TÍTULO ORIGINAL Noi credevamo
AÑO 2010
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACIÓN 203 min.
DIRECTOR Mario Martone
GUIÓN Mario Martone, Giancarlo De Cataldo (Novela: Anna Banti)
MÚSICA Hubert Westkemper
FOTOGRAFÍA Renato Berta
REPARTO Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco, Toni Servillo, Francesca Inaudi, Luca Barbareschi, Luca Zingaretti, Guido Caprino, Renato Carpentieri, Ivan Franek, Anna Bonaiuto, Pino Calabrese, Enzo Salomone, Stefano Cassetti, Michele Riondino, Fiona Shaw
PRODUCTORA Coproducción Italia-Francia; Palomar / Les Films D'Ici / Rai Cinema / Rai Fiction / ARTE France
WEB OFICIAL http://www.noicredevamo.it
PREMIOS 2010: Premios David di Donatello: 7 premios, incluyendo mejor película. 13 nominaciones
GÉNERO Drama | Histórico. Siglo XIX
SINOPSIS Como respuesta a la feroz represión borbónica de 1828, tres jóvenes del sur de Italia, Domenico, Angelo y Salvatore (Luigi Lo Cascio, Valerio Binasco y Luigi Pisani), deciden alistarse en el grupo de resistencia dirigido por Giuseppe Mazzini (Toni Servillo). A través de cuatro episodios, seremos testigos de la corrupción, las conspiraciones y las pulsiones homicidas que se viven en el seno de la organización. La unidad de Italia está en juego, pero no parece que vaya a ser precisamente un camino de rosas. (FILMAFFINITY)
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Presentato con successo alla 67esima Mostra del Cinema di Venezia e liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Anna Banti, il film narra la storia di tre ragazzi del sud Italia che, in seguito alla feroce repressione borbonica dei moti che nel 1828 vedono coinvolte le loro famiglie, maturano la decisione di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Attraverso quattro episodi che corrispondono ad altrettante pagine oscure del processo risorgimentale per l'Unità d'Italia, le vite di Domenico, Angelo e Salvatore verranno segnate tragicamente dalla loro missione di cospiratori e rivoluzionari, sospese come saranno tra rigore morale e pulsione omicida, spirito di sacrificio e paura, carcere e clandestinità, slanci ideali e disillusioni politiche.
Originale e realistico, Noi credevamo porta sotto la luce dei riflettori la Storia, una parte poco conosciuta e quasi dimenticata dalla storiografia ufficiale. Contraddistinto da un ritmo sostenuto, caratterizzato da colpi di scena e da una fotografia di alto livello, nel film, attraverso la vita dei protagonisti, lo spettatore ripercorre alcune fra le pagine più importanti della storia risorgimentale, pagine perdute e oscurate, riscoprendo persone vere che hanno contribuito attivamente all'unificazione.
"Domenico, Angelo e Salvatore" - afferma il regista Mario Martone - "incarnano modi profondamente diversi di vivere l'esperienza della clandestinità, della cospirazione e della lotta armata, modi che ancora oggi è possibile cogliere intorno a noi, se non ci si limita ad appiattire problemi enormi come quello dell'indipendenza dei popoli su uno schema superficiale. La loro storia ha per sfondo la tormentantissima nascita dello stato italiano, le scelte di un paese eternamente diviso in due (allora tra monarchici e repubblicani), il contrasto dilaniante tra azione e disillusione che segna da allora, come un pendolo amaro, ogni fase della nostra storia. Guardando la radice della nazione italiana si scorgono molte cose della pianta che ne è sviluppata".
Anche nel film di Martone viene dunque rappresentata la solita sordida e deleteria storia italiana di sempre, la tendenza ad allearsi con il più forte, una quasi genetica incapacità a fare fronte comune, una spinta inarrestabile a dividersi, a diffidare gli uni degli altri, anche all'interno dello stesso schieramento, una specie di coazione a ripetere della nostra politica. Martone inoltre, con uno sguardo che ha le sue origine al sud, ribalta la tesi che il meridione abbia rovinato il nord, evidenziando come il popolo, come troppo spesso accade, finisce con l'essere più spettatore e oggetto che non protagonista del proprio futuro.
Originale e realistico, Noi credevamo porta sotto la luce dei riflettori la Storia, una parte poco conosciuta e quasi dimenticata dalla storiografia ufficiale. Contraddistinto da un ritmo sostenuto, caratterizzato da colpi di scena e da una fotografia di alto livello, nel film, attraverso la vita dei protagonisti, lo spettatore ripercorre alcune fra le pagine più importanti della storia risorgimentale, pagine perdute e oscurate, riscoprendo persone vere che hanno contribuito attivamente all'unificazione.
"Domenico, Angelo e Salvatore" - afferma il regista Mario Martone - "incarnano modi profondamente diversi di vivere l'esperienza della clandestinità, della cospirazione e della lotta armata, modi che ancora oggi è possibile cogliere intorno a noi, se non ci si limita ad appiattire problemi enormi come quello dell'indipendenza dei popoli su uno schema superficiale. La loro storia ha per sfondo la tormentantissima nascita dello stato italiano, le scelte di un paese eternamente diviso in due (allora tra monarchici e repubblicani), il contrasto dilaniante tra azione e disillusione che segna da allora, come un pendolo amaro, ogni fase della nostra storia. Guardando la radice della nazione italiana si scorgono molte cose della pianta che ne è sviluppata".
Anche nel film di Martone viene dunque rappresentata la solita sordida e deleteria storia italiana di sempre, la tendenza ad allearsi con il più forte, una quasi genetica incapacità a fare fronte comune, una spinta inarrestabile a dividersi, a diffidare gli uni degli altri, anche all'interno dello stesso schieramento, una specie di coazione a ripetere della nostra politica. Martone inoltre, con uno sguardo che ha le sue origine al sud, ribalta la tesi che il meridione abbia rovinato il nord, evidenziando come il popolo, come troppo spesso accade, finisce con l'essere più spettatore e oggetto che non protagonista del proprio futuro.
Mario Martone. Nato a Napoli, cinquant'anni, è regista di teatro e di cinema. Ha cominciato a lavorare nel 1977, nel clima delle avanguardie teatrali di quel periodo, fondando il gruppo "Falso Movimento" e realizzando spettacoli che incrociavano il teatro col cinema come Tango glaciale ('82) e Ritorno ad Alphaville ('86). Dieci anni dopo, coinvolgendo altri artisti napoletani, ha immaginato e dato vita alla cooperativa "Teatri Uniti", con cui, oltre a continuare il suo teatro, ha realizzato i lungometraggi: Morte di un matematico napoletano (Gran Premio della Giuria a Venezia nel '92), Rasoi (dall'omonimo spettacolo realizzato con Enzo Moscato e Toni Servillo), L'amore molesto (1995), Teatro di guerra (1998). Numerosi sono i suoi lavori in altri formati: cortometraggi, documentari, film di montaggio, tra cui Lucio Amelio/Terraemotus, Antonio Mastronunzio pittore sannita, La salita (episodio del film collettivo I vesuviani), Una storia saharawi, Nella Napoli di Luca Giordano, Caravaggio l'ultimo tempo (questi ultimi entrambi vincitori del Gran premio Asolo per i film d'arte, nel 2004 e nel 2006). Per il suo lavoro cinematografico ha ricevuto, tra gli altri premi, due David di Donatello e un Nastro d'argento. Tra i suoi spettacoli in teatro spiccano gli allestimenti di tragedie greche (da Filottete ai Persiani a Edipo re) e, negli ultimi anni, di opere liriche (Mozart, Verdi, Rossini) nei maggiori teatri del mondo, da Londra a Madrid, da Parigi a Tokio. Tra il 1999 e il 2000 è stato direttore del Teatro di Roma, dove ha compiuto un lavoro di radicale cambiamento della programmazione, creando un nuovo spazio teatrale, il Teatro India, e aprendo alle altre arti e alla contemporaneità. Ha contribuito nel 2003 alla nascita del Teatro Mercadante Stabile di Napoli, per il quale ha curato il progetto Petrolio che ha coinvolto decine di artisti italiani sui temi dell'omonimo romanzo di Pier Paolo Pasolini. E da un romanzo di Goffredo Parise, anch'esso degli anni '70, ha tratto il suo ultimo film L'odore del sangue. E' attualmente direttore del Teatro Stabile di Torino.
http://naonaut.blogspot.com.ar/2010/11/il-regista-mario-martone-pordenone-per.html
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Gli uomini che fecero l'Italia
Tre ragazzi del sud Italia, in seguito alla feroce repressione borbonica dei moti che nel 1828 vedono coinvolte le loro famiglie, maturano la decisione di affiliarsi alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini. Attraverso quattro episodi che corrispondono ad altrettante pagine oscure del processo risorgimentale per l'unità d'Italia, le vite di Domenico, Angelo e Salvatore verranno segnate tragicamente dalla loro missione di cospiratori e rivoluzionari, sospese come saranno tra rigore morale e pulsioni omicide, spirito di sacrificio e paura, carcere e clandestinità, slanci ideali e disillusioni politiche. Sullo sfondo, la storia più sconosciuta della nascita del paese, dei conflitti implacabili tra i "padri della patria", dell'insanabile frattura tra nord e sud, delle radici contorte su cui sì è sviluppata l'Italia in cui viviamo. (sinossi)
Perchè mai realizzare proprio oggi un film sull'Italia in formazione, che abbracci quel largo periodo storico che va dai primi moti risorgimentali (storicamente riconducibili al 1820) sino alla presa della Capitale, fino al 1870 sotto il dominio Pontificio? A domanda retorica, risposta scontata: la cronaca più o meno storico-filologica raccontata da Noi credevamo di Mario Martone - pellicola in concorso a Venezia 2010 - in tutta evidenza ripropone problematiche che, incubate sotto altre forme ed espresse con metodi meno violenti almeno da un punto di vista fisico, covano tuttora sotto la cenere di un paese costantemente tormentato a livello politico da scosse telluriche spesso artatamente create per alimentare divisioni laddove in passato, perlomeno, erano gli ideali a scuotere e fomentare gli animi.
Gli intenti didattici di Mario Martone, che per l'occasione ha ripreso il testo omonimo scritto oltre trent'anni addietro da Anna Banti, risultano quantomai espliciti da subito, vuoi per una regia di impianto formale strettamente televisivo (fa eccezione, a livello linguistico, un accenno di macchina a mano verso il finale), sia per un'attenzione pressoché maniacale a tenere saldo il timone di una continuità logica e narrativa che avrebbe potuto con facilità naufragare a causa della pletora di personaggi, in parte fittizi o nella maggioranza dei casi realmente esistiti, citati in Noi credevamo. E senza, per una volta, che tali annotazioni determinino per forza di cose un giudizio negativo sul film; il quale al contrario si pone come un prodotto intellettualmente ambizioso ma onesto in un panorama cinematografico italiano poco avvezzo ad operazioni di questo tipo: un'opera cioé che possa essere considerata una lezione di Storia senza eccessi cattedratici o, peggio, tentazioni di proselitismo.
L'Italia descritta da un autore sovente definito, nella sua filmografia passata, compiutamente (Morte di un matematico napoletano, ad esempio) o velleitariamente (L'odore del sangue) intellettuale, in quest'occasione ha il non trascurabile merito di annullarsi nelle mille vicende narrate, preferendo con saggezza concentrarsi sull'aspetto idealista dei vari personaggi che attraversano con speranza e dolore il proscenio della Storia di Noi credevamo e non trascurando affatto di descrivere allo spettatore anche una loro dimensione privata che contribuisce a far scattare quell'indispensabile pulsione empatica necessaria a far trascorrere senza noia gli oltre duecento minuti di proiezione. Il ritratto che ne esce è quello di un macrocosmo frammentato, diviso, nel quale le persone appaiono incapaci di riporre fiducia l'una nell'altra e dove l’agguato è sempre dietro l’angolo (ed attenzione a tal proposito al ruolo interpretato da Luca Barbareschi, assolutamente carico di sottintesi simbolici del tutto extra-diegetici…), prima del coronamento di quell'obiettivo che alla fine sarà sì centrato ma solo formalmente, come ben esprime il monologo finale del narratore Domenico/Luigi Lo Cascio, uno dei tre "credenti appassionati" la cui esistenza è stata appositamente romanzata per essere inserita, in un contesto il più possibile realistico, negli scenari storici del lungometraggio. Del resto, in Noi credevamo, il passato funge da specchio riflettente sul presente in modo quasi spontaneo: le numerose immagini di violenza cieca e brutale si distorcono e adattano bene alle cronache televisive e non solo che al giorno d'oggi condizionano una pubblica opinione allora molto più ingenua ma anche più pronta all'azione e alla reazione, non anestetizzata come adesso. Poiché in fondo la morale amara della pellicola di Martone, ben riassunta da alcuni dialoghi sparsi qua e là serviti da un cast convinto e convincente nel corso del fluviale film, è che comunque deve essere necessario provarci, a cambiare l'ordine delle cose che si ritiene ingiusto; ben coscienti che battersi contro la cosiddetta real-politik, quella che viaggia per sua espressa volontà (e motivi di potere...) sopra le teste di tutti, potrebbe risultare impresa dai contorni quasi impossibili. L'importante, per continuare almeno a sentirsi vivi, è non dire "noi non crediamo più".
Anche se forse, in determinate circostanze, può essere la soluzione più comoda.
Daniele De Angelis
http://www.cineclandestino.it/it/film-in-sala/2010/noi-credevamo.html
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Noi credevamo, una storia italiana
In previsione del centocinquantenario, Mario Martone rilegge l'unificazione nazionale in chiave anticelebrativa. Lungo e accurato, è il ritratto di una patria lontana soltanto nel tempo.
Ma che vi credete, che sia facile raccontare il Risorgimento? Raccontare, dico io, la storia di quando l’Italia non era ancora neanche Italia, questo mondo rurale di illuminazione a olio, agricoltura, nobiltà e carboneria. Ah, la fa semplice il sussidiario delle scuole elementari: la barbetta di Mazzini, il barbone di Garibaldi, gli occhialetti di Cavour, i cannoni, e poi uno sfondo indistinto di figurine da presepe e cartapesta.
No che non è facile. Noi Credevamo ci prova con lo sbobinamento di tre ore e un quarto di pellicola. Tre ore e tre storie – con la s minuscola ma solo per rispetto della grammatica – le storie di tre amici e confratelli su e giù per la spina dorsale del paese. E un’ottica tutta nuova, anzi, lo smantellamento di un’ottica: via quelle macchine da presa puntate sull’eroismo, giù l’illuminazione, giù tutte le teste.
Dunque ecco l’Italia risorgimentale secondo Mario Martone: un pasticcio di fallimenti e atmosfere cupe di un giorno mai davvero nitido. Un guazzabuglio di piani amatoriali dall’esecuzione affidata a sbruffoni e mitomani. Questo Mazzini fantomatico, irraggiungibile e attraversato da idee febbrili senza una direzione ben determinata. E, a ricordarci che un secolo e mezzo non è certamente sufficiente a modificare la firma di un popolo: i grandi interessi ed il bene comune costantemente minati dalla minutaglia di controversie personali e individualismi dell’ultimo momento.
Con una fotografia e un’attenzione al costume storico magistrali, sulla forza lirica di Verdi, Rossini e Bellini, ecco tutte splendidamente in equilibrio tra ambiguità, violenza e patriottismo le interpretazioni di Toni Servillo (Giuseppe Mazzini), Luca Zingaretti (Francesco Crispi), Luigi Lo Cascio e Valerio Binasco. Con una lode particolare a quest’ultimo, volto meno visto al cinema, ma semplicemente eccezionale, letteralmente posseduto dal personaggio di Angelo. Peccato invece per la singola nota stonata, ma stonata davvero - non potrete non digrignare i denti – della Cristina di Belgioioso secondo Francesca Inaudi: una recitazione teatrale, dozzinale, che stacca dal contesto come un pupo siciliano in un film della Pixar.
La formula del triplice racconto funziona. Separazioni e riunioni, piccole spedizioni avventurose, mentre su ogni cosa grava angosciante il peso della Storia. Anni che scorrono, capelli che ingrigiscono, mentre tutti in sala malcelatamente aspettano con il fiato sospeso la grande battaglia finale, la parentesi eroica che continua ad essere elusa: lo stesso Garibaldi rimarrà un’ombra sulla cima di un colle illuminato dal plenilunio.
Tuttavia, tre ore. Tre ore, in effetti, sono proprio tante, e finiscono inevitabilmente con il diluire la qualità momenti di vero genio registico che preferiamo non disvelare in anticipo. Tre ore che sono tali anche per necessità, e diventano quasi quattro nella versione smembrata in puntate a uso fiction televisiva che andrà in onda sui circuiti Rai. E dunque non possiamo non domandarci: uovo o gallina? Lungometraggio stiracchiato per farne mini serie, o mini serie ricompattata per pigiarla dentro il grande schermo?
Poi, tutto si esaurisce con una strana accelerazione finale. Al traguardo non c’è alcuna gloria, eppure non ne siamo sorpresi. C’è così tanta Italia in questa storia, in questa Storia, in queste storie di centocinquant’anni fa, che quel Parlamento vuoto fatto di eleganti tube ben riposte su uno scaffale non sorprende. La strizzata d’occhio è più che altro un amaro colpetto sulla spalla, e la chiarezza dell’operazione si fa retroattiva: saprete anche voi perché siete andati a vedere Noi credevamo, e ne coglierete infine la giusta intonazione.
Andrea B. Previtera
http://www.giudiziouniversale.it/articolo/film/noi-credevamo-una-storia-italiana
No che non è facile. Noi Credevamo ci prova con lo sbobinamento di tre ore e un quarto di pellicola. Tre ore e tre storie – con la s minuscola ma solo per rispetto della grammatica – le storie di tre amici e confratelli su e giù per la spina dorsale del paese. E un’ottica tutta nuova, anzi, lo smantellamento di un’ottica: via quelle macchine da presa puntate sull’eroismo, giù l’illuminazione, giù tutte le teste.
Dunque ecco l’Italia risorgimentale secondo Mario Martone: un pasticcio di fallimenti e atmosfere cupe di un giorno mai davvero nitido. Un guazzabuglio di piani amatoriali dall’esecuzione affidata a sbruffoni e mitomani. Questo Mazzini fantomatico, irraggiungibile e attraversato da idee febbrili senza una direzione ben determinata. E, a ricordarci che un secolo e mezzo non è certamente sufficiente a modificare la firma di un popolo: i grandi interessi ed il bene comune costantemente minati dalla minutaglia di controversie personali e individualismi dell’ultimo momento.
Con una fotografia e un’attenzione al costume storico magistrali, sulla forza lirica di Verdi, Rossini e Bellini, ecco tutte splendidamente in equilibrio tra ambiguità, violenza e patriottismo le interpretazioni di Toni Servillo (Giuseppe Mazzini), Luca Zingaretti (Francesco Crispi), Luigi Lo Cascio e Valerio Binasco. Con una lode particolare a quest’ultimo, volto meno visto al cinema, ma semplicemente eccezionale, letteralmente posseduto dal personaggio di Angelo. Peccato invece per la singola nota stonata, ma stonata davvero - non potrete non digrignare i denti – della Cristina di Belgioioso secondo Francesca Inaudi: una recitazione teatrale, dozzinale, che stacca dal contesto come un pupo siciliano in un film della Pixar.
La formula del triplice racconto funziona. Separazioni e riunioni, piccole spedizioni avventurose, mentre su ogni cosa grava angosciante il peso della Storia. Anni che scorrono, capelli che ingrigiscono, mentre tutti in sala malcelatamente aspettano con il fiato sospeso la grande battaglia finale, la parentesi eroica che continua ad essere elusa: lo stesso Garibaldi rimarrà un’ombra sulla cima di un colle illuminato dal plenilunio.
Tuttavia, tre ore. Tre ore, in effetti, sono proprio tante, e finiscono inevitabilmente con il diluire la qualità momenti di vero genio registico che preferiamo non disvelare in anticipo. Tre ore che sono tali anche per necessità, e diventano quasi quattro nella versione smembrata in puntate a uso fiction televisiva che andrà in onda sui circuiti Rai. E dunque non possiamo non domandarci: uovo o gallina? Lungometraggio stiracchiato per farne mini serie, o mini serie ricompattata per pigiarla dentro il grande schermo?
Poi, tutto si esaurisce con una strana accelerazione finale. Al traguardo non c’è alcuna gloria, eppure non ne siamo sorpresi. C’è così tanta Italia in questa storia, in questa Storia, in queste storie di centocinquant’anni fa, che quel Parlamento vuoto fatto di eleganti tube ben riposte su uno scaffale non sorprende. La strizzata d’occhio è più che altro un amaro colpetto sulla spalla, e la chiarezza dell’operazione si fa retroattiva: saprete anche voi perché siete andati a vedere Noi credevamo, e ne coglierete infine la giusta intonazione.
Andrea B. Previtera
http://www.giudiziouniversale.it/articolo/film/noi-credevamo-una-storia-italiana
RECENSIONI
Martone, regista tra i massimi del nostro teatro, ma formatosi come cineasta, quando si cimenta per il grande schermo rimane consapevole della differenza del mezzo, senza peraltro mettere da parte l'attitudine al palco: se quanto narra in Noi credevamo si ispira alla realtà storica dei fatti, non tralascia d'altra parte lo specifico della messinscena, secondo un’indole contaminatrice che lo porta a costruire splendidi quadri cinematografici in interni scenografici di grande rigore, ma abitati da figure declamanti, interpretate secondo un modulo studiatamente antinaturalistico, centellinando gli esterni che non si ergono mai ad ambientazioni facilmente riconoscibili, a quinte identitarie, rimanendo l’attenzione puntata sull’azione e i personaggi che la fanno, sulle atmosfere, sugli umori e le passioni prima che sui fatti, evidenziandone la dimensione tragica o melodrammatica, mettendo da parte la cronaca, lasciando che sia lo spirito controverso dell’epoca ad emergere: in Noi credevamo il Risorgimento è un palcoscenico della parola dove non c’è mai il gigante iconico a far da mattatore, ma uomini veri, con entusiasmi, dubbi, convinzioni e valori autentici; in Noi credevamo il Risorgimento è visto dentro e fuori da un teatro epocale incendiato dalle lotte di classe, da giuramenti di fedeltà ad associazioni sovversive (la Giovine Italia dell’esule Mazzini), tra conciliaboli clandestini e litigiosi contrasti di sette.
Martone non prende neanche per un attimo in considerazione la logica dell’affresco storico tradizionale: nel suo film non vediamo apparire i grandi protagonisti del periodo, non ci sono Garibaldi, Cavour o Vittorio Emanuele II, evocati certo, ma mai presenti sulla scena e così i grandi eventi storici non sono mai mostrati, ma solo riferiti: il cuore del lavoro è affidato infatti a un dietro le quinte animato da personaggi sì secondari, ma che la Storia la agirono, personaggi dalle cui vicissitudini è possibile ricavare uno sguardo interno ai tempi, a un’epoca di cui non si dà mai un’immagine grossolana o facilmente illustrativa.
I tre personaggi su cui Martone concentra l’attenzione e le cui vite di rivoluzionari vengono narrate attraverso quattro episodi fondamentali [1], hanno ciascuno una storia, una classe d’appartenenza, un ambiente di riferimento che si incastonano alla perfezione nell’affresco generale: essi vivono in bilico tra paura e coraggio, tra alto profilo etico e furioso impulso omicida, consapevoli che la libertà di un paese si acquista col sangue, ma umanamente tormentati dalla responsabilità che certe scelte comportano, a volte lontani dalla reale condizione e coscienza di un popolo che, come dice la principessa Cristina di Belgiojoso non può essere semplicemente dichiarato libero, senza averlo prima reso consapevole degli esatti confini tra schiavitù e libertà regolata, a volte animati da uno spirito indomito che li conduce al gesto eroico o folle.
Martone è di precisione e di profondità impressionante nella sua messinscena, fa emergere il senso della passione dei suoi personaggi, non è interessato al distacco e non teme di prendere posizione, disegna una figura di statura elevatissima (il repubblicano Domenico, costretto a vedere un’Italia unita sotto il segno dei Savoia e che nel finale interroga un Parlamento di ombre pugnaci che hanno già dissolto l’ideale rivoluzionario nel quale credeva e per il quale aveva combattuto e sofferto), la cui fierezza e il cui rigore morale, a fronte di un’autoanalisi urticante e senza sconti, illuminano la sua caratterizzazione e a cui un Luigi Lo Cascio di bravura commovente dona ogni sfumatura, con una precisione di tratto e un’intensità interpretativa che non esito a definire supreme: da tempo non si vedeva nel cinema italiano un tale perfetto mèlange tra un personaggio così magnificamente scritto e un’incarnazione dello stesso in grado di esaltarne ogni aspetto, di farlo vibrare di vita, di toccare le corde dello spettatore in modo così naturale e potente.
Noi credevamo è un film bellissimo, che si nutre di mille, diverse cose (letteratura, teatro, certi cineasti - Visconti, Rossellini, Soldati -), che emoziona senza ricatti e senza didattiche, che non conosce compiacimenti né retorica, che mette in sordina l’epica ed esalta l’umano (merito di un ottimo cast, diretto splendidamente), in cui, pur rimanendo sullo sfondo, emerge comunque la logica della Grande Storia, quella delle battaglie strenue di coloro che fondarono lo Stato Unito su un territorio instabile, segnato dalla siderale distanza tra Nord e Mezzogiorno, da movimenti sostenuti da animi travagliati e contraddittori e da cui è germogliata e sorta l’Italietta odierna.
[1] MM – Dopo molti mesi di studio e ricerche abbiamo individuato tre figure “minori” tra i cospiratori italiani dell’ottocento e abbiamo attribuito le loro vicende a tre personaggi di nostra immaginazione: intorno a queste vicende abbiamo quindi costruito l’intera impalcatura del racconto, composta integralmente di fatti, comportamenti e parole attinti rigorosamente alla documentazione storiografica. Uno dei tre personaggi è ispirato al protagonista di un romanzo in cui Anna Banti racconta la storia di suo nonno che era stato un cospiratore, un libro intitolato “Noi credevamo”. Solo una parte di questo libro confluisce nel film, ma il titolo ci è apparso bellissimo e adatto per l’insieme del racconto. Domenico e Angelo, l’altro protagonista, incarnano due modi profondamente diversi di vivere l’esperienza della clandestinità, della cospirazione e della lotta armata, modi che ancora oggi è possibile cogliere intorno a noi, se non ci si limita ad appiattire problemi enormi come quello dell’indipendenza dei popoli su uno schema superficiale. La loro storia ha per sfondo la problematicissima nascita dello stato italiano, le scelte di un paese eternamente diviso in due (allora tra monarchici e repubblicani),il contrasto dilaniante tra azione e disillusione che segna da allora, come un pendolo amaro, ogni fase della nostra storia. Provare a leggere la radice dello stato italiano ci aiuta a comprendere molte cose della pianta che ne è sviluppata.
Ricordiamo che la versione del film che circola in sala dura 170'. La versione televisiva integrale, presentata al Festival di Venezia, dura 204'.
Luca Pacilio
Martone non prende neanche per un attimo in considerazione la logica dell’affresco storico tradizionale: nel suo film non vediamo apparire i grandi protagonisti del periodo, non ci sono Garibaldi, Cavour o Vittorio Emanuele II, evocati certo, ma mai presenti sulla scena e così i grandi eventi storici non sono mai mostrati, ma solo riferiti: il cuore del lavoro è affidato infatti a un dietro le quinte animato da personaggi sì secondari, ma che la Storia la agirono, personaggi dalle cui vicissitudini è possibile ricavare uno sguardo interno ai tempi, a un’epoca di cui non si dà mai un’immagine grossolana o facilmente illustrativa.
I tre personaggi su cui Martone concentra l’attenzione e le cui vite di rivoluzionari vengono narrate attraverso quattro episodi fondamentali [1], hanno ciascuno una storia, una classe d’appartenenza, un ambiente di riferimento che si incastonano alla perfezione nell’affresco generale: essi vivono in bilico tra paura e coraggio, tra alto profilo etico e furioso impulso omicida, consapevoli che la libertà di un paese si acquista col sangue, ma umanamente tormentati dalla responsabilità che certe scelte comportano, a volte lontani dalla reale condizione e coscienza di un popolo che, come dice la principessa Cristina di Belgiojoso non può essere semplicemente dichiarato libero, senza averlo prima reso consapevole degli esatti confini tra schiavitù e libertà regolata, a volte animati da uno spirito indomito che li conduce al gesto eroico o folle.
Martone è di precisione e di profondità impressionante nella sua messinscena, fa emergere il senso della passione dei suoi personaggi, non è interessato al distacco e non teme di prendere posizione, disegna una figura di statura elevatissima (il repubblicano Domenico, costretto a vedere un’Italia unita sotto il segno dei Savoia e che nel finale interroga un Parlamento di ombre pugnaci che hanno già dissolto l’ideale rivoluzionario nel quale credeva e per il quale aveva combattuto e sofferto), la cui fierezza e il cui rigore morale, a fronte di un’autoanalisi urticante e senza sconti, illuminano la sua caratterizzazione e a cui un Luigi Lo Cascio di bravura commovente dona ogni sfumatura, con una precisione di tratto e un’intensità interpretativa che non esito a definire supreme: da tempo non si vedeva nel cinema italiano un tale perfetto mèlange tra un personaggio così magnificamente scritto e un’incarnazione dello stesso in grado di esaltarne ogni aspetto, di farlo vibrare di vita, di toccare le corde dello spettatore in modo così naturale e potente.
Noi credevamo è un film bellissimo, che si nutre di mille, diverse cose (letteratura, teatro, certi cineasti - Visconti, Rossellini, Soldati -), che emoziona senza ricatti e senza didattiche, che non conosce compiacimenti né retorica, che mette in sordina l’epica ed esalta l’umano (merito di un ottimo cast, diretto splendidamente), in cui, pur rimanendo sullo sfondo, emerge comunque la logica della Grande Storia, quella delle battaglie strenue di coloro che fondarono lo Stato Unito su un territorio instabile, segnato dalla siderale distanza tra Nord e Mezzogiorno, da movimenti sostenuti da animi travagliati e contraddittori e da cui è germogliata e sorta l’Italietta odierna.
[1] MM – Dopo molti mesi di studio e ricerche abbiamo individuato tre figure “minori” tra i cospiratori italiani dell’ottocento e abbiamo attribuito le loro vicende a tre personaggi di nostra immaginazione: intorno a queste vicende abbiamo quindi costruito l’intera impalcatura del racconto, composta integralmente di fatti, comportamenti e parole attinti rigorosamente alla documentazione storiografica. Uno dei tre personaggi è ispirato al protagonista di un romanzo in cui Anna Banti racconta la storia di suo nonno che era stato un cospiratore, un libro intitolato “Noi credevamo”. Solo una parte di questo libro confluisce nel film, ma il titolo ci è apparso bellissimo e adatto per l’insieme del racconto. Domenico e Angelo, l’altro protagonista, incarnano due modi profondamente diversi di vivere l’esperienza della clandestinità, della cospirazione e della lotta armata, modi che ancora oggi è possibile cogliere intorno a noi, se non ci si limita ad appiattire problemi enormi come quello dell’indipendenza dei popoli su uno schema superficiale. La loro storia ha per sfondo la problematicissima nascita dello stato italiano, le scelte di un paese eternamente diviso in due (allora tra monarchici e repubblicani),il contrasto dilaniante tra azione e disillusione che segna da allora, come un pendolo amaro, ogni fase della nostra storia. Provare a leggere la radice dello stato italiano ci aiuta a comprendere molte cose della pianta che ne è sviluppata.
Ricordiamo che la versione del film che circola in sala dura 170'. La versione televisiva integrale, presentata al Festival di Venezia, dura 204'.
Luca Pacilio
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Il cinema come lezione di storia
Poteva essere il film che mancava. Quello che a 150 anni di distanza ripercorre le strade tortuose e conflittuali che hanno portato all’unità d’Italia, e invece l´opera di Mario Martone, pur con il coraggio che la contraddistingue, non riesce a rendere vive le immagini che accompagnano il lungo viaggio nella sua visione. Se si apprezza l’idea di eliminare il più possibile la retorica e l’ideologia, cercando anche le ombre, evidenziando i lati oscuri, non trasformando nessuno in eroe, manca però quell’approccio organico capace di abbinare i contenuti alla forma. Non siamo neanche dalle parti dello sceneggiato televisivo, manca il feuilleton, ma l’approccio risente piuttosto di un’impostazione teatrale, sia nella messa in scena, nel modo in cui si contrappongono le ragioni dei personaggi, che nella recitazione, non sempre all’altezza, e nel trucco, spesso posticcio. Il problema di fondo è che i tanti personaggi finiscono per assurgere al ruolo di simboli e discutono in continuazione di massimi sistemi. Non attraversano un periodo storico, ma sembrano sempre sul punto di determinarlo. Non fanno che esprimere dubbi sulle ragioni storiche dell’epoca e non si lasciano mai andare a un commento, una notazione, un dettaglio, che non abbia motivazioni politiche. Più che parlare tra loro, parlano al pubblico. Manca quindi la loro umanità, il loro sentire al di là di ciò che rappresentano - chi una speranza incattivita chi, invece, una speranza più pacata, in ogni caso la mancanza di coesione – insomma, non si ha modo di entrare nella loro vita. Nonostante l’approfondito lavoro di ricerca alla base dei quattro segmenti che suddividono il racconto, si finisce così per essere sempre distanti dalla materia, spesso esclusi dalla successione di nomi e riferimenti, non sempre immediati per chi non ha freschi gli studi di storia, e senza che sia sempre chiaro chi siano i personaggi, che con il passare del tempo, e a volte degli attori, si avvicendano sullo schermo. Un film per non dimenticare le proprie origini e gli eventi che hanno portato al presente (profetico e con rimandi all’attualità quell’”Italia gretta, superba e assassina”, dal romanzo di Anna Banti, da cui è tratto il film), che, però, fallisce proprio nella sua maggiore ragione di essere: tramandare una memoria storica problematica in modo comunicativo. Poteva essere il Gangs of New York italiano, invece le ragioni della Storia prevalgono su quelle dei personaggi e molto meno delle lodevoli intenzioni, alla fine, arriva.
Luca Baroncini
Luca Baroncini
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Ottocento
Le scelte.
Domenico.
Angelo.
L’alba della nazione.
Domenico.
Angelo.
L’alba della nazione.
Quattro capitoli per un romanzo incompleto e frantumato, dilaniato tra ideali furibondi e cocenti disillusioni eppure urgente nonostante il disinganno inciso già nel titolo all’imperfetto (tempo non concluso), che scopre i gangli infiammati e purulenti della disunità d’Italia.
Quattro sezioni di un saggio di storiografia patria non ufficiale, che affonda nelle pieghe e nelle piaghe di un Risorgimento che non è quello dei libri di scuola, nelle sue quinte oscure (l’aura tormentosa e ambigua, quasi stanca, che avvolge Mazzini e quella altrettanto ambigua ma più inquietante di Crispi), un Risorgimento privato degli episodi maggiori (e più gloriosi) e di alcune delle sue figure più celebri che sono solo nomi, ombre, silhouette viste da lontano (l’iconica apparizione notturna di Garibaldi), vissuto dal basso, sulla pelle e nel cuore di personaggi minori (i tre amici Angelo, Domenico e Salvatore) che vivendo la loro storia hanno fatto la Storia.
Quattro atti di un’opera lirica che risuona anche nel fuoricampo delle ellissi storiche, rapsodica e turbolenta, senza una conclusione catartica, senza un finale la cui tragica completezza inviti il pubblico a congedarsi con la coscienza soddisfatta, ancora turbata invece dalle contraddizioni irrisolte messe in scena.
Quattro sezioni di un saggio di storiografia patria non ufficiale, che affonda nelle pieghe e nelle piaghe di un Risorgimento che non è quello dei libri di scuola, nelle sue quinte oscure (l’aura tormentosa e ambigua, quasi stanca, che avvolge Mazzini e quella altrettanto ambigua ma più inquietante di Crispi), un Risorgimento privato degli episodi maggiori (e più gloriosi) e di alcune delle sue figure più celebri che sono solo nomi, ombre, silhouette viste da lontano (l’iconica apparizione notturna di Garibaldi), vissuto dal basso, sulla pelle e nel cuore di personaggi minori (i tre amici Angelo, Domenico e Salvatore) che vivendo la loro storia hanno fatto la Storia.
Quattro atti di un’opera lirica che risuona anche nel fuoricampo delle ellissi storiche, rapsodica e turbolenta, senza una conclusione catartica, senza un finale la cui tragica completezza inviti il pubblico a congedarsi con la coscienza soddisfatta, ancora turbata invece dalle contraddizioni irrisolte messe in scena.
Cospiratori repubblicani, proletari e aristocratici, la meglio gioventù ottocentesca alle prese con l’inarrestabile marcire dell’utopia unitaria e democratica in una terra già divisa tra un Sud asservito e un Nord manipolatore, sporca di olio rubato e di sangue fraterno. Un film sulla creazione dell’Italia moderna che per larga parte è significativamente ambientato all’estero, dove agiscono principalmente le figure-guida e i teorici del movimento, nella confinante Savoia svizzera e tra gli esuli parigini e londinesi. E lo sfrangiarsi dell’azione politica, tra furori rivoluzionari e rigurgiti reazionari, aie contadine e salotti nobili, mazziniani e monarchici, soldati sabaudi e garibaldini, anticlericali di città e preti di campagna, cenacoli intellettuali e arrembaggi armati, moderatismo e derive terroristiche, brigantaggio clandestino e di Stato, con l’ombra lunga della realpolitik a calare su tutto, del compromesso che si fa tradimento. Un coro maschile nel quale spicca però la figura femminile di Cristina di Belgiojoso, la principessa cospiratrice, intellettuale e patriota, corpo modernissimo e anarchico, dedito al piacere e padrone di sé, che non si fa intimidire dalle gabbie sociali e sessuali (aristocratica, donna), capace di individuare le falle dell’azione e del pensiero risorgimentali. Un affresco vasto e spericolato dunque, uno smisurato spazio umano, storico, politico, geografico percorso da Martone con una lucidità straordinaria.
Opera densissima, di potente e fosco splendore, Noi credevamo condensa teatro (la recitazione volutamente declamata di alcune sequenze, il Risorgimento come altro “teatro di guerra”), melodramma verdiano e belliniano (le arie che contrappuntano l’intero racconto e ne ritmano il respiro), letteratura, pittura (la produzione ottocentesca, tra l’accademia di Francesco Hayez e il verismo coloristico dei Macchiaioli), perfino la tv nella sua accezione didascalica alta, quella che non sacrifica alla divulgazione la profondità di sguardo (quale l’ha intesa Rossellini nell’ultima parte della sua carriera) ma soprattutto cinema, grandissimo cinema. Post-viscontiano, neo-rosselliniano, affine per potenza espressiva all’ultimo lavoro di Marco Bellocchio (e come quest’ultimo destinato in Italia a un’accoglienza critica prigioniera del contenutismo e di schematismi ideologici, impermeabile ai puri valori della messinscena), Noi credevamo vibra oltre che del suo splendido cast diretto con intelligenza rara (su tutti un Valerio Binasco gigantesco, da brividi, quasi “posseduto” dal personaggio che interpreta) anche di graffi mélo (il bacio impetuoso alla Belgiojoso velata per le strade di Parigi, il ritratto realizzato dall’antica amante gettato nel fuoco), di squarci western di asciutta intensità (l’ultima parte, quella garibaldina), di centellinate trasgressioni all’impeccabilità della ricostruzione scenografica, anacronismi dal fragoroso effetto stridente (la scala di ferro che conduce al patibolo, un cancello metallico dietro il quale si nasconde un quarto misterioso attentatore, i pilastri in cemento armato di una costruzione non finita in mezzo alla campagna meridionale). La regia di Martone è di elegantissima e violenta essenzialità, profondamente segnata dalla miracolosa fotografia di Renato Berta (si veda l’incipit, incastro sapiente di solarità mediterranea e fuoco devastatore, o certi strepitosi notturni a lume di candela), improntata a una meticolosa organizzazione degli spazi (il montaggio è del fidato e sempre encomiabile Jacopo Quadri) in cui si passa dalla foga sovreccitata e in continuo movimento degli ideali di gioventù (la natura del Cilento, la neve alpina, i palazzi e teatri parigini) ai luoghi sempre più cupi e angusti dell’elaborazione tormentata della maturità, tra complotti rivoluzionari e prigionie fisiche e mentali (il pietroso set carcerario della seconda parte è di un’asprezza barbarica), per ritornare a un plein air sudista amaro e insanguinato ma ancora luminoso e infine ripiegarsi nella splendida sequenza finale del parlamento tenebroso e vuoto, abitato solo da schiere di eleganti tube: l’orrore della recita politica, il trasformismo-spettacolo applaudito da un platea invisibile, un attentato immaginario siglato da uno sguardo in macchina di infinita desolazione.
L’alba della nazione assume tinte crepuscolari ma assistere al funerale di un’utopia non significa disconoscerne il valore. L’Italia è un albero dalle radici malate, lo scheletro di un edificio eretto con sacrificio e passione e mai completato, un ricco patrimonio umano, paesaggistico, culturale lasciato sfiorire. A forza di essere antiepico Martone finisce col realizzare un’epica in negativo, di travolgente cupezza, che dialoga col presente e col nostro passato recente (gli anni ’70 della contestazione e del terrorismo), un’epica della disfatta, degli ideali traditi, di quel che poteva e doveva essere e non è stato, che non rinuncia però a cercare una strada o una cura.
Un capolavoro, ebbene sì, di lancinante e radicale bellezza.
Michele Favara
http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3120
Un capolavoro, ebbene sì, di lancinante e radicale bellezza.
Michele Favara
http://www.spietati.it/z_scheda_dett_film.asp?idFilm=3120
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Con il suo ultimo film presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, Noi credevamo, Mario Martone ha affrontato un tema fondamentale nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia: l’esistenza non di uno, ma di due Risorgimenti, spesso contrapposti tra loro. Il Risorgimento di Cavour e dei Savoia, moderato e annessionista (a vantaggio del Piemonte); e il Risorgimento dei democratici, dei mazziniani, dei repubblicani, dei cospiratori, dei rivoluzionari, pienamente in linea con le rivoluzioni di mezzo continente. Come noto, dopo la sconfitta della Repubblica romana, sarà il primo Risorgimento a prevalere, a “fare l’Italia”, e a determinare le sorti del nostro paese (e non solo del Meridione) per molti decenni. In parte, fino a oggi.
Questo tema (la netta differenza tra il Risorgimento istituzionale e conservatore, che forse non merita neanche di essere chiamato Risorgimento, e quello rivoluzionario) in Martone è strettamente intrecciato a un altro, che si svolge attraverso tre biografie: sono esistiti anche dei patrioti meridionali che, non stando né con i Borbone né con i Savoia, hanno sognato e lottato per un’Italia diversa.
Noi credevamo riprende in parte la storia di Domenico Lopresti, mazziniano del Cilento protagonista del romanzo di Anna Banti che ha il medesimo titolo. Ma la sua biografia è intrecciata a quella di altri due giovani cilentani, che crescono precocemente nella cospirazione: Angelo e Salvatore. Angelo ricalca la figura, realmente esistita, di Giuseppe Andrea Pieri, che attentò alla vita di Napoleone III insieme a Orsini, e che per questo fu ghigliottinato. Salvatore ricalca invece la figura di Antonio Sciandra, coinvolto in un attentato a Carlo Alberto.
Martone, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Giancarlo De Cataldo, ha deciso di narrare episodi minori, e oscuri, del nostro Ottocento. Non il 1848 o la Spedizione dei Mille, ma appunto l’attentato di Orsini (una vera e propria azione terroristica), l’insurrezione fallita in Savoia nel 1834, e la spedizione di Aspromonte del 1862, dove lo scontro tra i due Risorgimenti raggiunse la massima tensione. “Garibaldi fu ferito”, recita la canzoncina che tutti sappiamo, ma quei versi dissimulano un conflitto molto più aspro, fratricida, che si concluse con i piemontesi che presero a sparare sui garibaldini, spargendo morti.
Nel mezzo, una lunga parte del film, è dedicata al carcere politico di Montefusco, dove il Regno di Napoli rinchiuse i suoi “sovversivi”. E, qui nella ricostruzione di quel composito e ristretto mondo carcerario, Martone non si è rifatto solo al romanzo della Banti, ma anche a “Carceri e galere politiche”, le bellissime memorie di Sigismondo di Castromediano, patriota di Cavallino che lì fu recluso, e che poi – nell’Italia unita – sarebbe diventato deputato. Il carcere di Montefusco è stato ricreato fedelmente sull’altro versante appenninico, nei castelli di Bovino e Deliceto. E Martone ha saputo ricreare molto bene non solo il dibattito carcerario tra monarchici e repubblicani, tra moderati e radicali, ma anche le profonde differenze tra aristocratici e popolani.
Il Domenico protagonista di “Noi credevamo” (Edoardo Natoli da giovane, Luigi Lo Cascio in seguito) è uno sconfitto, che si aggira in un’Italia che ha preso tutta un’altra piega, tra i fantasmi di compagni morti. Muoiono il settario Angelo (Andrea Bosca da giovane, Valerio Binasco poi) e Salvatore (Luigi Pisani), ucciso dallo stesso Angelo, che lo crede una spia. E muore Saverio (Michele Riondino), il figlio di Salvatore, negli scontri sull’Aspromonte. Sullo sfondo, visti con gli occhi e i pensieri dei cospiratori minori, si stagliano la figura titanica di Mazzini (Toni Servillo) e quella enigmatica di Crispi (Luca Zingaretti), che compirà tutta la parabola da rivoluzionario a primo ministro conservatore. Una parabola molto italiana.
Per entrare ancora di più nei meandri del film, è utile leggere il volume pubblicato dallo stesso Martone per Bompiani Overlook (Noi credevamo) che contiene, oltre alla sceneggiatura e molte foto di scena, anche una corposa introduzione. Che siano esistiti dei patrioti meridionali, dei democratici meridionali, e che questi siano stati stritolati da una Storia travagliata, è la miglior risposta da dare a chi oggi intende riscrivere il nostro Ottocento. Non solo da Nord (da un certo Nord) sparando su tutto ciò che odora di unità. Ma anche da Sud (da un certo Sud), sostenendo che il Risorgimento è stato fatto unicamente da “criminali” al sevizio dei piemontesi “simili ai nazisti”, e che quello delle Due Sicilie era in fondo un regno fiorente e liberale. Invece bisogna sempre ricordare che i Borbone inviarono le loro truppe a reprimere nel sangue la Repubblica romana, e che fecero spegnere nelle loro galere decine, centinaia delle migliori intelligenze meridionali, come Lopresti o Castromediano.
Qui si rischia di perdere il bandolo della matassa. Tra gli sconfitti degli anni sessanta dell’Ottocento non ci sono certo i Borbone, e le loro corti militar-amministrative che seppero riciclarsi rapidamente. I veri sconfitti furono tutti coloro che come Domenico aveva sognato un paese, una società, delle istituzioni radicalmente diverse, libere da tutte le ottuse monarchie esistenti. E che invece furono sommersi dalla solita melma.
http://www.minimaetmoralia.it/wp/noi-credevamo/
Questo tema (la netta differenza tra il Risorgimento istituzionale e conservatore, che forse non merita neanche di essere chiamato Risorgimento, e quello rivoluzionario) in Martone è strettamente intrecciato a un altro, che si svolge attraverso tre biografie: sono esistiti anche dei patrioti meridionali che, non stando né con i Borbone né con i Savoia, hanno sognato e lottato per un’Italia diversa.
Noi credevamo riprende in parte la storia di Domenico Lopresti, mazziniano del Cilento protagonista del romanzo di Anna Banti che ha il medesimo titolo. Ma la sua biografia è intrecciata a quella di altri due giovani cilentani, che crescono precocemente nella cospirazione: Angelo e Salvatore. Angelo ricalca la figura, realmente esistita, di Giuseppe Andrea Pieri, che attentò alla vita di Napoleone III insieme a Orsini, e che per questo fu ghigliottinato. Salvatore ricalca invece la figura di Antonio Sciandra, coinvolto in un attentato a Carlo Alberto.
Martone, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Giancarlo De Cataldo, ha deciso di narrare episodi minori, e oscuri, del nostro Ottocento. Non il 1848 o la Spedizione dei Mille, ma appunto l’attentato di Orsini (una vera e propria azione terroristica), l’insurrezione fallita in Savoia nel 1834, e la spedizione di Aspromonte del 1862, dove lo scontro tra i due Risorgimenti raggiunse la massima tensione. “Garibaldi fu ferito”, recita la canzoncina che tutti sappiamo, ma quei versi dissimulano un conflitto molto più aspro, fratricida, che si concluse con i piemontesi che presero a sparare sui garibaldini, spargendo morti.
Nel mezzo, una lunga parte del film, è dedicata al carcere politico di Montefusco, dove il Regno di Napoli rinchiuse i suoi “sovversivi”. E, qui nella ricostruzione di quel composito e ristretto mondo carcerario, Martone non si è rifatto solo al romanzo della Banti, ma anche a “Carceri e galere politiche”, le bellissime memorie di Sigismondo di Castromediano, patriota di Cavallino che lì fu recluso, e che poi – nell’Italia unita – sarebbe diventato deputato. Il carcere di Montefusco è stato ricreato fedelmente sull’altro versante appenninico, nei castelli di Bovino e Deliceto. E Martone ha saputo ricreare molto bene non solo il dibattito carcerario tra monarchici e repubblicani, tra moderati e radicali, ma anche le profonde differenze tra aristocratici e popolani.
Il Domenico protagonista di “Noi credevamo” (Edoardo Natoli da giovane, Luigi Lo Cascio in seguito) è uno sconfitto, che si aggira in un’Italia che ha preso tutta un’altra piega, tra i fantasmi di compagni morti. Muoiono il settario Angelo (Andrea Bosca da giovane, Valerio Binasco poi) e Salvatore (Luigi Pisani), ucciso dallo stesso Angelo, che lo crede una spia. E muore Saverio (Michele Riondino), il figlio di Salvatore, negli scontri sull’Aspromonte. Sullo sfondo, visti con gli occhi e i pensieri dei cospiratori minori, si stagliano la figura titanica di Mazzini (Toni Servillo) e quella enigmatica di Crispi (Luca Zingaretti), che compirà tutta la parabola da rivoluzionario a primo ministro conservatore. Una parabola molto italiana.
Per entrare ancora di più nei meandri del film, è utile leggere il volume pubblicato dallo stesso Martone per Bompiani Overlook (Noi credevamo) che contiene, oltre alla sceneggiatura e molte foto di scena, anche una corposa introduzione. Che siano esistiti dei patrioti meridionali, dei democratici meridionali, e che questi siano stati stritolati da una Storia travagliata, è la miglior risposta da dare a chi oggi intende riscrivere il nostro Ottocento. Non solo da Nord (da un certo Nord) sparando su tutto ciò che odora di unità. Ma anche da Sud (da un certo Sud), sostenendo che il Risorgimento è stato fatto unicamente da “criminali” al sevizio dei piemontesi “simili ai nazisti”, e che quello delle Due Sicilie era in fondo un regno fiorente e liberale. Invece bisogna sempre ricordare che i Borbone inviarono le loro truppe a reprimere nel sangue la Repubblica romana, e che fecero spegnere nelle loro galere decine, centinaia delle migliori intelligenze meridionali, come Lopresti o Castromediano.
Qui si rischia di perdere il bandolo della matassa. Tra gli sconfitti degli anni sessanta dell’Ottocento non ci sono certo i Borbone, e le loro corti militar-amministrative che seppero riciclarsi rapidamente. I veri sconfitti furono tutti coloro che come Domenico aveva sognato un paese, una società, delle istituzioni radicalmente diverse, libere da tutte le ottuse monarchie esistenti. E che invece furono sommersi dalla solita melma.
http://www.minimaetmoralia.it/wp/noi-credevamo/
Grazie mile, grazie mile, grazie mile!
ResponderEliminaruna pena que no haya subtitulos...
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