TÍTULO ORIGINAL
Gli sfiorati
AÑO
2011
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Inglés (Separados)
DURACIÓN
111 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Matteo Rovere
GUIÓN
Matteo Rovere, Laura Paolucci, Francesco Piccolo. Novela: Sandro Veronesi
MÚSICA
Andrea Farri
FOTOGRAFÍA
Vladan Radovic
REPARTO
Andrea Bosca, Miriam Giovanelli, Claudio Santamaria, Asia Argento, Michele Riondino, Massimo Popolizio, Aitana Sánchez-Gijón
PRODUCTORA
Fandango Produzione, RAI Cinema
GÉNERO
Drama
Per il suo secondo lungometraggio da regista, Gli sfiorati, Matteo Rovere adatta il romanzo omonimo di Sandro Veronesi senza riuscire troppo a convincere sul piano della scrittura, ma confermando le sue qualità di regista.
Indeterminatezza (non) classificabile
Un padre in comune: è questa l’unica cosa che unisce Méte e Belinda. Lui giovane ed esperto grafologo, lei adolescente inafferrabile, in bilico tra consapevolezza e scoperta di sé. Non si sono praticamente mai visti, adesso sono costretti a passare sotto lo stesso tetto la settimana che precede il matrimonio dei propri genitori. Sullo sfondo c’è una Roma caotica e inattesa, intorno a loro amici in movimento continuo, e adulti sempre alla ricerca dei propri sogni… [sinossi]
Coloro che sembrano sempre lontani e distratti, senza però essere superficiali, che non hanno punti fermi e – camaleontici – cambiano il proprio atteggiamento nell’arco di una manciata di istanti lasciandosi trascinare dagli eventi, vivendoli in profondità senza risparmiarsi: essi appartengono a una nuova categoria umana e spirituale che non ha età, sesso, razza e religione, una sorta di nuova esistenza antropologica che affronta, entra in contattato, si scontra e interagisce, in maniera imprevedibile con il tempo, lo spazio e l’altro. Una categoria che ha nel proprio dna forme di ossimoro persistenti, ma che per qualche inspiegabile alchimia riescono a coesistere lasciandola sospesa senza corda di sicurezza in equilibrio sulla fragile fune della vita. Una categoria che, se accertata, messa sotto la lente d’ingrandimento di uno dei personaggi nati dalla penna di un acclamato scrittore, diventa a sua volta il centro di una teoria scientifica capace di tramutare il suo carattere di indeterminatezza non classificabile in qualcosa di catalogabile. È a loro che richiama il romanzo Gli Sfiorati, al loro “mondo”, che Sandro Veronesi più di vent’anni fa dedicò un ritratto letterario nel suo omonimo romanzo. Adesso quel libro, e con esso coloro che abitavano le sue pagine, prendono forma e sostanza sul grande schermo nell’opera seconda di Matteo Rovere che, con l’aiuto di Francesco Piccolo e Laura Paolucci, sotto l’ala protettrice di Domenico Procacci e della Fandango, lo sottraggono alle atmosfere degli anni Ottanta per attualizzarlo ai giorni nostri. Da registrare, però, il fatto che se da una parte le lancette dell’orologio hanno continuato a scandire lo scorrere impietoso dei decenni, dall’altra vizi, virtù, pregi e difetti, degli appartenenti alla suddetta categoria sembrano essere rimasti immutati. E questo basta a spiegare perfettamente il senso e le motivazioni che hanno guidato l’operazione.
Gli Sfiorati di Matteo Rovere, che torna dietro la macchina da presa a tre anni di distanza dall’altalenante Un gioco da ragazze, si regge sull’intelligente scelta di non trasporre fedelmente l’opera originale, tradendola in gran parte, a cominciare dall’epoca e dall’intreccio narrativo che si affida alla ciclicità costruita intorno a un piano reale con brevi incisi (il volo etilico nella discoteca e le proiezioni mentali del protagonista), ma conservandone intatti lo spirito, la natura dei personaggi (anche se alcuni subiscono delle mutazioni come nel caso di quello di Belinda che nel film si barrica in casa mentre nel romanzo ha una sua vita all’esterno) e l’ambientazione, ossia una Roma dal cuore palpitante sospesa tra il giorno e la notte, percorsa in lungo e in largo da persone che si sfiorano a malapena con lo sguardo. Il regista capitolino viene messo così nelle condizioni di raccontarlo dall’interno e non di trasporlo di riflesso, di mettere in quadro storie e personaggi che conosce perché figli del suo tempo e non di quello che ha appena assaporato vista l’età riportata sulla sua carta d’identità. Piccolo e Paolucci gli cuciono addosso il film, loro che avevano avuto già modo di lavorare su un altro celebre romanzo dello scrittore toscano: quel Caos calmo la cui trasposizione cinematografica, al contrario, è rimasta fedele all’origine cartacea del 2005. Forse per questo nelle mani del giovane regista romano, il plot cinematografico e molti degli elementi che lo vanno a comporre assorbono dal libro di Veronesi temi e stilemi riconoscibili nel cinema di Rovere, già presenti in maniera embrionale nella sua pluri-premiata produzione breve (da Lexotan a Uncoventional Toys, da Sulla riva del lago a Homo Homini Lupus). Nel suo primo lungometraggio, infatti, aveva posto le basi per l’annientamento del modello della famiglia classica, per la messa in scena di un “universo” popolato da individui in perenne difficoltà con qualcosa della vita (il passato, il conflitto generazionale, il proprio stato sociale) o con l’impossibilità (incapacità) di amare l’oggetto del proprio desiderio, perché la stragrande maggioranza di loro (a partire proprio da Mete) è anaffettivo, incapace di dare e chiedere affetto nelle sue diverse sfaccettature. Ne Gli Sfiorati c’è sempre stata la traccia di tutto questo ed è su questi elementi che la trasposizione affidata a Rovere punta con decisione.
Il nuovo film del regista romano sceglie la strada della contaminazione al confine tra leggerezza e dramma. Ne scaturisce una commedia di contenuti che purtroppo non convince a pieno, anche se più matura rispetto alla precedente pellicola che aveva messo in evidenza profondi squilibri narrativi. Allora come adesso a convincere rimane lo stile e l’approccio visivo, mai manierista e ricco di soluzioni. Sa come e quando muovere la macchina da presa, a dimostrazione dell’enorme potenziale estetico a disposizione. Peccato che queste potenzialità non vadano di pari passo con la componente narrativa. C’è da dire che qui, grazie all’esperienza degli sceneggiatori che lo hanno affiancato, la scrittura acquista più sostanza dal punto di vista dialogico e strutturale, anche se lo sviluppo drammaturgico delle one line dei personaggi appare a conti fatti ancora poco delineata. Per questo forse molti dei personaggi non consentono l’immedesimazione allo spettatore di turno, quasi volerlo respingere a priori. Se Veronesi nelle pagine del suo romanzo riesce mirabilmente a mettere a disagio il lettore, coinvolgendolo però attivamente fino a fargli persino desiderare l’indesiderabile, Rovere al contrario porta sullo schermo un racconto di e sulla tentazione che lascia l’indesiderabile fuori campo.
Matteo Rovere
https://quinlan.it/2012/02/20/gli-sfiorati/
Gli Sfiorati non è dirompente allo stesso livello di quanto lo fosse lo sfrenato Un gioco da ragazze, però è ancora una volta un viaggio di Rovere sul labile delirio dell'ossessione e sulle sue conseguenze sui corpi. Il film si muove tutto nella sorta di nebbioso dormiveglia nel quale si costringe a vivere senza sosta il protagonista, in giro giorno e notte per una Roma dalla consistenza alchemica, una geografia capitolina dai contorni sfuggenti, fascinosamente fuori fuoco, probabilmente figlia soprattutto dello sceneggiatore Francesco Piccolo
Matteo Rovere ha uno sguardo interessante, che non ha paura di esagerare, fa un cinema che ha un suo carattere deciso e una certa visionarietà anche spinta e non sempre dai risultati felici, ma nel panorama italico è probabilmente difficile trovare un giovane regista altrettanto incosciente o contemporaneamente così consapevole da accettare di firmare una seconda opera come questa. Gli Sfiorati non è dirompente allo stesso livello di quanto lo fosse lo sfrenato Un gioco da ragazze, però è ancora una volta un viaggio sul labile delirio dell'ossessione e sulle sue conseguenze sui corpi: ecco, Rovere è uno dei pochi cineasti italiani di nuova generazione che sembra prestare attenzione al lavoro sui corpi dei propri personaggi, e dei propri attori (da qui non a caso il lucido utilizzo di una figura iconica potentissima com'è Asia Argento).
Il materiale è tratto dal Sandro Veronesi che aveva dato possibilità a Grimaldi di girare già una sorta di doppio sogno quasi “ferreriano” (il mare, il sesso…) con Caos Calmo, e anche stavolta il film si muove tutto sul confine tra realtà e onirismo, soprattutto nella sorta di nebbioso dormiveglia nel quale si costringe a vivere senza sosta il protagonista Méte (Andrea Bosca), che cerca in tutti i modi compagnia e occupazioni in giro per Roma per tutto il giorno e la notte pur di non tornare a casa a dormire. Nell'appartamento che occupa (non suo, ma della compagna del padre) infatti si è trasferita la conturbante sorellastra Belinda (Miriam Giovanelli), che fa una vita da reclusa senza mai mettere il piede fuori casa, e Méte teme di cedere alle pulsioni erotiche fortissime che la ragazza gli trasmette. E dunque si ritrova a vagare come un cane senza padrone, a guardare i crepuscoli, le mattine su Roma, come i primi atti della Dopostoria. E la sorella Belinda sempre più spesso lo visita nei suoi sogni ad occhi aperti, di volta in volta più audaci e mostruosamente proibiti. Qua appare fondamentale il lavoro di adattamento compiuto in sceneggiatura da Francesco Piccolo (con Laura Paolucci e lo stesso Rovere), che disegna una geografia capitolina dai contorni sfuggenti, fascinosamente fuori fuoco, fatta di cornettari aperti tutta la notte, chioschetti con i tavolini e le sedie impilate, vialoni deserti del centro che all'alba paiono vivere di luce fluorescente, feste in discoteche da vip e loft vista fori imperiali: una città che perde progressivamente la verosimiglianza “altolocata” per trasformarsi nell'erratico purgatorio di questa anima in pena, che vive in un flusso simile a quello degli improbabili documentari in loop senza sosta e senza pause delle programmazioni dei canali satellitari, di cui Méte è grande appassionato..
E Vladan Radovic, che fu sorprendente direttore della fotografia soprattutto in Sonètaula di Mereu, intuisce subito la consistenza alchemica (non a caso il protagonista è un grafologo, dunque esperto nella decifrazione dei codici…) della Roma di Rovere, e risponde con sequenze sospese e galleggianti: il riferimento centrale è quello alla Porta Magica di Piazza Vittorio, monumento esoterico di fine 1600 attraversando il quale si entrerebbe in una dimensione parallela. Quando Méte lo racconta alla ragazza che sta accompagnando in tram, lei gli sbotta di risposta: “ma che ce stai a provà?”. Ecco, questa tendenza alla sdrammatizzazione paradossalmente è l'elemento meno interessante dell'opera (Popolizio è un coatto arricchito sopraffino ma davvero (di) troppo), e la parodia del finale con canzone pop intonata sguaiatamente in coro da famiglia riunita in abitacolo di automobile (i riferimenti a un certo cinema italiano – e a un certo autore, padre di tutti gli "sfiorati" – appaiono evidenti…) magari va pure a segno, ma è decisamente un'idea sbagliata per chiudere questo film.
Sergio Sozzo
https://www.sentieriselvaggi.it/gli-sfiorati-di-matteo-rovere/
In uscita venerdì 2 marzo, Gli sfiorati è la seconda prova dietro la macchina da presa del giovane Matteo Rovere, filmaker romano classe 1982 impostosi all’attenzione del pubblico e della critica tricolore grazie al discusso Un gioco da ragazze (2008), prima tappa di una sorta di viaggio iniziatico intrapreso dal regista volto a proporre storie diverse dal solito e nuovi modi di esprimersi attraverso il mezzo cinema.
Quanto segue è un resoconto delle domande più significative poste dai giornalisti al cast della pellicola durante la conferenza stampa milanese, tenutasi lo scorso 23 febbraio presso la Terrazza Martini di Piazza Armando Diaz.
Oltre allo stesso Matteo Rovere, erano presenti i protagonisti Andrea Bosca e Miriam Giovanelli e lo scrittore Sandro Veronesi, autore dell’omonimo romanzo che ha ispirato il film.
Quali sono le principali differenze che intercorrono tra il libro e il film? E quali le similitudini?
Andrea Bosca: In sostanza, ciò che cambia dal libro al film sono i toni di narrazione.
Ciò che invece rimane del tutto invariato è questa idea di ossessione in modo così profondo sulla quale abbiamo lavorato molto.
La stessa passione/ossessione per la grafologia che ha il mio personaggio è un aspetto molto importante e al quale abbiamo dedicato una congrua attenzione.
La cosa più difficile è stata proprio imprimere la giusta efficacia a questa sorta di dipendenza - da una persona piuttosto che da una sostanza - insita un po’ in tutti i personaggi.
Leggendo il romanzo, quali sono stati i fattori che vi hanno convinto a trasporlo sul grande schermo?
Matteo Rovere: Domenico Procacci venne da me con questo romanzo e ne rimasi totalmente folgorato, al che, io e gli sceneggiatori, come diceva prima Andrea, abbiamo deciso di mantenere pressoché invariato quello che era lo spirito contenuto in quelle pagine, quindi quell’ossessione spesso tendente alla perversione che accomuna i protagonisti. Questo è stato, in pratica, il punto da cui siamo partiti e che ci ha più affascinato nell’intero romanzo.
Matteo, quali sono stati i modelli che più ti hanno ispirato?
Matteo Rovere: Semplicemente ho fatto un salto indietro a quella che è stata la mia infanzia attingendo dal cinema degli anni ’90, un’epoca alla quale devo molto e che, per questioni anagrafiche, ha contribuito più di tutte a influenzarmi in maniera positiva.
Che tipo di approccio hanno avuto gli attori nel confrontarsi con i loro personaggi e con le rispettive ossessioni?
Andrea Bosca: Come attori abbiamo dovuto confrontarci con un universo sconosciuto, sia a noi che agli spettatori. In questo, Matteo ci ha aiutato molto perché è riuscito a imprimere in ognuno di noi una parte dei personaggi che interpretavamo, di modo che, alla fine, le loro vite non risultavano così diverse dalle nostre.
Miriam Giovanelli: Per me, questa è stata la prima esperienza come attrice a tutto tondo, perché mi sono confrontata con un vero set e un vero regista che ha saputo dirigermi in tutto ciò che facevo. Anche per me vale quanto detto da Andrea, nel senso che sono riuscita a trovare nel del mio personaggio dei caratteri molto simili a ciò che sono io.
Andrea, come ti sei preparato per interpretare questo ruolo?
Andrea Bosca: Ho cominciato ad assimilarlo leggendo il libro di Sandro, dopodiché l’ho sviluppato con la sceneggiatura. E’ stato un lavoro abbastanza bizzarro perché mi sono preparato per sei mesi e, arrivato sul set, ho dovuto “dimenticare” tutto. Interpretare questo personaggio mi ha fatto capire che un attore non deve seguire sempre regole prestabilite, ma affidarsi anche a ciò che gli suggerisce l’istinto.
Poi, naturalmente, i vari corsi di grafologia che ho seguito mi hanno lasciato parecchio ed è stata un’esperienza semplicemente meravigliosa.
Matteo, che tipo di pubblico ti aspetti per questo tuo secondo film? A chi ti sei rivolto quando l’hai pensato?
Matteo Rovere: Quando si fa un film si cerca di parlare a un pubblico il più vasto possibile per un motivo fondamentalmente banale, ovvero perché si pensa che la storia che racconti possa avere un’universalità, altrimenti non la racconteresti.
Questo è un film un po’ pruriginoso e un po’ sensuale, ma allo stesso tempo molto centrato nel descrivere una società a prescindere da quelle che sono le varie fasce di spettatori.
Questo sentirsi “sfiorati” è un modo di essere che non appartiene solo ai ragazzi degli anni ’80, come sostiene Sandro Veronesi nel suo libro, ma è una cosa che, secondo me, accomuna anche gran parte delle persone nella nostra contemporaneità.
Matteo, secondo te, essere “sfiorati” è più vero adesso o lo era più negli anni ’80?
Matteo Rovere: Leggendo il romanzo ho subito pensato quanto fosse incredibile che i fatti e i personaggi raccontati fossero molto legati anche al presente. Gli “sfiorati” esistono e si stanno espandendo. Il problema è che, oggi, la “sfioratezza” non è neanche più una caratteristica ma è diventata quasi una qualità, un fatto comune che accomuna tantissime persone. Personalmente la considero quasi un’arma di difesa contro una società che attacca tutti senza distinzioni. In questo, anch’io mi sento un po’ uno “sfiorato”...
Matteo, in questo film tu racconti i giovani d’oggi, ma è curioso notare che questi, al contrario dei loro coetanei che abbiamo visto al cinema in questi ultimi tempi, non ricorrono quasi mai all’uso della tecnologia. Come lo spieghi?
Matteo Rovere: In realtà questa è una cosa in parte voluta, perché nel film ci sono diversi riferimenti a Facebook e altri social network, ma tutti i personaggi, entrando in contatto con questo mondo di “sfioratezza”, cercano quasi di riallacciarsi alle relazioni umane dimenticando la tecnologia.
Francesci Manca
https://cinema.everyeye.it/articoli/intervista-gli-sfiorati-conferenza-stampa-16270.html
Hola, dispones de esta pelicula por favor?, es Sensi dirigida en 1986 por Grabriele Lavia. muchas gracias.
ResponderEliminarOliver, en el mes estará disponible. Saludos.
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