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jueves, 14 de noviembre de 2013

Professione: Reporter - Michelangelo Antonioni (1975)


TITULO ORIGINAL 
Professione: Reporter 
AÑO  
1975
IDIOMA  
Italiano y español (Dual: pistas separadas)
SUBTITULOS  
Español (Separados)
DURACION 
119 min.
DIRECCION  
Michelangelo Antonioni
GUION 
Mark Peploe, Michelangelo Antonioni, Peter Wollen (Historia: Mark Peploe)
MUSICA  
Ivan Vandor
FOTOGRAFIA  
Luciano Tovoli
REPARTO  
Jack Nicholson, María Schneider, Jenny Runacre, Ian Hendry, Ambrose Bia, Steven Berkoff, José María Caffarel, James Campbell, Manfred Spies, Jean-Baptiste Tiemele, Charles Mulvehill, Ángel del Pozo, Narciso Pula, Gustavo Re, Joan Gaspart
PRODUCTORA  
Coproducción Italia-Francia-España; Compagnia Cinematografica Champion / CIPI Cinematografica S.A. / Les Films Concordia
GENERO  
Intriga. Drama. Aventuras. Thriller. Romance | Road Movie. África. Periodismo
 
Sinópsis
Un desilusionado periodista emprende una peligrosa investigación sobre las intrigas políticas internacionales que facilitan la implantación de regímenes dictatoriales en algunos países africanos, lo que le hará vivir situaciones muy arriesgadas. (FILMAFFINITY)
 
Premios
1975: Festival de Cannes: Nominada a la Palma de Oro (mejor película)

1
Sub 

Trama
David Locke è un reporter 37enne, nato in Inghilterra e cresciuto in America, apprezzato nei suoi servizi televisivi perchè dotato di uno straordinario spirito di osservazione come dichiara il suo produttore Martin Knight. Mentre si trova in uno sperduto e sinistro alberghetto sahariano scopre casualmente il cadavere di un certo Robertson al quale, approfittando di certe somiglianze somatiche, si sostituisce. Entrato in questo giuoco per fuggire dal passato e dal presente che l'hanno nauseato, seguendo le indicazioni di un libretto d'appunti dello scomparso - che scopre essere un mercante d'armi schierato dalla parte del Fronte Unitario di Liberazione di un nuovo Paese africano- vaga da Monaco a Ginevra a Barcellona. Sua moglie, decisa a rintracciare Robertson per saperne di più sulla scomparsa del marito, involontariamente muove attorno al marito il meccanismo della polizia e della diplomazia collegate. Locke vorrebbe desistere, ma viene stimolato e aiutato da una conosciuta studentessa che lo accompagna da Barcellona ad Almeria. Qui, prima che dalla moglie e dalla polizia, viene raggiunto dai killers del dittatore africano deciso ad eliminarlo.

Critica
Inviato nell'Africa settentrionale per un servizio sulla guerriglia, David Locke, giornalista televisivo anglo-americano, assume i documenti e l'identità di un certo David Robertson, morto d'infarto in un hotel del Sahara. E come se, fra tutte le vite, sorteggiasse una vita qualunque, lasciandosi sedurre dall'avventura di esistere in un altro modo, pur intuendo e poi sapendo che questa seduzione porta soltanto a uno scacco o alla morte. Così accadrà. Da un soggetto di Mark Peploe che ha collaborato alla sceneggiatura con David Wollen e il regista, è uscito un "film intimista d'avventure", un giallo che si porta addosso un mistero. Questa ossatura narrativa non nuova in Antonioni e, come il solito, incongruente e persino inattendibile si confronta col mestiere di riferire la verità (?) e si esprime con la tecnica dell'intervista. "... si ha la sensazione che una mano documentaria segua e registri la mano che sta inventando la storia e che si crei una tensione fortissima fra queste due mani, che è la vera tensione del film" (Furio Colombo), quasi si tentasse di dare una verità più grande di quanto ne possa contenere la trama. Ma il film può essere letto anche come un'autobiografia e un'autocritica. Allora acquistano un senso più profondo la contrapposizione tra gli sfondi desertici del Sahara e le eccentriche architetture di Antoni Gaudi a Barcellona, l'ossessivo indugio sul bianco come colore di morte, le 2 figure femminili (la moglie che, infaticabile e ottusa, cerca le "prove"; la piccola santa senza speranza di M. Schneider), la celebre, virtuosistica sequenza finale di 7 minuti. Fotografia di Luciano Tovoli. In Spagna: El reporter; nei Paesi di lingua inglese: The Passenger.
Il Morandini - Dizionario dei film, Zanichelli

Un fotoreporter, David Locke, si trova per motivi di lavoro nello scalcinato alberghetto di una sperduta località sahariana. Locke è disperato senza un vero motivo. O meglio i motivi non mancherebbero, Locke non ama più sua moglie né il suo lavoro, non crede più a niente e a nessuno; ma il vero motivo, più profondamente, è che non ce la fa più a stare con se stesso. Nell'albergo c'è un commerciante, David Robertson, che somiglia curiosamente a Locke, quasi un sosia. D'improvviso, Robertson, che è malato di cuore, viene a morire. Allora Locke, nella speranza di riprendere gusto alla vita cambiando identità, sostituisce i documenti del morto con i propri, mette la roba propria al posto di quella del morto. Il trucco riesce. Il falso Locke, dopo un facile nulla osta, viene seppellito nel deserto; il falso Robertson vola verso una nuova vita. Ma cambiare identità non vuol dire cambiare se stessi; vuol dire cambiare la situazione sociale non quella esistenziale. Locke, mettendosi al posto di Robertson, si è disfatto dei propri motivi di vita, così insufficienti e così illusori; ma non per questo si è appropriato di quelli del morto. Locke scopre che Robertson trafficava in armi; ma non scopre, e come potrebbe? il segreto fulcro di quella vita. Così, pur nei panni del morto, Locke, più disperato che mai, continua a andare alla deriva. Con l'aggravante che Robertson era coinvolto in faccende complicate e pericolose per le quali ci vuole un'energia vitale che a lui fa completamente difetto. Locke per un poco vive sulla falsariga del morto; e cerca di inserirsi nel traffico di armi; ma ben presto si accorge che le armi gli interessano ancor meno delle fotografie. Va a Monaco, si incontra con gli emissari della guerriglia, accetta elogi e denaro; poi va in Spagna a fare il turista, si imbatte a Barcellona in una bella ragazza, ci fa l'amore. Ma apprende di essere ricercato così dalla moglie poco persuasa dalla sua fine come dai killer dell'antiguerriglia che gli stanno alle calcagna per ucciderlo; e allora, si rassegna e si reca all'appuntamento con la morte in un qualsiasi sonnacchioso villaggio spagnolo. Il sua cadavere viene presentato, per il riconoscimento, alle due donne delle sue due vite: la moglie inglese e l'amante spagnola. La prima comprende e nega di averlo mai visto; la seconda comprende anche lei e conferma che è Robertson. Questa volta Locke è davvero morto, definitivamente e completamente.
Questa storia di Professione: reporter, ultimo film di Michelangelo Antonioni, a tutta prima fa pensare al Fu Mattia Pascal di Pirandello. Ma Pirandello vuole dimostrare, in maniera sarcastica e paradossale, che l'identità è un mero fatto sociale, cioè che esistiamo in quanto gli altri riconoscono la nostra esistenza; mentre Antonioni sembra pensare giusto il contrario e cioè che esistiamo, sia pure come grumo di dolore, anche e soprattutto fuori della società. E infatti il discreto simbolismo del deserto nel quale Locke cerca di sfuggire al deserto della propria vita, indica il vero tema del racconto: il suicidio come unico mezzo per liberarsi di un'identità che è insopprimibile coscienza esistenziale. Locke si suicida due volte, una prima volta distruggendo la propria identità civile, come il personaggio pirandelliano; una seconda volta lasciando che i killer distruggano la sua identità fisica. Ma perché Locke si uccide? Probabilmente per il motivo per cui tanti oggi lo fanno: per l'impossibilità di conferire alla propria esistenza un valore simbolico, ossia un significato che in qualche modo la trascenda. Il doppio suicidio di Locke a questo punto proietta una luce rivelatrice sul mondo occidentale al quale egli appartiene, diventa esemplare di una condizione universale.
Michelangelo Antonioni, con Professione: reporter ha fatto il suo film più rigoroso ed essenziale. Fedele al principio che l'arte consiste più nel togliere che nel mettere, più nell'assenza che nella presenza, Antonioni non ha mai avuto la mano così leggera, così reticente e così allusiva. L'avventura di Locke è data per tocchi di una discrezione che rasenta l'impercettibile. L'intercambiabilità angosciosa dei luoghi, delle situazioni e delle persone nel mondo moderno è appena accennata; fatti massicci come l'amore e la morte sono sfiorati con qualche immagine fuggitiva e poi si passa ad altro. Fino all'ultima sequenza, forse la più bella, tipica del metodo di Antonioni, in cui la morte di Locke è trasferita senza residui nel tran tran quotidiano del borgo spagnolo. A questo punto si potrebbe anche sostenere che un simile modo di narrare mal sopporta quel tanto di romanzesco che c'è nel tradizionale intreccio proprio della sostituzione delle persone. Di solito Antonioni non raccontava una storia; i suoi film erano pure rappresentazioni di situazioni esistenziali. Non così Professione: reporter. Ma bisogna riconoscere che mai intreccio fu eluso con tanta accanimento. E infatti il film segna un ritorno di Antonioni, dopo i più “sociali” Blow Up e Zabriskie Point, all'originarla tematica esistenziale.
Jack Nicholson è ineccepibile a forza di bravura e di naturalezza; ma il dolore di cui è addirittura materiato il suo personaggio non sembra essere sempre presente alla sua attenzione. Maria Schneider, stranamente somigliante ad Eleonora Duse, conferma definitivamente in questo film, con un gioco di fisionomia che ricorda appunto la grande attrice italiana, le sue qualità interpretative e fotogeniche.
Alberto Moravia (sta in Moravia al/nel cinema, Ass. Fondo A. Moravia, 1993), L'Espresso (09-03-1975)
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Uno de los planos secuencia más complejos a la hora de rodar por su dificultad técnica es el que concluye la película Professione: Reporter (título internacional The Passenger; en España, El Reportero), de algo más de seis minutos y del que sabemos gracias a los extras incluidos en el DVD y a los comentarios al respecto de Jack Nicholson. La escena comienza en el interior de una habitación: vemos a Nicholson tumbado en la cama y la cámara enfoca el exterior a través de los barrotes de una ventana. Estamos en una polvorienta plaza de un lugar al norte de África. La cámara se acerca lentamente a la ventana, parece querer saber más sobre qué sucede en el exterior. Atraviesa los barrotes y la escena continúa, girando en el sentido de las agujas del reloj, hasta completar 360 grados. Podemos hacer conjeturas sobre con qué tipo de zoom logra Antonioni traspasar los barrotes y  girar el objetivo, pero todas se nos derrumban cuando la cámara, sin un solo corte, enfoca de nuevo la habitación desde el exterior. ¿Cómo se rodó esta  secuencia continua, dando además la sensación de estar hecha cámara al hombro?. Hay que añadir que era de día y vemos que  había viento en la plaza, y en la escena no se ven brillos ni cambios de luz cuando avanza hacia el exterior. Según parece, Antonioni colocó la cámara dentro de una esfera para que el viento no distorsionara la nitidez de la imagen y rodó por la tarde, cerca del anochecer, aprovechando que la luz más brillante estaba cerca de la ventana. Pero claro, una cámara dentro de un habitáculo esférico no cabe entre los estrechos barrotes de la ventana. La solución fue un artilugio a modo de raíl colocado en el techo de la habitación desde el que  colgaba la esfera, deslizándola muy despacio hasta los barrotes. En el exterior esperaba una grúa de casi 30 metros de altura de la que pendía un gancho que recogería la cámara. Además, se utilizó un sistema de giroscopios para mantener el equilibrio durante el cambio de pista. Por otro lado, los barrotes estaban montados a modo de bisagra, de modo que cuando la cámara está lo suficientemente cerca como para que dichos barrotes quedaran fuera del campo de visión, se detiene unos segundos hasta que la grúa puede hacerse cargo de la continuación de la secuencia sin interrupción alguna. Todo transcurre por tanto con una lentitud asombrosa. Fue necesario también ampliar la lente suave y lentamente para dar la sensación de continuidad en el movimiento, pero en realidad la cámara está parada hasta que la grúa logra recogerla y proseguir con la secuencia. Antonioni dirigió todo el proceso desde una furgoneta situada en el exterior, a través de monitores y micrófonos mediante los que comunicaba las instrucciones paso a paso y dirigía a los operadores

“En los espacios vacíos y callados del mundo, él ha encontrado metáforas que iluminan los sitios silentes de nuestros corazones, y hallado en ellos, también, una belleza extraña y terrible; austera, elegante, enigmática y obsesiva“, dijo el actor Jack Nicholson en la entrega del Oscar honorífico a Antonioni, en 1994. Nicholson era, junto a María Schneider, el protagonista de The Passenger.

La película se basa en un guión escrito por el propio Antonioni, Mark Peploe y Peter Wollen. Se rodó en exteriores de Argelia (Fort Polignac), Londres, Munich, Barcelona, Almería, Málaga y Osuna (Sevilla). Producida por Carlo Ponti, fue nominada a la Palma de oro de Cannes.


Il reporter televisivo David Locke trova nell’albergo africano dove alloggia il cadavere di un uomo che gli somiglia. Ne assume l’identità sperando di lasciarsi alle spalle i propri problemi e parte per Monaco di Baviera com’è previsto dall’agenda dell’uomo, ma si ritrova invischiato in un caso di traffico di armi…

Uno dei migliori, se non il migliore, film di Michelangelo Antonioni. Nelle parole dello stesso regista, «l’arte di trasformare un intrigo poliziesco in una meditazione sulle pene della vita, sull’impossibilità di capire la realtà e di cambiare la propria personalità, ed il proprio destino, insieme con la propria identità».

Attraverso l’identità del morto, Locke è convinto di poter dare un nuovo significato alla sua vita, non riuscendo a capire che anche con un diverso nome, lui rimane sempre la stessa persona.
Questa incapacità di comprendere, questo limite nella sua visione delle cose, è il tema principale di un film tecnicamente perfetto ma narrativamente enigmatico (volutamente). La solitudine dell’umanità è evidentemente quello che Antonioni voleva raccontare attraverso questa pellicola. Ne è esempio sufficiente l’ultimo – magnifico – piano sequenza, con la macchina da presa che lascia Locke steso sul letto nella sua camera d’albergo ed esce lentamente (ci mette dieci minuti!) dalla stanza inquadrando nel suo cammino un’umanità di persone affaccendate che si contrappongono all’inerzia del protagonista.

Il senso di Antonioni per la composizione visuale è qui ai massimi livelli, utilizzando gli attori quasi come burattini (compreso l’ottimo Jack Nicholson, che mai ha occasione di mostrarci il suo celebre ghigno) e costruendo sequenze che contrappongono benissimo il personaggio protagonista della scena con l’ambiente vuoto in cui si muove. E questa costruzione dell’immagine lungo tutto il film è ciò che rende evidente – ed efficace – il messaggio. È davvero una vuota esistenza, la nostra.
Alberto Cassani
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Il reporter David Locke è in Africa per lavoro. Nell’albergo in cui soggiorna ha come vicino un uomo di nome David Robertson. I due parlano, fanno amicizia. Quando Robertson muore, Locke, che l’ha trovato deceduto nel letto, scambia i passaporti e, sfruttando la somiglianza che c’è fra i due, rinasce sotto falso nome. Si trasferisce dapprima in Germania, dove viene scambiato effettivamente per Robertson; solo ora Locke viene a conoscenza del suo vero mestiere, mercante d’armi per una guerriglia in alcuni territori africani.
La vita di Robertson era in pericolo, ma la morte è avvenuta per cause naturali: infarto; ora il nuovo Robertson soggiorna a Barcellona, ma è nel mirino di personaggi malavitosi che tentano alla sua vita, cercherà di scappare aiutato da una studentessa, ma non avrà scampo.

Antonioni realizza un nuovo film sul tema della visione. 
Il cast conta tra gli attori principali Jack Nicholson e Maria Schneider, e protagonista per eccellenza in molte delle sue opere: la macchina da presa. La soggettiva preferita di Antonioni, specie in Professione: reporter, è proprio quella della cinepresa. Un obbiettivo che scruta non solo le vicende intricate dei personaggi, ma anche l’ambiente, che come ne “L’avventura” svolge un’importanza pari a quella degli attori. Il deserto immenso che abbraccia le figure di Nicholson e della sua auto, ingolfata fra le dune, ha una pressione incisiva sul personaggio, l’aria afosa e asfissiante danno l’idea della sua esistenza stritolante, che non dà tregua. La moglie, il lavoro sono elementi da cancellare, David (Locke) non resiste e appena gli viene offerta, dal caso (o dalla morte), l’occasione per evadere egli va, disposto ad abbandonare tutto. Non sa molto su David (Robertson), e non gli interessa: deve scappare.
Quando egli è in macchina con la studentessa, lei domanda “Da chi scappi?” la sua risposta è “Guarda dietro di te. E lo vedrai”.
Dietro di loro, una strada vuota.
David fugge dal passato. Scappa da tutto, ricomincia daccapo, ma la destinazione inevitabile è la morte.
La macchina da presa osserva tutto, gli oggetti, le strade, guarda ed è addirittura ricambiata da un fuggevole sguardo di Nicholson nell’obbiettivo mentre egli stesso sta riprendendo un uomo da intervistare. Gli oggetti vengono analizzati e seguiti, ad esempio in albergo prima che il cameriere porti l’acqua fresca, il nostro sguardo è indirizzato verso il cavo della luce, sul quale scruta una mosca, seguiamo il filo verso l’alto sin quando una porta sposta la nostra attenzione e si passa all’azione: l’entrata in scena del cameriere è solo uno stacco dal ruolo svolto dal filo elettrico. Il primo ha maggior rilievo per lo svolgimento dell’azione, il secondo è puro materiale diegetico, che induce una digressione, forse non utile sul piano narrativo ma altrettanto reale come un’inevitabile divagazione di un oratore.

La visione dunque, il mezzo, il modo e il perché vedere sia così essenziale. 
Il discorso finale di David che anticipa nella sua rassegnazione l’epilogo della vicenda, non è d’accordo sull’utilità della visione. Steso sul letto sente il bisogno di un tramite, in questo caso la ragazza che affacciata alla finestra riverisce ciò che lui non vede, e racconta il caso di un cieco che in età matura acquisisce la vista: ripugnato dalla miseria del mondo, si lascia morire, chiuso in casa. Ma è forse solo una versione pessimistica cui Antonioni non aderisce.

Paesaggi, inquadrature vuote, spazi vuoti: il vuoto come produttore di senso. 
L’incertezza è il valore più nitido, la probabilità di ciò che accadrà, la somiglianza fra due uomini con lo stesso nome di Battesimo, il senso di libertà di David dovuto alla sua permanenza in una nuova città – Barcellona –  senza un lavoro da svolgere, una donna a cui dare spiegazioni: l’incertezza della libertà. E come insegna la Storia la libertà ha vita breve, le giornate oziose di David si complicano, la Storia gli si ritorce contro, dopo aver scoperto di essere stata gabbata.
Il caso offre a David Locke la sua grande occasione: in una delle inquadrature più sintomatiche Nicholson ha trovato il cadavere del vicino. È steso a faccia in giù nel letto, lo capovolge. Poi lo guarda in faccia. È in questo momento che David si specchia nel cadavere dell’amico: lo guarda in volto, lo scruta in lui vede se stesso ed è ora che capisce che tutto può cambiare. Non resta che scambiare la fotografia nei due passaporti e sarà la rinascita.

In un’altra inquadratura è invece ambientata la morte. 
Essa dura quasi otto minuti ininterrotti, in cui Antonioni regala uno dei brani più alti. Malgrado Orson Welles lo odiasse appunto per la tendenza ad allungare il tempo di una inquadratura, nel finale di Reporter la macchina da presa compie un tragitto a dir poco bizzarro e grandioso. Nicholson è nell’albergo, cercato dalla polizia e da dei sicari, è nel letto, al centro dell’immagine una portafinestra in barre di ferro: la macchina con un carrello lentissimo si avvicina, noi vediamo alla perfezione ciò che accade all’esterno, macchine che arrivano, la studentessa che cammina. Ora Nicholson è fuori campo, la finestra sempre più vicina: sono arrivati i sicari, sentiamo dei rumori all’interno della stanza: sono entrati. Vediamo uno degli uomini, fuori che distrae la Schneider, poi altri rumori e, nascosto dal rombo del motore di un auto, ecco lo sparo. Presto arriva l’auto della polizia, nel frattempo la cinepresa avanza passa fra due sbarre della finestra, esce fuori nel cortile inquadra gli esterni sino a riprendere la finestra in un esatto controcampo dei primi fotogrammi dell’inquadratura. La moglie di David finalmente l’ha trovato, ma finge di non riconoscerlo. Anche la studentessa è entrata: dichiara che il cadavere appartiene a Robertson.
Per girare questa splendida sequenza Antonioni ha escogitato, oltre al carrello posto all’interno della camera da letto di Nicholson, una gru che, mentre le sbarre della portafinestra lentamente si aprivano, agganciava la macchina e la trasportava lungo il cortile, tutto in sette minuti privi di musica, ma nei quali i rumori svolgono un ruolo fondamentale.

La certezza della visione diviene oggetto indefinito, discutibile, però mai pienamente criticata. Anche la morte di David è suggerita, in fuori campo, come tutti fatti di cronaca che vengono alla luce solo dopo che accadono.
Un Jack Nicholson freddo e spaesato per paesaggi caldi e solitari in un film metalinguistico e d’avventura. Non a caso il regista lo definì film “intimista d’avventure”.
Un esempio calzante di Cinema Moderno.
Luca Martello
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Girato tutto in lunghi piani sequenza e basato interamente sulla storia di un reporter che per una casualità della vita si trova ad avere l'occasione di cambiare identità (inscenando la sua morte e assumendo l'identità del vero morto) e quindi vita, Professione: Reporter è lunga divagazione sul tema dell'alterità e dell'impossibilità di conoscere il reale.
Dopo la trilogia sull'incomunicabilità arriva quella americana (questo film assieme a Blow Up e Zabriskie Point) dove il cinema si fonde alle istanze di fine anni '60 di liberazione dalla realtà, superamento della materialità e quindi corrispettiva impossibilità di scandagliare di capire ciò che ci circonda.
Il reporter che cambia identità e si ritrova ad un certo punto a sua insaputa ad essere un mercante d'armi, è una figura ancora una volta metaforica, ancora una volta simbolo, ancora una volta emblema.
Il già per me molto fastidioso cinema di Antonioni fatto di silenzi, lungaggini e "grande profondità d'intenti" si arricchisce di un ennesimo capitolo, senza che nulla di diverso possa arrivare. Tutto è ancora affidato alle allegorie e ai rimandi simbolici. Come nel lungo piano sequenza finale.
La forma del film stesso nega la conoscibilità, sono presenti molti trucchi che spiazzano lo spettatore, si passa molto spesso in una medesima inquadratura (senza stacchi) da un piano temporale all'altro (Nicholson è inquadrato, la macchina da presa si sposta portandolo fuoriscena, voce fuoricampo che racconta e di nuovo Nicholson entra nell'inquadratura ma con altri vestiti perchè si sta mostrando un evento avvenuto in un tempo diverso).
Insomma forma e contenuto contribuiscono a portare i simboli del film verso un medesimo punto l'incomprensibilità. Ma dove ci aspetterebbe empatia c'è solo simbologia, dove si vorrebbe compartecipazione c'è didascalismo. Il cinema di Antonioni impone un punto di vista dimostra e non mostra, è per questo mi risulta indigesto.
Gabriele Niola

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