeva di stare in qualche altro posto.
Andando in bicicletta, nella ciclette in palestra, aveva delle allucinazioni e gli sembrava di essere investito da un comò, e allora telefonava alle assicurazioni. Un particolare: Totò fu molto impressionato dai funerali di Togliatti e arrivò sul set con un'espressione molto preoccupata; "Ugo, ho visto una marea di bandiere rosse, chissà dove andremo a finire", ma io lo tranquillizzai dicendo che non c'era da preoccuparsi.
http://www.antoniodecurtis.org/ugo_gregoretti.htm
"Amare è un pò morire"
Il regista Ugo Gregoretti, che da poco ha compiuto 80 anni, è uno degli Autori del ‘900 più colti, arguti, originali e intelligenti.
Mai impegnato nel presenzialismo mondano e incapace di seguire altre idee che le proprie, preferendo barattare una popolarità di massa con una carriera ironica e personalissima che è un vero doppio della sua esistenza umana.
Un regista, un Autore così non poteva non incontrare un Attore della levatura di Antonio De Curtis.
Negli anni 50/60 Gregoretti, come molti italiani, vedeva i film recitati dal Principe, nei panni del suo personaggio Totò.
Essendo all’interno di quel mondo della celluloide, ed essendo un regista di alto livello culturale, dietro le quinte aveva compreso una possibilità profonda di espressione assieme ad Antonio De Curtis, attore di raffinata preparazione, capace di gestire i gradi dell’ironia e non solo i tempi della comicità più sfrenata e buffonesca.
Ugo Gregoretti avrebbe voluto continuare la collaborazione con l’Attore oltre il primo film “Le belle famiglie” del 1964, in cui Totò, o meglio, Antonio De Curtis, è presente in uno dei quattro episodi che lo compongono: “Amare è un po’ morire”, assieme ad altri grandi attori: Sandra Milo, Jean Rochefort ed Adolfo Celi.
Questo film purtroppo fu subito stroncato da ingiuste critiche che ne decretarono un fallimento immeritato.
Il film, seguendo la dissacratoria ironia tipica del regista e ben adatta agli interpreti scelti, è un prodotto ancor oggi gradevolissimo e soprattutto, per quasi tutti gli episodi, ancor molto attuale e godibile.
Oggi l’ostacolo sarebbe prevalentemente l’essere stato girato ancora in bianco e nero. L’idea di fondo, illustrata nei quattro episodi, è la lettura ironica di alcuni comportamenti tipici della famiglia in Italia.
Mai impegnato nel presenzialismo mondano e incapace di seguire altre idee che le proprie, preferendo barattare una popolarità di massa con una carriera ironica e personalissima che è un vero doppio della sua esistenza umana.
Un regista, un Autore così non poteva non incontrare un Attore della levatura di Antonio De Curtis.
Negli anni 50/60 Gregoretti, come molti italiani, vedeva i film recitati dal Principe, nei panni del suo personaggio Totò.
Essendo all’interno di quel mondo della celluloide, ed essendo un regista di alto livello culturale, dietro le quinte aveva compreso una possibilità profonda di espressione assieme ad Antonio De Curtis, attore di raffinata preparazione, capace di gestire i gradi dell’ironia e non solo i tempi della comicità più sfrenata e buffonesca.
Ugo Gregoretti avrebbe voluto continuare la collaborazione con l’Attore oltre il primo film “Le belle famiglie” del 1964, in cui Totò, o meglio, Antonio De Curtis, è presente in uno dei quattro episodi che lo compongono: “Amare è un po’ morire”, assieme ad altri grandi attori: Sandra Milo, Jean Rochefort ed Adolfo Celi.
Questo film purtroppo fu subito stroncato da ingiuste critiche che ne decretarono un fallimento immeritato.
Il film, seguendo la dissacratoria ironia tipica del regista e ben adatta agli interpreti scelti, è un prodotto ancor oggi gradevolissimo e soprattutto, per quasi tutti gli episodi, ancor molto attuale e godibile.
Oggi l’ostacolo sarebbe prevalentemente l’essere stato girato ancora in bianco e nero. L’idea di fondo, illustrata nei quattro episodi, è la lettura ironica di alcuni comportamenti tipici della famiglia in Italia.
Il primo episodio, ”Il Principe Azzurro”, vede una giovane Annie Girardot nei panni di una povera ragazza siciliana, vessata dal maschilismo imperante tra le mura di casa.
La ragazza, posta davanti alla scelta: nozze con uomo che ripugna o convento di clausura, obbedendo alle direttive paterne, ma così facendo, destabilizzando per sempre il maschilismo e il ruolo di comando del padre, sceglie la clausura, le cui pratiche e rinunzie le appaiono rosee prospettive al confronto della vita fino ad allora condotta nella casa paterna.
La ragazza, posta davanti alla scelta: nozze con uomo che ripugna o convento di clausura, obbedendo alle direttive paterne, ma così facendo, destabilizzando per sempre il maschilismo e il ruolo di comando del padre, sceglie la clausura, le cui pratiche e rinunzie le appaiono rosee prospettive al confronto della vita fino ad allora condotta nella casa paterna.
Il secondo episodio, interpretato da un Nanni Loy dall’aplomb anglosassone, è bellissimo e verte sui gusti sessuali di una coppia che paiono, alla fine, convergere sull’esotismo di un cameriere vietnamita “Bastardo della Regina”.
Il terzo episodio: “La Cernia” traccia un graffiante confronto tra una coppia nostrana e una di altissimi teutonici. Dall’analisi emerge la piccolezza dell’ideale del maschio italiano che non è neppure la conquista, quanto, piuttosto, il fare “becco” ‘altro, non essendo in grado di accettare l’alternanza delle “corna” nel gioco dei tradimenti, che, nella sua trionfante ignoranza, crede di essere l’unico a saper condurre.
Infine il quarto episodio, “Amare è un po’ morire”, il più forte, soprattutto per la tematica dissacrante, tutta impersonata in una Sandra Milo appropriatissima in un ruolo di moglie/amante per lei inedito nella chiave assistenzialistica in cui è proposto.
In questo episodio Gregoretti ha individuato Antonio De Curtis per interpretare il protagonista, Filiberto Comanducci, marito di Esmeralda, Sandra Milo. Un ruolo che, tanto per la malattia arteriosclerotica, quanto per la situazione di uomo tradito, avrebbe potuto, con facilità, divenire una macchietta delle più ridanciane e volgari.
L’attore ha saputo invece comprendere le intenzioni del regista, che gli offriva uno dei ruoli migliori di quanti gliene proponessero in quegli anni.
I ricordi di Gregoretti ci fanno subito capire come andò. Il regista, che conosceva personalmente l’attore, gli aveva accennato a questo ruolo, ottenendone da subito un diniego.
Gregoretti, sicuro di volere quell’attore, attuò allora una strategia: ottenere l’assenso dell’Attore alla partecipazione al film come favore tra pari appartenenti ad una medesima koinè cultural/aristocratica, percorrendo una via particolarmente attraente per l’attore.
Pertanto, trovandosi invitato a casa De Curtis, dove era sempre ben accolto anche per essere sua moglie appartenente ad una nobile e antica famiglia, durante la conversazione lasciò casualmente “cadere” alcuni particolari che evidenziavano come anche la propria madre aveva analoghe nobili ascendenze.
Dato all’Attore il tempo di digerire, e verificare, con testi araldici della sua biblioteca, la veridicità di tali informazioni, la conversazione riprese veleggiando liberamente verso un accordo per la partecipazione del Principe alla pellicola, ormai vista come una cortesia tra aristocratici.
L’interpretazione di Antonio De Curtis in questo film è bellissima, senza gli “abiti da lavoro” del suo personaggio Totò, il Principe ci mostra il suo viso bello e intelligente che, con misura, come un attore anglosassone sulle tavole dell’Old Vic, tratteggia finemente e con una surreale ironia, priva di equivoci o doppi sensi, un ruolo maschile, che avrebbe potuto con facilità trasformarsi in un “Cocù” da vaudeville, dandogli invece una caratura lunare e un pallore che lo rendono ancor oggi fresco e attuale.
La descrizione dell’incidente occorso a Filiberto in sella alla sua cyclette, investito da un comò è degno di Alec Guiness agente del controspionaggio britannico, che disegna piani di armi segrete copiando il libretto d’istruzione dell’aspirapolvere.
Si sente la presenza di Gregoretti, ma il Principe, che ha fatto suo il punto di vista della regia, agisce in tutto e per tutto in piena autonomia.
Ricorda ancora Gregoretti che l’attore arrivava sul set non prima delle 11,30, attorniato da camerieri e assistenti che gli stavano intorno chiamandolo “Principe” o “Altezza”. Totò era già praticamente cieco, aveva perso la vista ad un occhio fin dal 1938 e nel 1957, a Palermo, in tourneè aveva avuto la prima avvisaglia della malattia che in breve lo avrebbe reso cieco. Di questa grave sofferenza erano a conoscenza poche persone.
La testimonianza di Gregoretti è precisa; il Principe giungeva accompagnato da persone di fiducia sul set. Ascoltava ciò che accadeva attorno a lui e, chiamato in scena, vi entrava perfettamente ”Come se avesse un radar a guidarlo”.
Questo set fu particolarmente diversificatio nei luoghi di azione e l’Attore si faceva approntare dei veri e propri Pic-Nic, nelle pause della lavorazione, aristocraticamente gestiti dal personale che lo accompagnava e che gli serviva raffinati spuntini con porcellane e posate. Spesso, ricorda Gregoretti, che con signorilità il Principe lo chiamava e gli offriva un goloso boccone dicendo: “gradite un puparuolo?”.
“Amare è un po’ morire” narra di Esmeralda che si divide tra l’assistenza al marito, sofferente di attacchi di arteriosclerosi, e quella prodigata all’amante, Osvaldo, affetto da problemi urinari.
La donna conserva in un cofanetto chiuso a chiave, non le lettere d’amore di Filiberto e di Osvaldo, ma bensì le ricette dei medicinali di cui essa è dispensatrice.
Per svagare i suoi uomini sofferenti, li porta in campagna; ma al posto del cestino con i cibi fa scorta in farmacia di specialità e, addirittura, di una nuovissima siringa a pistola, costosa ma infallibile!
Ma, improvvisamente, ambedue gli ammalati, guariscono.
Esmeralda accusa pesantemente il colpo e assimila le guarigioni come tradimenti amorosi che tenta di superare ubriacandosi. Filiberto e Osvaldo, coalizzati dal comune affetto per la donna, chiamano nuovamente il Professor La Porta, il “loro” medico, interpretato da Adolfo Celi.
Questi, già respinto da Esmeralda poiché perfettamente sano, allontanandosi bruscamente, poiché nuovamente respinto, rimane vittima di un gravissimo incidente; Esmeralda richiamata da questo evento vive così un nuovo amore, sicuro, poiché le menomazioni del professore non sono passibili di guarigioni.
Questi 35 minuti di pellicola non possono essere trascurati dagli appassionati del Principe, che hanno in quest’episodio la possibilità di godere l’Attore amato in una bella interpretazione che ci lascia orfani di una produzione cinematografica del Principe che avrebbe potuto essere e che non è stata.
Gregoretti medesimo pensava ancora al Principe per uno dei personaggi del circolo Pickwik che poi affidò, dopo la morte di Totò, a Tino Buazzelli.
Non possiamo ancora una volta che dispiacerci , così come Franca Faldini ha ricordato, che la morte abbia colto il Principe prima che potesse interpretare, diretto da Pier Paolo Pasolini, un film totalmente muto, basato solo sulla comunicazione dell’espressività del volto e del corpo dell’Attore.
Emanuela Catalano, Firenze 6 Marzo 2011
Copyrigth artemanuela.it 2011
http://www.antoniodecurtis.org/antonio_de_curtis_e_ugo_gregoretti.htm
In questo episodio Gregoretti ha individuato Antonio De Curtis per interpretare il protagonista, Filiberto Comanducci, marito di Esmeralda, Sandra Milo. Un ruolo che, tanto per la malattia arteriosclerotica, quanto per la situazione di uomo tradito, avrebbe potuto, con facilità, divenire una macchietta delle più ridanciane e volgari.
L’attore ha saputo invece comprendere le intenzioni del regista, che gli offriva uno dei ruoli migliori di quanti gliene proponessero in quegli anni.
I ricordi di Gregoretti ci fanno subito capire come andò. Il regista, che conosceva personalmente l’attore, gli aveva accennato a questo ruolo, ottenendone da subito un diniego.
Gregoretti, sicuro di volere quell’attore, attuò allora una strategia: ottenere l’assenso dell’Attore alla partecipazione al film come favore tra pari appartenenti ad una medesima koinè cultural/aristocratica, percorrendo una via particolarmente attraente per l’attore.
Pertanto, trovandosi invitato a casa De Curtis, dove era sempre ben accolto anche per essere sua moglie appartenente ad una nobile e antica famiglia, durante la conversazione lasciò casualmente “cadere” alcuni particolari che evidenziavano come anche la propria madre aveva analoghe nobili ascendenze.
Dato all’Attore il tempo di digerire, e verificare, con testi araldici della sua biblioteca, la veridicità di tali informazioni, la conversazione riprese veleggiando liberamente verso un accordo per la partecipazione del Principe alla pellicola, ormai vista come una cortesia tra aristocratici.
L’interpretazione di Antonio De Curtis in questo film è bellissima, senza gli “abiti da lavoro” del suo personaggio Totò, il Principe ci mostra il suo viso bello e intelligente che, con misura, come un attore anglosassone sulle tavole dell’Old Vic, tratteggia finemente e con una surreale ironia, priva di equivoci o doppi sensi, un ruolo maschile, che avrebbe potuto con facilità trasformarsi in un “Cocù” da vaudeville, dandogli invece una caratura lunare e un pallore che lo rendono ancor oggi fresco e attuale.
La descrizione dell’incidente occorso a Filiberto in sella alla sua cyclette, investito da un comò è degno di Alec Guiness agente del controspionaggio britannico, che disegna piani di armi segrete copiando il libretto d’istruzione dell’aspirapolvere.
Si sente la presenza di Gregoretti, ma il Principe, che ha fatto suo il punto di vista della regia, agisce in tutto e per tutto in piena autonomia.
Ricorda ancora Gregoretti che l’attore arrivava sul set non prima delle 11,30, attorniato da camerieri e assistenti che gli stavano intorno chiamandolo “Principe” o “Altezza”. Totò era già praticamente cieco, aveva perso la vista ad un occhio fin dal 1938 e nel 1957, a Palermo, in tourneè aveva avuto la prima avvisaglia della malattia che in breve lo avrebbe reso cieco. Di questa grave sofferenza erano a conoscenza poche persone.
La testimonianza di Gregoretti è precisa; il Principe giungeva accompagnato da persone di fiducia sul set. Ascoltava ciò che accadeva attorno a lui e, chiamato in scena, vi entrava perfettamente ”Come se avesse un radar a guidarlo”.
Questo set fu particolarmente diversificatio nei luoghi di azione e l’Attore si faceva approntare dei veri e propri Pic-Nic, nelle pause della lavorazione, aristocraticamente gestiti dal personale che lo accompagnava e che gli serviva raffinati spuntini con porcellane e posate. Spesso, ricorda Gregoretti, che con signorilità il Principe lo chiamava e gli offriva un goloso boccone dicendo: “gradite un puparuolo?”.
“Amare è un po’ morire” narra di Esmeralda che si divide tra l’assistenza al marito, sofferente di attacchi di arteriosclerosi, e quella prodigata all’amante, Osvaldo, affetto da problemi urinari.
La donna conserva in un cofanetto chiuso a chiave, non le lettere d’amore di Filiberto e di Osvaldo, ma bensì le ricette dei medicinali di cui essa è dispensatrice.
Per svagare i suoi uomini sofferenti, li porta in campagna; ma al posto del cestino con i cibi fa scorta in farmacia di specialità e, addirittura, di una nuovissima siringa a pistola, costosa ma infallibile!
Ma, improvvisamente, ambedue gli ammalati, guariscono.
Esmeralda accusa pesantemente il colpo e assimila le guarigioni come tradimenti amorosi che tenta di superare ubriacandosi. Filiberto e Osvaldo, coalizzati dal comune affetto per la donna, chiamano nuovamente il Professor La Porta, il “loro” medico, interpretato da Adolfo Celi.
Questi, già respinto da Esmeralda poiché perfettamente sano, allontanandosi bruscamente, poiché nuovamente respinto, rimane vittima di un gravissimo incidente; Esmeralda richiamata da questo evento vive così un nuovo amore, sicuro, poiché le menomazioni del professore non sono passibili di guarigioni.
Questi 35 minuti di pellicola non possono essere trascurati dagli appassionati del Principe, che hanno in quest’episodio la possibilità di godere l’Attore amato in una bella interpretazione che ci lascia orfani di una produzione cinematografica del Principe che avrebbe potuto essere e che non è stata.
Gregoretti medesimo pensava ancora al Principe per uno dei personaggi del circolo Pickwik che poi affidò, dopo la morte di Totò, a Tino Buazzelli.
Non possiamo ancora una volta che dispiacerci , così come Franca Faldini ha ricordato, che la morte abbia colto il Principe prima che potesse interpretare, diretto da Pier Paolo Pasolini, un film totalmente muto, basato solo sulla comunicazione dell’espressività del volto e del corpo dell’Attore.
Emanuela Catalano, Firenze 6 Marzo 2011
Copyrigth artemanuela.it 2011
http://www.antoniodecurtis.org/antonio_de_curtis_e_ugo_gregoretti.htm
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