TÍTULO ORIGINAL I giorni dell'abbandono
AÑO 2005
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACIÓN 96 min.
DIRECTOR Roberto Faenza
GUIÓN Gianni Arduini, Simona Bellettini, Diego De Silva, Roberto Faenza, Dino Gentili, Filippo Gentili, Anna Redi (Novela: Elena Ferrante)
MÚSICA Goran Bregovic
FOTOGRAFÍA Maurizio Calvesi
REPARTO Margherita Buy, Luca Zingaretti, Goran Bregovic, Alessia Goria, Gea Lionello, Gaia Bermani Amaral, Sara Santostasi
PRODUCTORA Jean Vigo Italia / Medusa Film / Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC)
PREMIOS 2005: Premios David di Donatello: 2 nominaciones
GÉNERO Drama
SINOPSIS Olga, una mujer madura pero joven aún, satisfecha y feliz, repentinamente es abandonada por su esposo, quien la deja por una mujer de menor edad, lo que la hace caer en una profunda depresión. Su historia es una caída a la destrucción que arrastra todo lo que está a su alrededor a las profundidades oscuras y dolorosas de la degradación femenina, mostrando que a pesar del intenso dolor, se trata también de una experiencia de vida. (FILMAFFINITY)
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Improvvisamente abbandonata dal marito, Olga sprofonda nella disperazione. Un precipizio che la costringe a riconsiderare il suo destino di donna, nel tentativo di ristabilire un ordine alla sua vita interiore e quotidiana. Il mondo che le ha lasciato in eredità il marito le appare ostile, figli compresi…
Polemiche inutili, come ogni anno, al Festival di Venezia. Uno degli argomenti più gettonati riguarda il dibattito sui film italiani, sovente nell’occhio del ciclone festivaliero. L’interrogativo (fischiati perché brutti davvero o per un colpevole pregiudizio critico sul nostro cinema?) è annoso, ed è stato rispolverato quest’anno dal film di Faenza. I giorni dell’abbandono è stato salutato alla proiezione per la stampa (in Sala Grande, con il pubblico e gli autori, di solito si applaude sempre) con una discreta quantità di fischi, preceduta e accompagnata però dagli applausi, e ad ogni modo inferiore al linciaggio confezionato per Battiato.
Ma cos’è che indispettisce a tal punto? Perché un film che esplora il dolore di una moglie abbandonata suscita reazioni del genere? Non è una questione di tematiche, visto che negli stessi giorni film simili (Gabrielle) vengono accolti in modo diverso. Il nervo è scoperto, tanto che Faenza risponde piccato, se la prende con un intero pubblico che, a detta sua, non sa capire il dolore cinematografico e maschera col riso le proprie carenze. In effetti, il regista e il suo film hanno questo merito, di non appiattirsi, di andare fino in fondo in un percorso pieno di insidie. C’è poco, ne I giorni dell’abbandono di prevedibile. Non tanto nelle scelte narrative, quanto nei risvolti emozionali dei personaggi. Arduo però scremare in questa imprevedibilità le scelte coraggiose e significative dai pantani della sceneggiatura, dalle cadute nel ridicolo involontario.
Possibile che il nutrito stuolo di sceneggiatori possa credere fino in fondo a scene tanto colme di patetismo e retorica dei sentimenti? Soprattutto nel finale, Faenza intacca quanto di buono si poteva trovare nel corpo del film, un’energia che riusciva a rimanere potenziale e si affidava, come valvola di sfogo, unicamente alla forza dei personaggi (in particolare Margherita Buy, la cui annunciatissima performance straordinaria ha delle falle, specie nelle parti non urlate). La sensazione di fastidio interiore che lascia il film è dunque una miscela, prodotta sì dai difetti disturbanti, ma anche da una mozione dei sentimenti che coglie nel segno e ci fa sentire partecipi, colpevoli e solidali.
Curioso quindi che proprio questo film, che non si para dietro la faciloneria di altro cinema italiano, venga investito dalle reazioni che solitamente proprio questo rimproverano ai registi nostrani. Faenza si dice preparato all’accoglienza, parla di “tiratori scelti”. Ma come lui non si merita la maggior parte delle accuse, anche in virtù della sua filmografia, forse chi ha visto nel film difetti grossi non si merita le sue generalizzazioni.
Tommaso Tocci
http://www.cinefile.biz/i-giorni-dellabbandono-di-roberto-faenza
Ma cos’è che indispettisce a tal punto? Perché un film che esplora il dolore di una moglie abbandonata suscita reazioni del genere? Non è una questione di tematiche, visto che negli stessi giorni film simili (Gabrielle) vengono accolti in modo diverso. Il nervo è scoperto, tanto che Faenza risponde piccato, se la prende con un intero pubblico che, a detta sua, non sa capire il dolore cinematografico e maschera col riso le proprie carenze. In effetti, il regista e il suo film hanno questo merito, di non appiattirsi, di andare fino in fondo in un percorso pieno di insidie. C’è poco, ne I giorni dell’abbandono di prevedibile. Non tanto nelle scelte narrative, quanto nei risvolti emozionali dei personaggi. Arduo però scremare in questa imprevedibilità le scelte coraggiose e significative dai pantani della sceneggiatura, dalle cadute nel ridicolo involontario.
Possibile che il nutrito stuolo di sceneggiatori possa credere fino in fondo a scene tanto colme di patetismo e retorica dei sentimenti? Soprattutto nel finale, Faenza intacca quanto di buono si poteva trovare nel corpo del film, un’energia che riusciva a rimanere potenziale e si affidava, come valvola di sfogo, unicamente alla forza dei personaggi (in particolare Margherita Buy, la cui annunciatissima performance straordinaria ha delle falle, specie nelle parti non urlate). La sensazione di fastidio interiore che lascia il film è dunque una miscela, prodotta sì dai difetti disturbanti, ma anche da una mozione dei sentimenti che coglie nel segno e ci fa sentire partecipi, colpevoli e solidali.
Curioso quindi che proprio questo film, che non si para dietro la faciloneria di altro cinema italiano, venga investito dalle reazioni che solitamente proprio questo rimproverano ai registi nostrani. Faenza si dice preparato all’accoglienza, parla di “tiratori scelti”. Ma come lui non si merita la maggior parte delle accuse, anche in virtù della sua filmografia, forse chi ha visto nel film difetti grossi non si merita le sue generalizzazioni.
Tommaso Tocci
http://www.cinefile.biz/i-giorni-dellabbandono-di-roberto-faenza
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Ormai è un disco rotto: "il cinema italiano è fermo, morto". Luogo comune o no, fatto sta che ogni anno quando i film italiani si trovano immessi in manifestazioni internazionali di cinema, , i consensi sono rari. E' il caso di "I giorni dell'abbandono" presentato in concorso al 62° "Festival di Venezia". L'accoglienza alla prima della critica è stata un concerto, sicuramente poco educato, di "fischi" e "buuu"...
Marco (Luca Zingaretti) e Olga (Margherita Buy) sono sposati ormai da anni. Marco non l'ama più, ha un'altra e va' a vivere fuori di casa. Mentre deve badare ai due figli piccoli e al cane e portare a termine la traduzione di un libro che gli è stato assegnata dal suo datore di lavoro, Olga cercherà di superare lo shock dell'abbandono. La conoscenza dell'inquilino del piano di sotto, un timido musicista straniero (Goran Bregovic) potrà forse rappresentare una svolta nella sua vita...
Amici confessori che invitano a non abbattersi, figli vittime della situazione che accettano tutto ad occhi bassi, scatti di ira e grida incontrollate, delusioni che si cercano di combattere andando colla prima persona incontrata fuori di casa che magari si presenta dicendo "Buonaseeeeraaa…" Sembra il peggior Muccino (che al di là dei pregiudizi di molti, rimane invece uno dei migliori giovani registi italiani), è invece Roberto Faenza il sessantenne cineasta torinese autore di "Sostiene Pereira" e "Prendimi l'anima". Di storie come queste ne conosciamo parecchie, soprattutto italiane. Storie di coppie economicamente agiate che smettono di amarsi a vicenda innescando umori e situazioni tristi e malinconiche. Ci si aspetterebbe che, almeno, le si affrontassero sotto una nuova luce, mettendo da parte una volta tanto il registro drammatico-sentimentale che, come un buco nero, inghiotte quasi ogni lavoro ad "alto budget" italiano."I giorni dell'abbandono" invece è l'ennesimo film fotocopia di tanti altri, in cui storie e volti dei protagonisti ci sono più che noti. Così come lo è il titolo, che ci metterà ben poco, una volta uscito dal circuito delle sale, a confondersi tra i tanti simili del recente passato.
Poca originalità e un tema, quello dell'abbandono, che offre ogni tanto anche dialoghi, involontariamente comici. Di struggenti "Tu sei troppo buona, meriti qualcuno migliore di me" ne abbiamo sentiti parecchi...
Il parallelismo tra la storia di Olga e quella del libro che deve tradurre è caotica e invece di chiarire alcuni aspetti psicologici della nostra protagonista, sembra un'estensione della sua confusione.
Si salvano comunque gli attori protagonisti, anche se le potenzialità tragicomiche della Buy potevano essere sfruttate meglio, e Goran Bregovic si vede che è prima di tutto un grandissimo musicista (compagno di tanti lavori di Emir Kusturica)...
La frase: "Io voglio solo mio marito, non un'altra opportunità".
Andrea D'Addio
http://filmup.leonardo.it/igiornidellabbandono.htm
Marco (Luca Zingaretti) e Olga (Margherita Buy) sono sposati ormai da anni. Marco non l'ama più, ha un'altra e va' a vivere fuori di casa. Mentre deve badare ai due figli piccoli e al cane e portare a termine la traduzione di un libro che gli è stato assegnata dal suo datore di lavoro, Olga cercherà di superare lo shock dell'abbandono. La conoscenza dell'inquilino del piano di sotto, un timido musicista straniero (Goran Bregovic) potrà forse rappresentare una svolta nella sua vita...
Amici confessori che invitano a non abbattersi, figli vittime della situazione che accettano tutto ad occhi bassi, scatti di ira e grida incontrollate, delusioni che si cercano di combattere andando colla prima persona incontrata fuori di casa che magari si presenta dicendo "Buonaseeeeraaa…" Sembra il peggior Muccino (che al di là dei pregiudizi di molti, rimane invece uno dei migliori giovani registi italiani), è invece Roberto Faenza il sessantenne cineasta torinese autore di "Sostiene Pereira" e "Prendimi l'anima". Di storie come queste ne conosciamo parecchie, soprattutto italiane. Storie di coppie economicamente agiate che smettono di amarsi a vicenda innescando umori e situazioni tristi e malinconiche. Ci si aspetterebbe che, almeno, le si affrontassero sotto una nuova luce, mettendo da parte una volta tanto il registro drammatico-sentimentale che, come un buco nero, inghiotte quasi ogni lavoro ad "alto budget" italiano."I giorni dell'abbandono" invece è l'ennesimo film fotocopia di tanti altri, in cui storie e volti dei protagonisti ci sono più che noti. Così come lo è il titolo, che ci metterà ben poco, una volta uscito dal circuito delle sale, a confondersi tra i tanti simili del recente passato.
Poca originalità e un tema, quello dell'abbandono, che offre ogni tanto anche dialoghi, involontariamente comici. Di struggenti "Tu sei troppo buona, meriti qualcuno migliore di me" ne abbiamo sentiti parecchi...
Il parallelismo tra la storia di Olga e quella del libro che deve tradurre è caotica e invece di chiarire alcuni aspetti psicologici della nostra protagonista, sembra un'estensione della sua confusione.
Si salvano comunque gli attori protagonisti, anche se le potenzialità tragicomiche della Buy potevano essere sfruttate meglio, e Goran Bregovic si vede che è prima di tutto un grandissimo musicista (compagno di tanti lavori di Emir Kusturica)...
La frase: "Io voglio solo mio marito, non un'altra opportunità".
Andrea D'Addio
http://filmup.leonardo.it/igiornidellabbandono.htm
TRAMA:
Il matrimonio di Olga e Mauro è ormai in dirittura d’arrivo. Lui ha trovato un’altra donna, molto più giovane di sua moglie e, una volta scoperto, va via di casa. Lei rimane sola con due figli e un cane da accudire. L’ossessione per la scoperta dell’identità dell’amante unita al dolore per l’abbandono del marito, portano Olga verso una spirale di dolore che la inghiottisce fino a farle perdere il senso della realtà.
ANALISI PERSONALE
In una Torino quasi decontestualizzata, si svolge la storia di questa donna che combatte per tornare alla realtà. Tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante, I giorni dell’abbandono è una parabola sul dolore e su come questo possa ridurre all’osso la persona che ne viene colta. In questo caso si tratta di una donna rimasta sola, senza amore del suo tanto adorato e idealizzato marito. “Una donna senza amore è già morta da viva”, recita Margherita Buy nel corso del film. Dissentendo da questa affermazione, possiamo ammettere di trovarci di fronte ad un prodotto discreto, ben fatto e in alcuni punti (salvo qualche espediente discutibile) davvero emozionante.
Olga (Margherita Buy) ha 35 anni, fa la traduttrice, ha due figli e odia le costanti pressioni di sua madre che vive all’estero e che la incita ogni giorno ad andare a trovarla con la sua famiglia. Mauro (Luca Zingaretti) è un ingegnere, è affezionatissimo al suo cane Otto, dà ripetizioni a due ragazzini ed odia il vicino di casa Daniel (Goran Bregovic) che lui chiama “zingaro”. Capiamo subito che Mauro ha una relazione extraconiugale, ma non trova il coraggio di ammetterlo con sua moglie alla quale dice di avere un “vuoto di senso” e per questo ha bisogno di rimanere da solo. Olga inizialmente abbocca e tenta di riconquistare l’amore di suo marito. Quando però un’amica le fa notare che molto probabilmente Mauro ha un’amante, Olga decide di passare all’attacco e di scoprire a tutti i costi l’identità di chi le ha portato via il marito. Questa diventa quasi un’ossessione, tanto che Mauro arriva a non presentarsi più neanche per i suoi bambini, le ruba gli orecchini di sua madre che aveva regalato a lei per regalarli alla sua amante, non risponde al telefono e via dicendo.
Per Olga questo sarà l’ennesimo colpo alla sua salute mentale. Comincerà a trascurarsi e a trascurare la casa, i figli, il cane. Smetterà di uscire, di lavarsi, di vestirsi se non con delle sudice tute e ad occuparsi delle faccende di casa e del piccolo Gianni sarà la sua bambina Elisa.
Quando ormai le risulta chiaro il non ritorno di suo marito, Olga decide di passare al contrattacco e finge con lui di avere una relazione sessuale con Daniel il vicino musicista e per rendere più veritiera la sua menzogna si reca nel suo appartamento di notte, donandoglisi come non aveva mai fatto neanche con Mauro, per poi accorgersi del suo grande errore e scappare via senza dire una parola. Daniel non ce la farà a sopportare il dolore per l’indifferenza di quella donna di cui si è innamorato e quindi traslocherà senza neanche salutare.
Nel frattempo per mandare avanti la “baracca” continuerà a svolgere il suo lavoro di traduttrice, ma inconsciamente comincerà a scrivere della sua stessa vita (suggestionata dalla storia della “poverella” che sua madre le raccontava quando era piccola). Quando il suo editore le farà notare del suo enorme “sbaglio”, Olga si licenzierà e continuerà a scrivere per davvero il suo romanzo, continuando a trascinarsi nella sciattezza e nell’indifferenza di tutto quello che le sta intorno, compresi i suoi figli, fino a quando il piccolo Gianni la notte di Capodanno non si sentirà molto male e non rischierà la vita per colpa sua, rimasta intrappolata in casa dopo aver rotto la serratura della porta d’ingresso.
Sarà forse questo il punto di rottura con questo completo estraneamento dalla realtà. Finalmente Olga comincerà ad uscire dal vortice del dolore e abbandonerà per sempre i suoi giorni dell’abbandono (doveroso il gioco di parole), cominciando a guardare il mondo e chi le sta intorno con occhi nuovi, compreso il caro, timido e dolce musicista Daniel.
Partendo da una soggetto scarno e a tratti scontato, Faenza riesce a tingere a dare un taglio originale al suo film, affidandolo alle doti tragicomiche della Buy che dà vita ad un personaggio molto complesso ma magistralmente interpretato. Olga è una donna sull’orlo della crisi di nervi, che decide forse inconsciamente di non curarsi più di nulla e di nessuno, di lasciarsi vivere, senza reagire al fatto di essere rimasta sola. Attorno a lei una serie di figure come quella del marito, dei figli, dell’amica, del vicino di casa, della barbona che abita di fronte al suo condominio che sembra giudicarla ogni qualvolta esce di casa col pigiama. Barbona che costituisce sicuramente una figura metaforica che si contrappone alla figura della stessa Olga, inizialmente completamente opposta a questa donna ma che piano piano si va assimilando in tutto e per tutto a lei, tanto da poterne essere addirittura giudicata (anche se solo con lo sguardo). Figura che compare non appena Olga comincia a “trascurarsi” e che scompare magicamente una volta che comincia a risalire la china. Ma le metafore sono disseminate all’interno del film (e non tutte sono apprezzabili), dal ramarro che invade l’appartamento, alle formiche che si annidano in cucina, al cane Otto, alla storia della “poverella” (sicuramente la meno riuscita) e via dicendo.
I cliché non mancano e si fanno sentire pesanti soprattutto nei dialoghi tra Mauro e Olga, impregnati di luoghi comuni come quando lui le dice: “Tu sei troppo buona, io non ti merito” o come quando lei gli chiede cosa fa a letto con la sua amante (dialogo che ricorda lontanamente quello di Julia Roberts e Clive Owen in Closer). Ma sono piccoli difetti che si sopportano e che vengono quasi cancellati dal risultato complessivamente soddisfacente della pellicola, accompagnata da una poetica e struggente colonna sonora firmata Goran Bregovic e nel finale anche Carmen Consoli, e contrassegnata da una buon livello recitativo con due attori protagonisti degni di nota. Certo la sceneggiatura incespica qui e lì e il finale è un po’ troppo telefonato, ma la sensazione che rimane alla fine della visione è quella di aver imparato qualcosa, grazie ad una storia comune a molte donne (ma sicuramente anche a molti uomini).
Olga (Margherita Buy) ha 35 anni, fa la traduttrice, ha due figli e odia le costanti pressioni di sua madre che vive all’estero e che la incita ogni giorno ad andare a trovarla con la sua famiglia. Mauro (Luca Zingaretti) è un ingegnere, è affezionatissimo al suo cane Otto, dà ripetizioni a due ragazzini ed odia il vicino di casa Daniel (Goran Bregovic) che lui chiama “zingaro”. Capiamo subito che Mauro ha una relazione extraconiugale, ma non trova il coraggio di ammetterlo con sua moglie alla quale dice di avere un “vuoto di senso” e per questo ha bisogno di rimanere da solo. Olga inizialmente abbocca e tenta di riconquistare l’amore di suo marito. Quando però un’amica le fa notare che molto probabilmente Mauro ha un’amante, Olga decide di passare all’attacco e di scoprire a tutti i costi l’identità di chi le ha portato via il marito. Questa diventa quasi un’ossessione, tanto che Mauro arriva a non presentarsi più neanche per i suoi bambini, le ruba gli orecchini di sua madre che aveva regalato a lei per regalarli alla sua amante, non risponde al telefono e via dicendo.
Per Olga questo sarà l’ennesimo colpo alla sua salute mentale. Comincerà a trascurarsi e a trascurare la casa, i figli, il cane. Smetterà di uscire, di lavarsi, di vestirsi se non con delle sudice tute e ad occuparsi delle faccende di casa e del piccolo Gianni sarà la sua bambina Elisa.
Quando ormai le risulta chiaro il non ritorno di suo marito, Olga decide di passare al contrattacco e finge con lui di avere una relazione sessuale con Daniel il vicino musicista e per rendere più veritiera la sua menzogna si reca nel suo appartamento di notte, donandoglisi come non aveva mai fatto neanche con Mauro, per poi accorgersi del suo grande errore e scappare via senza dire una parola. Daniel non ce la farà a sopportare il dolore per l’indifferenza di quella donna di cui si è innamorato e quindi traslocherà senza neanche salutare.
Nel frattempo per mandare avanti la “baracca” continuerà a svolgere il suo lavoro di traduttrice, ma inconsciamente comincerà a scrivere della sua stessa vita (suggestionata dalla storia della “poverella” che sua madre le raccontava quando era piccola). Quando il suo editore le farà notare del suo enorme “sbaglio”, Olga si licenzierà e continuerà a scrivere per davvero il suo romanzo, continuando a trascinarsi nella sciattezza e nell’indifferenza di tutto quello che le sta intorno, compresi i suoi figli, fino a quando il piccolo Gianni la notte di Capodanno non si sentirà molto male e non rischierà la vita per colpa sua, rimasta intrappolata in casa dopo aver rotto la serratura della porta d’ingresso.
Sarà forse questo il punto di rottura con questo completo estraneamento dalla realtà. Finalmente Olga comincerà ad uscire dal vortice del dolore e abbandonerà per sempre i suoi giorni dell’abbandono (doveroso il gioco di parole), cominciando a guardare il mondo e chi le sta intorno con occhi nuovi, compreso il caro, timido e dolce musicista Daniel.
Partendo da una soggetto scarno e a tratti scontato, Faenza riesce a tingere a dare un taglio originale al suo film, affidandolo alle doti tragicomiche della Buy che dà vita ad un personaggio molto complesso ma magistralmente interpretato. Olga è una donna sull’orlo della crisi di nervi, che decide forse inconsciamente di non curarsi più di nulla e di nessuno, di lasciarsi vivere, senza reagire al fatto di essere rimasta sola. Attorno a lei una serie di figure come quella del marito, dei figli, dell’amica, del vicino di casa, della barbona che abita di fronte al suo condominio che sembra giudicarla ogni qualvolta esce di casa col pigiama. Barbona che costituisce sicuramente una figura metaforica che si contrappone alla figura della stessa Olga, inizialmente completamente opposta a questa donna ma che piano piano si va assimilando in tutto e per tutto a lei, tanto da poterne essere addirittura giudicata (anche se solo con lo sguardo). Figura che compare non appena Olga comincia a “trascurarsi” e che scompare magicamente una volta che comincia a risalire la china. Ma le metafore sono disseminate all’interno del film (e non tutte sono apprezzabili), dal ramarro che invade l’appartamento, alle formiche che si annidano in cucina, al cane Otto, alla storia della “poverella” (sicuramente la meno riuscita) e via dicendo.
I cliché non mancano e si fanno sentire pesanti soprattutto nei dialoghi tra Mauro e Olga, impregnati di luoghi comuni come quando lui le dice: “Tu sei troppo buona, io non ti merito” o come quando lei gli chiede cosa fa a letto con la sua amante (dialogo che ricorda lontanamente quello di Julia Roberts e Clive Owen in Closer). Ma sono piccoli difetti che si sopportano e che vengono quasi cancellati dal risultato complessivamente soddisfacente della pellicola, accompagnata da una poetica e struggente colonna sonora firmata Goran Bregovic e nel finale anche Carmen Consoli, e contrassegnata da una buon livello recitativo con due attori protagonisti degni di nota. Certo la sceneggiatura incespica qui e lì e il finale è un po’ troppo telefonato, ma la sensazione che rimane alla fine della visione è quella di aver imparato qualcosa, grazie ad una storia comune a molte donne (ma sicuramente anche a molti uomini).
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