TÍTULO ORIGINAL Anna
AÑO 1951
IDIOMA Italiano
SUBTÍTULOS Español (Separados)
DURACIÓN 111 min.
PAÍS Italia
DIRECCIÓN Alberto Lattuada
GUIÓN Dino Risi, Rodolfo Sonego, Giuseppe Berto, Franco Bursati, Ivo Perilli
MÚSICA Nino Rota
FOTOGRAFÍA Otello Martelli
REPARTO Silvana Mangano, Vittorio Gassman, Raf Vallone, Jacques Dumesnil, Gaby Morlay, Sophia Loren
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia;
GÉNERO Drama | Religión
Sinopsis
Anna es una novicia a punto de profesar. La llegada al hospital donde trabaja de un antiguo novio, herido en un accidente, suscitará en ella un serio conflicto personal. (FILMAFFINITY)
*Cinema e società
L’abusato accostamento dei due termini solleva un tasso di problematicità che necessita, inevitabilmente, di una distinzione preliminare. Qualunque sia il periodo preso in esame, la trattazione che ne deriva varia a seconda che si punti l’attenzione sul primo dato o sul secondo, distinguendo pertanto il cinema nato e prodotto dai mutamenti sociali, da quell’influenza “climatica” esercitata dalla società stessa sulla settima arte. Nel caso degli anni Cinquanta, tuttavia, il discorso non può prescindere da un’intersezione tra i due piani, giacché ogni ripartizione netta mal si addice allo studio di un’epoca di transizione totale.
*L’Italia del dopoguerra è un paese attraversato da contraddizioni imponenti, sospeso tra le rovine da raccogliere e l’avvio di quello che sarà ribattezzato enfaticamente “miracolo economico”.
Le fratture che ne compongono l’identità determinano solchi profondi, il divario tra nord e sud viaggia di pari passo con la forbice – nei decenni successivi insopportabile – tra paese reale e paese legale. Nel mezzo l’analfabetismo, l’abbandono delle campagne, il corpo delle donne come oggetto di possesso e campo d’analisi ancora in nuce. In tale contesto, il cinema si pone come la forma di spettacolo più diffusa, la sola in grado di soddisfare l’anima impegnata del paese e la sua controparte popolare, chiamate a interagire lungo un tracciato dai contorni sfumati in cui neorealismo e melò comunicano a vicenda. È proprio quest’ultimo genere a racchiudere in sé i tratti caratteristici di una società instabile, la sua fame di storie drammatiche e il bisogno di esorcizzare, attraverso le lacrime per gli altri, i propri problemi.
*Il melò cinematografico è un collettore di spinte d’agitazione e forme narrative.
La sua natura di «genere fantasma» lo rende perfetto crocevia di espressioni artistiche, un ponte sospeso tra il passato della sceneggiata e del dramma e il futuro dell’incomunicabilità, della decostruzione totale. Comprendere ciò che si agita al suo interno, dietro e attraverso l’espediente delle lacrime, consente la ri-scoperta dei caratteri di un’epoca, esercizio quanto più necessario se compiuto col senno di poi, alla luce delle conquiste dei decenni successivi. Quello melò, come ricorda opportunamente Morreale, è non a caso il cinema in cui “trionfano” – perlomeno a livello di presenza – le figure femminili.
*Grandi dive, personaggi indimenticabili
Le donne sullo schermo si fanno portatrici del nuovo rapporto tra famiglie e media, innescando al contempo meccanismi di messa in rilievo delle contraddizioni del privato, spazio di un ripiegamento imposto e interiorizzato. Da una fase di partecipazione come quella resistenziale, in cui al «maternage di massa» si univa un’ormai attestata opera di azione in armi, la donna subisce un ritorno al passato di marca prefascista, in cui si annidano tuttavia i germi di quanto esploderà col movimento femminista. È questo tipo di figura che il melò pone al centro, traendo spunto da una stereotipia che pesca nella cultura popolare e di massa per essere poi stravolta, con incredibile lucidità, da registi già proiettati verso forme e problematiche future.
Tra questi vi è Alberto Lattuada, autore di smisurato talento che nel 1951 dà vita a un «memorabile polpettone erotico-religioso» incentrato sulla figura di Silvana Mangano: Anna.
Forte del successo di Riso amaro (1949), la pellicola prodotta da Ponti ripropone uno schema rodato e riconoscibile, vera e propria carezza per il pubblico medio. Alla Mangano-eroina fanno da contorno, come figurine sullo sfondo, il farabutto Vittorio Gassman e il buono Raf Vallone. Il trattamento che spetta alla diva, tuttavia, è funzionale alla costruzione di un personaggio che incarni le contraddizioni di un’intera società e del modello di donna che ne è espressione, annullata su un ruolo materno che ne definisce i compiti in ambito domestico ed extra.
Il lavoro di cura ad essa connaturato si esplicita nella scelta di lavori che reiterano il mestiere di madre, secondo l’idea «di un’italica unità familiare (e sociale) faticosamente raggiunta».
Così, prima che il movimento delle donne cominci a discuterne, Lattuada fa della sua Anna una suora-infermiera, emblema pieno e concreto della dedizione verso il prossimo. Le convenzioni del melodramma ci sono tutte, dall’elemento cattolico all’ambientazione contemporanea sino al drammatico, inevitabile, atto di sacrificio finale: la rinuncia all’amore in nome di un dovere superiore. Proprio la conclusione, tuttavia, segna il punto di rottura operato da Lattuada, il lavoro di sagace smontaggio critico del melò. La sua manipolazione è da ascriversi a un desiderio di riflessione sul rapporto tra i sessi, operazione pienamente realizzabile, nel suo obiettivo finale, proprio grazie al repertorio narrativo del genere più in grado di parlare al pubblico.
La conclusione, dunque, è la porta d’accesso un immaginario su cui si discuterà per decenni.
Anna, rincontrato in ospedale il lontano amore Andrea (Vallone), lo lascerà di nuovo andare per occuparsi dei malati. Il discorso del professor Ferri (Jacques Dumesnil), primario dell’ospedale, serve proprio a racchiudere il destino della donna entro il perimetro di uno spazio già dato, quello del dovere verso gli altri a scapito di se stessa. In tal senso, la scelta di affidare tale monito alla parola maschile si accompagna al deciso aspetto claustrofobico conferito all’ospedale. Attraverso un bianco accecante e un nero nettissimo, Lattuada definisce i contorni di figure schiacciate, quasi appiattite su un ambiente asettico che ha le sue regole, i suoi orari – sottratto al ritmo, dunque, di una vita normale.
La sensazione di clausura appare ancor più netta se letta alla luce del flashback che narra il passato di Anna come signorina di night-club, in cui lo schermo nero di ombre e musica sembra richiamare alla mente un mondo perduto, ormai da allontanare.
La natura “doppia” della protagonista – donna divisa, interiormente scissa come i migliori soggetti borghesi degli anni a venire – è risolta da Lattuada nell’indelebile e ineludibile marchio della «prigioniera». Ancorata al dovere, prigioniera del suo ruolo di madre, Anna non può che ritrovare unità soltanto attraverso la rinuncia al suo corpo, alla sua individualità, all’erotismo stemperato dal velo da suora. È un terreno d’analisi su cui si ragionerà per decenni, lasciando purtroppo spazio a reflussi, inevitabili come le ondate storiche. Il film di Lattuada ha dalla sua il merito di aver trattato il tema con vocazione nazionale-popolare, attingendo al repertorio del classico per intercettare le future coscienze. E in questo, nonostante le riserve di molti, resta senz’altro un maestro assoluto.
*Tre motivi per vedere il film
La celebre scena della Mangano che balla sulle note di El Negro Zumbon.
L’impatto visivo costruito da Lattuada, con blocchi cromatici nettamente definiti.
Il cameo dell’allora esordiente Sophia Loren, accreditata come Sofia Lazzaro
https://www.culturamente.it/cinema/anna-alberto-lattuada/
La Lux Film, dopo l’inatteso trionfo di Riso amaro, mette in cantiere Anna (dicembre 1951; 108 min.), film fotocopia nel quale però si eliminano le delicate questioni sociopolitiche, sostituendole con un encomio per l’universo del volontariato caritatevole di marca cattolica. La regia viene affidata a Lattuada, reduce dal fiasco di Luci del varietà (vedi), gli sceneggiatori (Giuseppe Berto, Franco Brusati, Rodolfo Sonego e altri) sono differenti (con l’eccezione di Ivo Perilli) mentre la fotografia è sempre curata da Otello Martelli e il montaggio da Gabriele Varriale. Ciò che conta è che al centro della narrazione ritroviamo il triangolo Gassman – Mangano – Vallone animato da dinamiche emotive sostanzialmente identiche a quelle del film di De Santis.
La cantante di tabarin Anna è anche l’amante del perfido Vittorio (Gassman), piccolo malvivente che bazzica il night e al cui fascino non riesce a sottrarsi, neppure quando l’onesto Andrea (Raf Vallone) la chiede in sposa. Anna lotta con se stessa, riesce infine a lasciare il torbido universo dei locali notturni milanesi e si rifugia nella casa di campagna del fidanzato. Qui però la raggiunge Vittorio il quale viene immediatamente scoperto da Andrea: i due uomini lottano e il malvivente rimane ucciso (come in Riso amaro, anche se ora ad ucciderlo è Vallone e non la Mangano). Tutto parrebbe sistemato senonché – con una pessima trovata di sceneggiatura - Andrea caccia la fidanzata la quale, disperata, si fa suora. La cornice del film (il racconto avviene in flashback) è appunto quella dell’intensa vita ospedaliera di Niguarda (Milano) nella quale suor Anna si è compiutamente riscattata ed ha trovato la propria giusta dimensione. Nel finale – nonostante le pressioni di Andrea – la donna rimane tra i suoi malati.
Lattuada contrappone con efficacia le geometrie luminose e asettiche dell’ospedale milanese (recente costruzione del regime mussoliniano) con i toni scuri, contrastati e notturni della storia della ballerina e cantante Anna ed azzecca un paio di sequenze indimenticabili nelle quali la Mangano – sempre imbronciata e poco comunicativa – dà il meglio di sé (l’attrice adorava soprattutto ballare e lo dimostra nell’interpretazione della canzone El Negro Zumbon (composta per l’occasione da un giovane Armando Trovajoli); tale sequenza verrà poi citata da Moretti in Caro diario, 1994). Per il resto il film ricalca senza troppa fantasia lo schema melodramamtico e un po’ fumettistico di Riso amaro e di tante altre pellicole del periodo. I personaggi sono estremamente monolitici e prevedibili: il bravo lavoratore e la sua famiglia cattolica, il malvivente sbruffone, la donna di facili costumi che si redime nella fede; le svolte narrative suonano artificiose e meccaniche (si è detto dell’assurda cacciata di Anna da parte di uno sconvolto Andrea; altrettanto banale è il loro successivo ritrovarsi con Andrea in fin di vita a Niguarda dopo un incidente). L’occasione per creare un potente melodramma c’era - grazie anche alla presenza di Rota - ma viene sprecato: le musiche sono poco significative, l’approfondimento delle situazioni lascia a desiderare, l’intreccio non comporta eventi originali e il quadro ospedaliero è ridotto a una serie di bozzetti senza interesse.
Restano comunque nella memoria alcune immagini di una fredda Milano alle luci dell’alba, con la protagonista che passeggia dalle parti di via Larga (dove si notano ancora numerose case vecchie destinate alla demolizione), perplessa e incerta dopo l’ennesima notte d’amore con Vittorio. Vi è inoltre una stimolante incursione nell’universo scaligero: suor Anna vi si reca per avvisare il primario di un caso urgente (il suo Andrea è in fin di vita) mentre è in corso la rappresentazione, giunta al brillante coro finale, del singspiel Il ratto dal serraglio (Mozart, 1782; opera che realmente era in scena in quel 1951 nel celebre teatro con una giovane Maria Callas nel cast). L’allusione non poteva essere più netta: anche Andrea, come il Belmonte mozartiano, ha cercato di strappare la sua Anna a una sorta di harem, con esiti meno felici.
Nonostante il carattere abbastanza audace e perfino morboso del ritratto femminile (che peraltro ripete quello della mondina di Riso amaro), incapace di dominare il proprio impulso sessuale anche in presenza di una prospettiva seria ed onesta (quella offerta da Andrea), il Centro Cattolico apprezza il senso complessivo e la scelta di rinuncia fatta nel finale da suor Anna e, quindi, chiude un occhio sugli elementi scabrosi assegnando al film con un compiacente “adulti con riserva”.
Il successo fu enorme: Anna è una delle prime pellicole italiane a incassare più di un miliardo di lire. Tre anni dopo Hollywood affiderà una sorta di remake a Robert Rossen il quale girerà Mambo (1954) con la Mangano e Gassman. Tra gli sceneggiatori figura di nuovo Ivo Perilli.
Nel film successivo Lattuada si ispira a un noto racconto di Gogol e gira Il cappotto (ottobre 1952; 85 min.). Il testo dello scrittore russo fa parte de I racconti di Pietroburgo (1842) e narra le peripezie dell’impiegato Akakij il quale, dopo penose privazioni, riesce a mettere da parte il denaro sufficiente per acquistare un nuovo cappotto il quale però gli viene immediatamente rubato. Per il dolore Akakij ne muore e ritorna tra le vie di Pietroburgo come fantasma per vendicarsi di tutti coloro che non gli avevano reso giustizia quando era in vita.
Lattuada, basandosi su una sceneggiatura di Cesare Zavattini e Luigi Malerba, adatta questa storia alla provincia italiana (il film è girato a Pavia) in un dopoguerra abbastanza astratto nel quale appaiono evidenti le allusioni al recente regima fascista. La miscela spazio-temporale tuttavia non giova al film che appare stravagante come spesso accade quando si cala nella nostra realtà storie tipiche di altre culture e, in questo caso, perfino di un altro secolo (si veda in tal senso l’analoga distonia che caratterizza Ossessione di Visconti, ispirato al noir americano Il postino suona sempre due volte di Cain). Il tessuto sociale, fatto da impiegati poverissimi ed eccessivamente succubi dell’autorità, appare legato alla realtà russa ottocentesca (la ritroveremo simile in certe narrazioni di Dostoevskij); la figura del presuntuoso sindaco e del suo codazzo clientelare appare invece equamente debitrice sia alla realtà del recente fascismo, sia a quello della nascente speculazione edilizia del dopoguerra; la perenne presenza dei questuanti, rappresentanti di una classe sociale diseredata e poverissima, sembra coniugare il pauperismo russo con le macchiette di Miracolo a Milano; il furto del cappotto è l’ennesima riformulazione del desolato destino degli umiliati e offesi (si aggiunge quindi al celebre furto della bicicletta di Ricci, alla perdita del cagnolino di Umberto D ecc.); la figura dell’impiegato strambo rinominato Carmine De Carmine – con le sue tirate sconclusionate e dementi – si estranea dal racconto di Gogol e si ricongiunge alla comicità della rivista di Rascel e Totò (non a caso Lattuada avrebbe voluto il comico napoletano nel ruolo principale); la svolta gotica del finale – fedele al racconto di Gogol - vira il film verso esiti fantastici e si avvale, in questa parte, di una suggestiva caratterizzazione visiva, memore dello stile dell’espressionismo tedesco degli anni venti.
Siamo quindi in presenza di un film eclettico in cui convivono faticosamente tradizioni filmiche e letterarie differenti, senza approdare a un risultato soddisfacente. Si può apprezzare più l’uno o l’altro episodio, ma è difficile accettare l’insieme. Rascel – lodato da tutti – appare in realtà piuttosto monocorde come ripetitiva è la scarna vicenda (in fondo un breve racconto che bisognava arricchire con storie secondarie più originali) e quando l’attore abbandona il serioso tono patetico per passare a quello giullaresco dell’avanspettacolo (l’assurda lettura del verbale di fronte al siondaco, episodio ovviamente inesistente in Gogol) il salto di registro è esagerato e incomprensibile. In fondo se Carmine fosse realmente il fesso che risulta dalla stesura di questo verbale (ma in altre circostanze appare dotato di un’intelligenza normale), allora il suo stato di povero emarginato apparirebbe perfino coerente e tutt’altro che straordinario.
L’ambientazione pavese invece è eccellente: senza mai ritrarre strade troppo definite (con l’eccezione del ponte coperto, sede delle due sequenze apicali: il furto del cappotto e il dialogo finale con il sindaco), Lattuada riesce a conferire al racconto un’aura quasi universale e atemporale. La sottostoria del sindaco (Giulio Stival) con la giunonica amante (Yvonne Sanson) – di cui si è invaghito anche Carmine - è invece una vicenda dozzinale le cui connesse gag ritorveremo in decine di commedie erotiche degli anni settanta (quelle dominate da Banfi e Montagnani). L’universo pauperistico che circonda il protagonista è eccessivo e stucchevole, possiede i tipici tratti zavattiniani dell’universo dei barboni di Miracolo a Milano virato in immagini distorte e un po’ mostruose, anch’esse ispirate al cinema espressionista tedesco; inoltre, quando gli autori vogliono ricreare l’opposto ovvero un salotto simbolico del benessere borghese, ecco di nuovo – come nello zavattiniano Umberto D – comparire la tradizione lirica con il direttore generale (Ettore G. Mattia) che intona Una furtiva lacrima (dall’Elisir d’amore di Donizetti) durante il suo elegante ricevimento. In questo dopoguerra la tradizione lirica, da genuina componente di una cultura popolare o comunque interclassista, sembra essersi trasformata in simbolo elitario della borghesia più agiata.
In definitiva vale quanto detto per Miracolo a Milano: per formulare uno spettacolo pullulante di figurine caratteristiche e privo di un intreccio forte ci voleva la fantasia straripante di un Fellini (amico di Lattuada con il quale – due anni prima - aveva firmato il suo esordio alla regia), capace di colorare in modo intrigante i singoli differenti episodi e di renderli incisivi e taglienti, al di là del loro debole eclettismo. Lattuada e Zavattini, invece, si perdono in una scrittura monocorde e lamentosa che stanca presto. Ben altri risultati aveva ottenuto il regista con un soggetto molto simile, quello del dannunziano Delitto di Giovanni Episcopo (1947; tra l’altro sempre con la Yvonne Sanson; vedi) nel quale la vicenda drammatica di un impiegato, sistematicamente frustrato dalla moglie e dal contesto sociale, veniva affrontato con un unico stile (quello melodrammatico), approdando a esiti notevolissimi.
A differenza delle recenti pellicole zavattiniane, dirette da De Sica, Il cappotto ottiene un lusinghiero successo di pubblico.
...
http://www.giusepperausa.it/anna.html
Gracias pór5 esta joyita de Lattuada, Amatcord. Impresionante Silvana Mangano
ResponderEliminar