TITULO ORIGINAL Amici miei
AÑO 1975
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS Español (Separados)
DURACION 109 min.
DIRECCION Mario Monicelli
GUION Tullio Pinelli, Pietro Germi, Piero De Bernardi, Leo Benvenuti
MUSICA Carlo Rustichelli
FOTOGRAFIA Luigi Kuveiller
PREMIOS 1975: Premios David di Donatello: Mejor película y actor (Ugo Tognazzi)
REPARTO Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Duilio del Prete, Renzo Montagnani, Paolo Stoppa, Milena Vukotic
PRODUCTORA Rizzoli Films
GENERO Comedia | Amistad
SINOPSIS Cuatro amigos cincuentones, que llevan toda la vida juntos, se pasan el día organizando bromas pesadas para burlarse de los demás. Son el periodista Giorgio Perozzi, perseguido por la reprobación de su hijo y su ex-mujer; el arquitecto Rambaldo Melandri, sensible a los asuntos del corazón; el barman Guido Necchi, propietario del bar en el que el grupo se reúne cada noche; y el conde Mascetti, un noble venido a menos, obligado a vivir en un sótano, que no tiene ningún escrúpulo a la hora de alejar a su mujer y su hija para disfrutar de una relación clandestina con su joven amante, Titti. Todos ellos, conscientes de que les ayuda a seguir unidos, recurren a las bromas para prolongar su juventud y defenderse de las penas de la vida. (FILMAFFINITY)
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Subtítulos (Español)
TRAMA:
Perozzi, Melandri, Mascetti, Necchi e Sassaroli: cinque amici con la mentalità di altri tempi. Ormai cinquantenni, ma rimasti ragazzi, sono pronti a improvvisare situazioni burlesche a Firenze e nei dintorni. All'inizio erano quattro e il Sassaroli, primario di una clinica, li conobbe quando - ricoverati per un incidente - misero a soqquadro l'ospedale. Cominciò a trattare con loro quando il Melandri si innamorò di Donatella, moglie del clinico, fraternizzò con tutti dopo che lo stesso Melandri dovette cedere davanti all'irruenza della Donatella, del cane Birillo e del resto della famiglia appioppatogli. Eccoli, i cinque ragazzi, schiaffeggiare dalla pensilina i viaggiatori di un treno, oppure seminare il panico in un paesino camuffandosi da tecnici stradali e decretando l'abbattimento delle case nonché della chiesa per far spazio a un'autostrada, eccoli trasformarsi in spacciatori di droga per punire l'ingordo pensionato Righi. Quando il Perozzi muore, la loro goliardia viene messa a dura prova, ma nel corso del funerale trovano il modo di improvvisare un ennesimo feroce scherzo per il Righi.
CRITICA:
"Campione d'incassi oltre ogni previsione, il film, pensato da Germi (poi deceduto) e preso in consegna da Monicelli, vorrebbe essere un'amara riflessione (con il sorriso sulle labbra) sul fatale scorrere del tempo. Ma la volgarità supera il livello di guardia; essere fiorentini è tutt'altra cosa. Germi avrebbe lavorato diversamente". (Francesco Mininni, "Magazine italiano tv")
"Intrisa del gusto toscano per la beffa e l'irrisione, venata di misantropia (e di misoginia in particolare), è una commedia di costume che ha grinta, scatto e invenzioni comiche soprattutto nella prima parte. Gran quintetto". (Laura e Morando Morandini, "Telesette")
NOTE:
- AIUTO REGIA: CARLO VANZINA.
- GIRATO NEGLI STUDI INCIR-DE PAOLIS, ESTERNI A FIRENZE E ALTRE LOCALITA' DELLA TOSCANA.
- DAVID DI DONATELLO (1976) COME MIGLIOR FILM E MIGLIOR ATTORE (UGO TOGNAZZI).
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Un film dall’atmosfera impregnata di comicità. Ambientato nella Firenze degli anni 70 e dintorni, narra degli episodi che vivono quattro amici (a cui poi se ne accoderà un altro) e dello stile di vita che questi conducono, il quale è basato sullo scherzo e sul riso.
Le scene rimaste nella storia del cinema italiano sono molteplici: gli schiaffi ai passeggeri affacciati ai finestrini di un treno in partenza, i bizzarri discorsi dal fantasioso lessico che si inventa Lello (Ugo Tognazzi), i cori intonati dal magnifico quartetto, specie quello in ospedale che manda in bestia il personale. Ma anche il fittizio scenario di sparatorie (con tanto di fuochi d’artificio) messo su dai protagonisti, per far credere a un personaggio chiamato il Righi (Bernanrd Blier) che fossero coinvolti in un giro d’affari con la malavita organizzata, al fine di tirarlo dentro quelle situazioni che ai suoi occhi appaiono tanto losche da farlo spaventare.
Il tutto gira intorno allo spirito di superficialità e lo schietto umorismo che dai personaggi stessi scaturisce. E nonostante il fatto che il loro modo di scherzare sia per l’appunto schietto, e quindi palese, il ‘povero’ Righi non riesce lo stesso a comprendere quanto sia in realtà deriso dai protagonisti.
Resta da evidenziare comunque quanto i quattro amici siano stati bravi nel giro di pochi secondi (mentre giocavano a carte) a mettere su la scena che erano dei gangster con della droga da smerciare quando invece nella scatola c’era scritto in grande ‘ZUCCHERO’. Ovviamente quello scherzo, e tutta la seguente fila di montature che ne consegue, sono state rese possibili dall’estrema ingenuità del Righi, ma anche dalla prontezza d’ingegno dei quattro e dall’intesa micidiale che li legava. Gli attori principali recitano con una tale spontaneità da far sembrare agli spettatori che anche loro si stiano divertendo ‘da matti’ durante le riprese.
Tra tutti i personaggi il vero protagonista è il Perozzi (Philippe Noiret), che funge da narratore e che racconta all’inizio del film della sua incontenibile voglia di trascorrere un po’ di tempo con i suoi amici, dopo una nottata di lavoro alla sede di una testata giornalistica. Essendo lui che fa da intermediario tra gli spettatori e la commedia, ci dice con un pizzico di riflessività, che cosa sia la ‘zingarata’, ovvero nient’ altro che un viaggio “senza meta e senza scopi, un’evasione senza programmi che può durare un giorno, due o una settimana”.
Riflessività che notiamo anche quando, nel cantare in auto con gli amici, si sofferma un attimo a realizzare quello che stava accadendo, come per immortalare il momento che a lui sembrava così magico, e ci parla di quanto i quattro adulti siano legati tra loro fin dai tempi della scuola e del servizio di leva militare.
Il quinto elemento del gruppo, il dottor Sassaroli (Adolfo Celi), entra in azione quando, per far rispettare le regole che vigono nel suo ospedale, punisce i quattro scalmanati con metodi piuttosto singolari.
Così facendo si dimostra più scaltro di loro, ma a farlo entrare in simpatia al Perozzi, a Lello, e al Necchi (Duilio Del Prete), è il modo in cui riesce psicologicamente a prevalere sul Melandri (Gastone Moschin), il quale si era innamorato di sua moglie.
Questa pellicola è il prototipo della nuova commedia all’italiana. Perché riproduce una realtà così vicina alla nostra generazione, come mai nessun precedente. I tempi dei “Soliti ignoti”, dove la miseria impera e ci si deve arrabattare per rimediare un po’ di denaro, sono finiti. Così come lo sono quelli di “Pane e cioccolata”, dove la realtà di un emigrato italiano in Svizzera, un po’ci rattrista. Dalla pubblicazione di Amici Miei è iniziata l’epoca del cinema che mostra il piacere provato nello sguazzare nel, perdonatemi la parolaccia, fancazzismo.
E il gusto della ‘zingarata’ è così saporito, che vengono rimandati gli impegni di lavoro (vedi il Melandri che delega il lavoro al geometra e non si occupa delle commissioni, oppure il Sassaroli che, quando sente i colpi di clacson degli amici fuori della clinica, rimanda un’operazione chirurgica che stava per avere inizio) e la famiglia viene trascurata (è il caso di Lello che lascia la moglie e la figlia con solo due cipolle da mangiare per tutto il giorno).
Forse un ventennio prima nel capolavoro felliniano “I Vitelloni” quest’aspetto venne già proposto al pubblico italiano; ma in maniera diversa.
Mentre Lello è l’unico personaggio povero del racconto (ma rimembriamo bene, povero ma fiero, poiché non vuole prestiti finanziari dagli amici) gli altri vivono nel piacere di chi ha un lavoro e una condizione economica non cattiva, e che quindi, da questo punto di vista, si può anche permettere di vivere in tal modo.
Del resto Mario Monicelli si rende ancora una volta maestro nel farci immergere completamente nelle atmosfere da lui create; anzi in tal caso risulta più corretto dire: ricreate, visto che egli, per elaborare un costrutto cinematografico così marcato, attinge da un patrimonio unico e assoluto, quello della realtà contemporanea.
Il realismo infatti è uno dei marchi di fabbrica del regista toscano.
Stefano Salinas
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Perozzi, Melandri, Mascetti, Necchi e Sassaroli: cinque amici con la mentalità di altri tempi. Ormai cinquantenni, ma rimasti ragazzi, sono pronti a improvvisare situazioni burlesche a Firenze e nei dintorni. All'inizio erano quattro e il Sassaroli, primario di una clinica, li conobbe quando - ricoverati per un incidente - misero a soqquadro l'ospedale. Cominciò a trattare con loro quando il Melandri si innamorò di Donatella, moglie del clinico, fraternizzò con tutti dopo che lo stesso Melandri dovette cedere davanti all'irruenza della Donatella, del cane Birillo e del resto della famiglia appioppatogli. Eccoli, i cinque ragazzi, schiaffeggiare dalla pensilina i viaggiatori di un treno, oppure seminare il panico in un paesino camuffandosi da tecnici stradali e decretando l'abbattimento delle case nonché della chiesa per far spazio a un'autostrada, eccoli trasformarsi in spacciatori di droga per punire l'ingordo pensionato Righi. Quando il Perozzi muore, la loro goliardia viene messa a dura prova, ma nel corso del funerale trovano il modo di improvvisare un ennesimo feroce scherzo per il Righi.
Critica
È la storia di quattro amici, vitelloni cinquantenni che poi diventano cinque che coltivano l'antico gusto toscano delle burle ora estrose, ora crudeli. Li tiene insieme la voglia di giocare e di non prendere nulla sul serio, nemmeno sé stessi. Venata di misantropia (e di misoginia, in particolare), è una commedia di costume che, soprattutto nella 1a parte, ha grinta, scatto e ricchezza di trovate comiche. Qua e là poco attendibile sociologicamente e una premeditata vaghezza nell'ambientazione, ma un ottimo quintetto d'interpreti. Sette milioni di spettatori nella stagione 1975-76. Un film di Pietro Germi, si legge nei titoli di testa. Benvenuti, Pinelli e De Bernardi l'avevano scritto per lui.
Il Morandini – Dizionario dei film, Zanichelli
«Tu muori e chi ti ricorda più? Certo, sarebbe bello se qualcuno di noi potesse durare. Ma io non ci spero, cioè... ci spero poco». Così Pietro Germi in una delle sue ultime interviste prima di morire. E l’applauso grande con cui il pubblico di Taormina, chiudendosi il Festival delle Nazioni, ha salutato il film Amici miei, da Germi avviato e da Monicelli condotto in porto, è stata la risposta a quella speranza: Germi durerà. Almeno fin tanto che qualcuno, interrogandosi sulla vita, troverà anche nel cinema, dietro la facciata d’un film burlesco, non dico le ultime risposte, ma nuove amare domande, e cercherà di difendersi dalla paura buttandola in ridere. Amici miei, alla cui sceneggiatura hanno messo mano anche De Bernardi, Benvenuti e Pinelli, è infatti una opera crudelissima e scanzonata, cattiva come una beffa del Lasca e cupa come il racconto d’un filosofo pessimista. E' una girandola di baie e una pagina di Masoch, la ghirlanda di un delirante Piovano-Arlotto e il gioco d’un becero Gianni Schicchi. È anche il singhiozzo d’una generazione di empi. E il più bel film sulla maledizione di essere toscani che l’Italia sinora abbia fatto.
Quattro amici, oggi a Firenze, tutti sui cinquanta. Il Perozzi, capocronista, è diviso dalla moglie: vive con un figlio adulto, ma i due non hanno nulla da dirsi. Il Melandri fa l’architetto, e si vanta d’avere una bella voce. Il Necchi fa il barista: gli è morto un bambino ma non ha perso l’allegria. Il più scalcinato è il Mascetti, un nobile decaduto che pur avendo moglie e figlia da sfamare se la fa con una studentessa minorenne, un tipo che vi raccomando. Quattro amici, di scuola e di caserma, che si comportano da ragazzacci, da goliardi, e da fiorentini di buona razza. Dunque da buffoni, ma anche da eredi di Buffalmacco. La loro massima gioia è stare insieme, andar vagabondi fra città e collina, prendere per il bavero la gente e sfottere se stessi. Traguardo estremo: distruggere i minchioni. A qualcuno le loro avventure sembreranno cretine, ma un toscano di sangue sano troverà sublime il correre alla stazione a schiaffeggiare gli indifesi viaggiatori;- in partenza affacciati ai finestrini mentre il treno si muove e non possono reagire, o piombare in un paesotto e spargere il terrore fingendosi mandati a scegliere le case da abbattere subito per una nuova autostrada. Gianburrasca faceva qualcosa del genere. Viviamo in un mondo dove la cattiveria è l’unica forma rimastaci di libertà.
I quattro cavalieri dello scherno, che ridotti malconci da un incidente d’auto hanno messo a soqquadro un ospedale, a un certo momento divengono cinque. È quando, per essersi il Melandri faticosamente liberato d’una signora che gli aveva fatto girare non soltanto la testa, al gruppo si aggiunge il marito di lei, un chirurgo illustre meritatosi fiducia proprio accanendosi contro di loro. Scroccare un pranzo facendosi passare per invitati a un ricevimento di snob, e giocare uno scherzo stercorario ai genitori patrizi d’una bimbetta, sarà il meno: il capolavoro verrà quando, adocchiato il Righi, un poveraccio disposto a tutto pur di arrotondare la pensione, gli fanno credere di essere criminali incalliti, dentro il giro della droga, e il chirurgo il loro boss, e lo coinvolgono in una falsa sparatoria con una supposta banda di marsigliesi. Per liberarsene, gli daranno a intendere che il boss è morto, e lo spediranno a Reggio Calabria camuffato da frate. Ma lo rivedremo, e sarà nel momento che è la chiave del film. Mentre ai funerali del Perozzi (burlatosi anche del prete venuto a benedirlo), i quattro amici superstiti, per un momento smarriti, non sapranno soffocare la risata: felici d’aver preso a gabbo, col povero Righi, anche la morte. L’ultima cosa di cui aver paura, quando nemmeno la vita merita d’essere presa sul serio se non è una continua, disperata e se occorre malvagia sfida dell’intelligenza alla meschinità quotidiana.
Film molto più elaborato di quanto sulle prime possa sembrare, Amici miei è l’analisi di un modo di esistere a cui concorrono opposti elementi: l’oltranza del ferire e la ferocia autodistruttiva; l’elogio della vita come gioco, che quando uno esce di scena gli altri continuano il girotondo, e la condanna dell’infantilismo, socialmente improduttivo e politicamente reazionario; la lode dell’amicizia ma anche la sconsacrazione del suo mito; la gelosia degli intellettuali verso i semplici che si divertono gratis e lo sdegno per il loro disimpegno. In Amici miei c’è tutto questo, un po’ alla rinfusa, senza la compattezza d’ispirazione che avrebbe potuto mettervi uno scrittore alla Malaparte e la coerenza ideologica che aveva per esempio La grande abbuffata (un film cui per molti versi somiglia, mancando invece qualsiasi rapporto con I vitelloni, tanto sognatori quanto i fiorentini si tengono al sodo), e con sbalzi di corrente nella tensione narrativa. Ma con una varietà di prospettive, e un divertito sgomento nella perfidia, che conferiscono mordente a quasi tutte le situazioni. E, anche grazie alla fotografia di Kuweiller, con lividi riflessi nella gran baldoria, che la dilata ad affresco di città.
Chiamato dalla fiducia di Germi a realizzare il progetto, Mario Monicelli deve essere contento di sé. Ha reso un omaggio intelligente alla memoria di un amico, e ampliando gli schemi della commedia all’italiana col custodire la polivalenza di significati del soggetto ha saputo raccogliere intorno al film le simpatie di spettatori molto diversi: dei meno esigenti, che rideranno vedendo quante forme possa prendere la virtù fantastica della canzonatura (il Mascetti, che aggiunge un tocco di follia verbale agli sberleffi degli amici, è col Melandri il personaggio meglio riuscito), e di quelli più pensosi e più colti, che riconosceranno in queste cronache sarcastiche l’eco d’una lunga tradizione letteraria, il piacere del cinema della naturalezza, l’assillo d’una scelta esistenziale. Gli uni e gli altri faranno festa a Tognazzi e a Philippe Noiret, tornati a dire insieme la loro grande ricchezza espressiva, ma saluteranno con simpatia anche Gastone Moschin, Adolfo Celi e Duilio Del Prete (le donne, belle e/o brave, sono Olga Karlatos, Silvia Dionisio, Milena Vukotic e Angela Goodwin). Una partecipazione coi fiocchi dà Bernard Blier. Nel ruolo attonito del Righi egli è il Calandrino d’un film che forse, con una punta in più di tragico, sarebbe piaciuto persino al Boccaccio. Certamente a Germi, che dunque aveva ragione di spera.
Giovanni Grazzini, Corriere della Sera (27/07/1975)
Dal 1975 ad oggi, "Amici miei" è entrato nelle case e nel cuore di tutti. E' una commedia estremamente divertente, in cui una riflessione dolceamara sulla vita fa da sottofondo ad una serie di gag strepitose e geniali.
"Amici miei" è la storia di quattro amici di mezza età, che non hanno mai perso il loro spirito allegro con cui affrontare la vita. Irresistibilmente attratti dalla celia, approfittano di ogni occasione per mettere in atto qualche fantasiosa goliardata: una battuta brillante, una frecciata ironica o una burla geniale, che può essere improvvisata ma anche architettata durante una gita fuori porta (la famosa "zingarata", termine entrato nel linguaggio comune soprattutto proprio grazie al film).
In conseguenza di un'intricata storia d'amore, al quartetto si aggiunge un quinto elemento, che in breve tempo si integra perfettamente al resto del gruppo, diventando anch'egli pedina essenziale nell'ordire scherzi elaborati ed indimenticabili.
La filosofia del non prendere nulla sul serio viene applicata con estrema coerenza. Ogni persona può essere vittima (studentesse e paesani, vigili e pensionati). Ogni luogo può essere lo scenario ideale (un ospedale o una villa, un paese o una stazione). E ogni momento può essere sdrammatizzato, persino la morte di uno degli amici.
"Amici miei" è una pietra miliare del cinema, l'apoteosi della commedia italiana.
Su una colonna sonora vagamente malinconica, che diverse volte ritorna su un notissimo tema verdiano tratto dal "Rigoletto" (chi non ha mai canticchiato "Bella figlia dell'amore" dopo aver visto il film?), si susseguono scene memorabili: il ricovero in ospedale e il corteggiamento di Donatella; l'imbucata alla festa; l'ossessione del Mascetti che chiede sempre "un gettone" per chiamare la sua Titti; lo scherzo a Nicolò Righi, "pensionato delle poste". Ma ci sono soprattutto due trovate che sono divenute le più conosciute, indimenticabili e copiatissime: la supercàzzola e gli schiaffi alla stazione.
Nei suoi toni scanzonati e nelle sue riflessioni esistenziali, "Amici miei" potrebbe essere la storia di ogni amicizia. Un sempreverde adatto per ogni generazione, perché cambiano le città, il vestiario, il modo di vivere e il tempo in cui si vive; ma il piacere cameratesco, goliardico, spensierato dello stare insieme è una sensazione che ogni uomo è destinato a sperimentare nella sua vita. Chiunque potrebbe far proprie le riflessioni del Perozzi:
"Cari amici miei. Mentre me li guardo a uno a uno mi domando, con improvvisa tenerezza, come mai quest'amicizia è durata tanto. Un'amicizia con regole precise anche se non ce le siamo mai dette. (...) E poi il diritto al reciproco sfottimento e alla canzonatura. E la totale e tacita solidarietà appena si tratta di giocare con l'esistenza. Ma più che altro la voglia di ridere e il gusto difficile di non prendersi mai sul serio".
"Amici miei" è celebrazione dell'amicizia sincera e spensierata, un unico linguaggio che accomuna persone radicalmente differenti. Basti pensare ai protagonisti: uomini dai caratteri diversi, che appartengono alle più disparate classi sociali e che vivono vicende amorose e familiari totalmente differenti.
Il Perozzi, voce narrante, è redattore presso un giornale. Un burlone, ma calmo e riflessivo. Ha un figlio ed è separato dalla moglie.
Il Melandri è un architetto. Un single estremamente facile all'innamoramento, passionale, a tratti isterico.
Il Mascetti è un conte decaduto. Povero ma orgoglioso, cerca sempre espedienti con cui mantenere moglie e figlia, ma nel frattempo impazzisce per la sua giovane amante.
Il Necchi, brillante e sereno, è proprietario di un bar e sembra felicemente sposato.
Il Sassaroli è un uomo di carattere. Medico stimato e benestante, abbandona la moglie, viziata e instabile, e il resto della famiglia in mano al Melandri, che se n'era innamorato.
Questi uomini non potrebbero essere più diversi tra loro. Eppure, la loro amicizia azzera le differenze. Non più "io", ma "noi": si passa alla dinamica del gruppo, assurto a valore tanto importante da entrare in competizione con altri valori primari, come la famiglia. Un legame così stretto che nulla (forse la morte, o forse nemmeno quella) è in grado di comprometterne la solidità.
Il gruppo è allora espressione di amicizia parificatrice e salvifica, vissuta in uno spirito divertito che esalta l'umanità dei protagonisti. Ecco perché si può dire che questo film, parlando di ogni uomo, parla ad ogni uomo.
Se in "Amici miei" si dovesse individuare una filosofia di vita, sarebbe senz'altro il non prendere mai nulla sul serio. Nemmeno sé stessi.
Si pensi al Perozzi. Un geniale burlone che vive solo. Come se avesse preferito perdere moglie e figlio, piuttosto che la capacità di sorridere. Una capacità che i musi lunghi non sanno perdonare: nell'ipocrisia sociale, è frequente l'accostamento della "risata" alla "immaturità". Il rimprovero del figlio è per il giornalista occasione di una riflessione esistenziale semplice, lineare, ma significativa:
"Io restai lì a chiedermi se l'imbecille ero io, che la vita la pigliavo tutta come un gioco, o se invece era lui, che la pigliava come una condanna ai lavori forzati, o se lo eravamo tutti e due. Lui è un leopardiano. E io no. Leopardi, seduto dietro la siepe, in cima alla collina, pensando all'infinito si metteva a piangere a dirotto. Io invece dopo un po' mi metterei a ridere. E trovo questa mia posizione altrettanto rispettabile e degna di considerazione."
Questo spirito monicelliano non è assolutamente superficiale.
Da una parte, i pessimisti potrebbero definirlo "fuga dalla realtà": una zingarata è una dolce parentesi che allevia il mal di vivere; una risata allevia l'uomo dal pesante pensiero della vecchiaia e della morte. E' un dubbio che per un attimo si affaccia anche alla mente del Perozzi: "Notti, giorni, amori, avvenimenti. Ho già sulle spalle un bel fardello di cose passate. Che sia per questo, per non pensarci, per non sentire il peso di tutto questo, che mi ostino a non prendere nulla sul serio?".
Dall'altra parte, gli ottimisti potrebbero definirlo "stile di vita": la vita merita di essere vissuta perché in ogni attimo se ne può ricavare un sorriso. Si pensi al Mascetti, dalla vita misera e miserevole. Eppure...
"Era felice. Questa è la sua forza e la sua bellezza. Gli basta una farfalla, nel buio più nero, per dimenticare sciagure e difficoltà; gli basta un estro di gioco o di scherzo, o una commozione che lo prenda all'improvviso, e tutta la vita gli ridiventa gioco, o scherzo, o commossa partecipazione".
Evidentemente ogni uomo ha diritto di decidere come leggere la propria vita. Entrambe queste riflessioni, come direbbe il Perozzi, sono rispettabili e degne di considerazione.
L'uomo dovrebbe solo ricordare che è molto più facile piangere su tutto che ridere di tutto.
I nomi che lavorano ad "Amici miei" sono essi stessi garanzia di qualità.
Il cast è stellare: i cinque amici sono interpretati da Philippe Noiret, Ugo Tognazzi, Adolfo Celi, Gastone Moschin e Duilio Del Prete.
L'idea originale risale a Pietro Germi (1914-1974), importante sceneggiatore e regista (tra gli altri lavori "Divorzio all'italiana", "Sedotta e abbandonata" e "Serafino") che, a causa della malattia, dovette cedere il progetto all'amico Monicelli.
Mario Monicelli è stato un gigante del cinema italiano.
La sua lunga vita (1915-2010) si spegne tragicamente nel nuovo millennio dopo aver attraversato l'intero "secolo breve". Monicelli è l'italiano novecentesco per eccellenza: spettatore di tutti i tragici eventi storici del secolo scorso e delle evoluzioni sociali del Paese, egli ne vive la drammaticità riproponendola nei suoi lavori ("La grande guerra", "I compagni", "Un borghese piccolo piccolo"). Anche la commedia monicelliana è sempre calata in un contesto storico e sociale ben definito, che funge da sottofondo agli eventi vissuti da protagonisti che fanno ridere e piangere, sorridere e riflettere ("Vogliamo i colonnelli", "I soliti ignoti").
Nelle opere del Maestro vengono immortalati i tratti peculiari dell'italianità. Monicelli ritrae l'italiano come il cittadino di un Paese inquieto e difficile, un uomo che può essere mammone, pavido e farfallone, ma che nel momento della prova sa dimostrarsi estremamente risoluto, generoso ed ottimista. Una nobile macchietta, un perdente dal grande cuore ("Un eroe dei nostri tempi", "Il Marchese del Grillo"). Questi sono i tratti che caratterizzano la commedia di Monicelli: un'ironia mai fine a sé stessa, che non scade mai nel demenziale, ma che è sempre percorsa da una leggera venatura drammatica. O forse al contrario: una drammaticità che non scade mai nel patetico, ma che viene sempre stemperata nelle tragicomiche vicende dei piccoli grandi eroi nostrani. Personaggi che diventano icone del cinema, resi indimenticabili dalle interpretazioni dei più grandi attori del "gotha" cinematografico italiano: tra gli altri, Totò, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Alberto Sordi.
Monicelli è da annoverare tra i padri della migliore commedia italiana, un genere a cui il Maestro ha saputo dare un rinnovato lustro, tanto da rendere le commedie italiane note in tutto il mondo. Il suo indiscusso talento e la sua creativa genialità, premiati con numerosi riconoscimenti a livello internazionale, hanno fruttato al regista ben sei nomination agli Oscar. Un livello impensabile per le commedie nostrane d'oggigiorno.
Se il lascito artistico di Monicelli consiste in un'enorme produzione cinematografica (regista di oltre sessanta film, sceneggiatore di un centinaio), il suo lascito morale risiede nello spirito sagace, intelligente ed ottimista con cui abilmente sdrammatizzava ogni situazione. Sul suo sito ufficiale campeggia tutt'oggi una significativa citazione di Sant'Agostino: "Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra".
ilSimo81
Hola, me parece que esté pasando algo raro, la función "buscar este blog" (la ventanilla a la mano derecha) no anda, o sea al pinchar "Buscar" no sucede nada... y además, tampoco anda la busqueda avanzada de Google: si introduzco una palabra que por seguro está presente en el blog (por ejemplo "film") y especifico que la busque en el dominio "elcineitaliano.blogspot.it", no restituje nada... hasta hace no mucho tiempo se podía buscar todo con ambos métodos, ¿qué ha pasado?
ResponderEliminarEstoy tratando de averiguar cual es el problema. Lo único que puedo decir es: "Yo no toqué nada"
EliminarGRAZIE MILLE!!! Amarcord.Film IMPERDIBLE,de lo mejor de los 70,con un Tognazzi
ResponderEliminaren estado de gracia.
Un cordial saludo.
Pd: A mí tambien me pasa con la función "buscar este blog" lo mismo que han
comentado en el anterior mensaje.
Eddelon.
Eddelon
EliminarEstoy tratando de averiguar cual es el problema. Lo único que puedo decir es: "Yo no toqué nada"
No sobra decir que "¡yo tampoco toqué nada!" jejejeje ;o) Vale, era solo para informarte, en el caso de que no te hubieras percatado... ¡buen trabajo y gracias por todo! :o)
ResponderEliminarTodo bien amico,esperemos que se arregle.
ResponderEliminarUn cordial saludo.
Eddelon