TITULO ORIGINAL Il Fischio al naso
AÑO 1966
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DIRECCION Ugo Tognazzi
ARGUMENTO Cuento "Sette Piani" de Dino Buzzati
GUION Rafael Azcona, Giulio Scarnicci, Renzo Tarabusi, Alfredo Pigna, Ugo Tognazzi
FOTOGRAFIA Enzo Serafin
MONTAJE Eraldo Da Roma
MUSICA Teo Usuelli
REPARTO Ugo Tognazzi (Giuseppe Inzerna), Olga Villi (Anita, sua moglie), Alicia Brandet (Gloria, sua figlia), Franca Bettoja (Giovanna, amante di Giuseppe), Tina Louise (doft. Immer Meher), Gigi Ballista (il dott. Claretta), Marco Ferreri (il dott. Salamoia), Riccardo Garrone (il barbiere), Alessandro Quasimodo (Roberto Forges), Gildo Tognazzi (Gerolamo Inzerna, padre di Giuseppe), Cristina D'Avanzo (una teenager), Federico Valli, Cesare Gelli, Genny Folchi, Janine Reynaud, Ermelinda De Felice, Anna Maria Aveta, George Wallis, Renato Nicolai.
PRODUCCION Alfonso Sansone y Enrico Chroscicki para Sancro International
GENERO Drama
SINOPSIS L'industriale Giuseppe Inzerna è afflitto da un sibilo alle vie respiratorie. Niente di patologico, soltanto un banale fastidio. Trovandosi per affari in una lussuosa clinica privata viene convinto al ricovero per eliminare l'inconveniente. In seguito ad analisi ed esami gli vengono però riscontrati altri mali le cui cure fanno peggiorare sempre più la sua salute. Le condizioni di Inzerna peggiorano così sempre più finché il malcapitato finisce nella corsia dei malati terminali. (Film Scoop)
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Trama
L'industriale Giuseppe Inzerna, afflitto da un fastidioso sibilo alle vie respiratorie, trovandosi per affari nella clinica Salus Bank viene sottoposto - alquanto di malavoglia - ad esami, analisi e prime cure. Il fischio al naso scompare ma si manifestano altri sintomi. Inzerna rifiuta di considerarsi malato e tuttavia ha paura di tornarsene a casa contro il parere dei medici, i quali, ora con una scusa ora con un altra, lo fanno salire di piano in piano, ed ognuno di questi rappresenta il successivo stadio di aggravamento del male. Inzerna è sempre più solo e indifeso (malgrado che Giovanna, l'amante, lo abbia raggiunto nella clinica), poiché i suoi familiari sembrano ben contenti di tenerlo a distanza: infatti la moglie Anita si diverte con Bertino, un debitore di Giuseppe; la figlia Gloria è scappata all'estero con un suo amico e il vecchio padre ha ripreso incautamente le redini dell'azienda. Fallito un tentativo di fuga dalla clinica, Inzerna passa in stanze sempre più disadorne con un personale che lo tratta sempre più duramente; finché, giunto al settimo ed ultimo piano della clinica, il suo stato di salute declina sempre di più e muore.
Recensioni
Il film (...) parte da posizioni di notevole qualificazione culturale (...) (e) riesce a mantenere la linea di Buzzati (...) legandola alla attualità contemporanea, con uno svolgimento abbastanza sciolto e disinvolto (...). Ha (...) il pregio di una interpretazione - da parte di Tognazzi - misurata e attenta, come di rado accade a un attore che dirige se stesso (....). (Giacomo Gambetti, "Film Mese", 4, aprile 1967)
Ugo Tognazzi è alla sua prima vera regia e trae il soggetto di base dal racconto di Dino Buzzati "Sette piani" trasposto in teatro dallo stesso autore con il titolo "Un caso clinico". Se il grande scrittore, decidendo di far sentire al suo protagonista delle 'voci', trasferiva immediatamente il racconto sul piano della metafora (la clinica come la vita in cui si entra da 'sani' e ci si avvia, sempre autoconvinti di 'stare bene', verso la morte) Tognazzi imbastisce un'operazione diversa. L'avere tra gli sceneggiatori Azcona (uno degli sceneggiatori per eccellenza di Marco Ferreri) e lo stesso regista come interprete ironicamente sorridente nel ruolo del dottor Salamoia, gli fa prendere la direzione di un'amara satira nei confronti della tecnologia applicata alla salute per la quale gli uomini non sono altro che dei numeri (il 515 appeso al collo di Inzerna in qualsiasi piano si trovi).
Tognazzi non rinuncia poi (e come potrebbe?) alla carnalità del suo protagonista che imprigiona in una clinica di lusso in cui le infermiere sembrano delle modelle e dove riesce a far ricoverare anche l'amante (una luminosa Franca Bettola). Non manca poi, con accenti davvero ferreriani, la critica a una borghesia incapace di fare veri e propri passi avanti verso un capitalismo dal volto umano (si veda in proposito l'evoluzione del personaggio del padre).
Nel complesso un intelligente rilettura di uno dei piccoli capolavori di un genere letterario che da noi ha sempre fatto fatica ad affermarsi: il racconto.
Tognazzi il cinico
La carriera di Tognazzi può essere vista come la sequenza di due periodi ben distinti. Nel primo periodo, che dura quasi dieci anni, porta sullo schermo una comicità giovialmente farsesca, genialmente sopra le righe, positivamente "macchiettistica", mood che viene accentuato dal sodalizio artistico con Raimondo Vianello, con il quale l'attore fa coppia fissa in numerosi lavori cinematografici (consiglio Psycosissimo) e non solo. Il secondo periodo, che inizia con l'incontro con Salce, lo vede invece impegnato in pellicole socialmente urticanti, caustiche commedie, farse grottesche e cattive (tra cui Il federale, La voglia matta, I Mostri, L’ape regina, La donna scimmia). Storicizzando questa scelta, potrebbe sembrare un suicidio artistico, per un attore che, gigioneggiando tra tanti ruoli di ingenuo si era costruito una maschera apprezzata e commercialmente fruttuosa, passa d'improvviso a ruoli così poco politically correct (ma sicuramente meno ipocriti e più sinceri di altri edulcorati ritratti umani). Va invece apprezzato (specie col senno di poi) il coraggio di un artista che non si è riposato sugli allori, che ha cercato nuovi stimoli e un nuovo approccio al suo lavoro, mettendosi in gioco e rischiando in prima persona, ma regalandoci ritratti italiani di spietata sincerità. E per il suo esordio come regista, Tognazzi sceglie proprio questa commedia cinica, che prende spunto dal racconto "Sette piani" di Dino Buzzati, dal quale l'autore trasse "Un caso clinico", messo in scena nel 1953 al Piccolo Teatro di Milano. Il borghese insoddisfatto Inzerna è un personaggio cinico e sfruttatore, dalla mentalità imprenditoriale consumistica e quasi "immorale". E la sua famiglia non è da meno: quando viene ricoverato e la sua condizione fisica peggiora di giorno in giorno (e di piano in piano), i suoi familiari sembrano ben contenti di tenerlo a distanza... La moglie Anita si diverte "amabilmente" con Bertino, un debitore di Giuseppe; la figlia Gloria scappa all'estero con un suo amico (con cui combina "il guaio") e il vecchio padre riprende incautamente le redini dell'azienda, ritrovando una vitalità che aveva perso. Il cast del film è composto da amici e famiglia di Tognazzi: Franca Bettoja è sua amante nel film e sua moglie nella vita; Gildo Tognazzi è suo padre sia sullo schermo sia nella realtà; Marco Ferreri, tra i registi più corrosivi del panorama italiano, interpreta uno dei tanti dottori della Salus Bank. Ma su tutti troneggia Ugo Tognazzi, che con una performance mai sopra le righe, ma sempre asciutta e controllata, comunica, dall'ironia all'amarezza, tutte le sfumature possibili del suo personaggio. Un film da riscoprire.
Il racconto "I sette piani" di Dino Buzzati
Nella novella I sette piani Giuseppe Conte, sofferente di una leggerissima forma di una certa malattia, viene ricoverato all'ultimo piano di una clinica, costruita su sette livelli, a seconda della gravità del paziente. Una volta disceso un piano l’uomo non può più ritornare al livello superiore; di piano in piano Conte si avvicina al termine dei suoi giorni. Un «implacabile peso» l'opprime infine quando, giunto al primo piano dello stabile; il buio piomba sulla sua stanza, tutto sembra piegarsi a «un misterioso comando» e, inesorabilmente, cala il sipario.
La casa di cura, in cui ha luogo questa metaforica discesa rappresenta la provvisorietà della vita umana. Man mano che l’uomo guadagna consapevolezza di questa caducità, sente crescere dentro di sé il disagio della solitudine. Egli comincia a pensare che quest’ultima condizione sia causata dal suo allontanamento dal «mondo della gente normale», dove tutti sanno esattamente che cosa fare e soprattutto cosa si è obbligati a fare, dove esistono regole ben precise che non si possono infrangere. Il protagonista scivola velocemente nella disperazione man mano che la barriera tra lui e quel mondo si erige sempre più alta. «Egli cercava di persuadersi di appartenere ancora al consorzio degli uomini sani» .. Ma esiste una definizione inconfutabile di normalità? Esiste veramente una condizione comune in cui tutti possano sentirsi a proprio agio soltanto perché questa assicura il riconoscimento da parte della collettività?
La figura di Conte è emblematica dell’uomo che non si concentra sulla malattia, cerca fuori di sé la guarigione, invece di guardare dentro la propria anima per ritrovarsi. L’ansia di tornare a far parte della comunità dei normali al più presto aggrava la sua patologia e gli impedisce di incontrare la sua dimensione più profonda, dove risiede la sua salute.
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NOTE:
- Quadri e sculture provenienti dalle Gallerie "OBELISCO" E "NUOVA PESCA".
- Premio Grolla D'Oro a Ugo Tognazzi.
- Presentato al XVII Festival di Berlino (1967).
- Secondo alcune fonti, alla stesura della sceneggiatura avrebbe partecipato anche lo scrittore Rafael Azcona, a quel tempo assiduo collaboratore di Marco Ferreri.
Trama
L'industriale Giuseppe Inzerna, arricchitosi con un geniale sfruttamento della carta, si trova all'apice di una carriera brillante: l'unico fastidio gli è procurato da un fischio che egli involontariamente emette dal naso. Giuseppe è riluttante a seguire I consigli della moglie, che vorrebbe per lui un completo controllo sanitario. Ma un giorno, trovatosi per affari nella clinica Salus Bank, si lascia convincere a sottoporsi ad alcuni esami: invogliato anche dal trattamento di riguardo che gli riserva il personale della clinica. Il tempo passa, ed egli, alle prese con esami, radiografie e "test" di ogni genere, è sempre nella clinica, persuaso anche dall'assistenza di una bellissima dottoressa e intimidito dai medici che non lo autorizzano a tornare a casa; d'altra parte l'industriale può ricevere in clinica anche il consiglio d'amministrazione, la moglie e perfino l'amante (che viene sistemata in un appartamento contiguo). A mano a mano che gli esami procedono, rivelando sempre nuovi sintomi e nuove malattie, il malato viene trasferito dal piano terra al primo piano e poi al secondo e così via: trovando sempre appartamenti confortevoli, ma dotati di finestre progressivamente sempre più piccole. Approfittando della sua assenza, intanto, il padre di Giuseppe ha preso in mano, sconsideratamente, le redini dell'azienda; la moglie Anita se la spassa con un debitore del marito; la figlia Gloria se ne va all'estero con un amico e ritorna incinta. Ad un certo punto, al quinto piano, in onore del malato viene addirittura organizzata una festa, nel corso della quale la bella dottoressa, dopo essersi abbandonata tra le sue braccia, lo convince ad accettare il trasferimento al piano superiore, l'ultimo. Qui, col consenso dei familiari, il malato deve subire una cura di ibernazione. Al risveglio, I danni della salute di Giuseppe sono ormai evidenti: ma ormai non importa più, il personale della clinica lo prepara, al settimo piano, con tinture e lozioni, all'inevitabile, prossimo decesso.
Critica
A sei anni da "Il mantenuto", Tognazzi tenta nuovamente la strada della regia cinematografica, ispirando il soggetto a un racconto di Buzzati e partecipando personalmente al lavoro di riduzione e sceneggiatura svolto assieme alla stessa coppia, Scarnicci e Tarabusi, che aveva impostato "Il mantenuto". Questa volta all'autore le ambizioni non mancano («Con la descrizione di questa industria della malattia, ho voluto rendere la degenerazione che porta la società dei consumi anche nella scienza, cioè in quella parte della società che dovrebbe invece conservare l'uomo nella sua integrità fisica e psicologica»). Dopo aver protestato per l'esclusione del suo film dal festival di Cannes, Tognazzi riesce a portarlo a Berlino. Per "Il fischio al naso" (e per "L'immorale" di Germi) vince anche la "Grolla d'oro" di Saint Vincent per la miglior interpretazione maschile (perché, «con un progressivo affinamento, ha creato personaggi d'approfondito naso, che hanno dato prestigio ai due film»). La critica, tutta via, in maggioranza, mostra di apprezzare più il lavoro dell'attore che quello del regista. Per giustificare certi scompensi, all'epoca della lavorazione Tognazzi dichiarò: «Avrei voluto fare un film ancora più coraggioso, ma a un certo punto ho dovuto arrendermi, dando retta a una produzione che preferiva un prodotto "sicuro". [...] Il mio intento, realizzato solo in parte, era di applicare una sorta di umanismo nero a cose drammatiche, sgradevoli, vere della vita». L 'autocritica dell'autore arrivò solo fino a un certo punto; se è vero che egli, anni dopo (net 1972) affermò di ritenere "Il fischio al naso" «in senso assoluto il miglior film diretto da un attore italiano. Rivedere per scrivere. L'unico che non schiaccia l'occhio a nessuno. L'unico senza compromessi.»
«[...] [Dopo "Il mantenuto"], l'attore cremonese è venuto affermandosi attraverso prestazioni di progressiva, incontestabile maturità: da un lato abbandonando finalmente con un taglio netto quell'interminabile succedersi di commedie volgari, che resta forse il dato più umiliante nell'intera storia del film italiano [...], dall'altro passando via via per le mani di sempre più qualificati registi, Salce, Risi, Gregoretti, Lizzani, Zampa, Pietrangeli, e pervenendo soprattutto, nel contempo, alla solida e insostituibile collaborazione con Marco Ferreri. [...] Senza voler in nulla sminuire i meriti di Tognazzi [...] è anzitutto interessante rilevare che il nostro cinema dà finalmente, attraverso questo film e, per altro verso, anche con "L'immorale" di Germi, le prime prove di aver recepito se non assimilato, dopo un quinquennio di sua attività italiana, l'insegnamento di Marco Ferreri. [...] Entro certi limiti, Tognazzi è riuscito dove ha fallito Germi, nel quale forse il sovrapporsi alla tematica personale di termini del discorso ferreriano non è stato avvertito con sufficiente nitidezza. [...]».
Nuccio Lodato, Civiltà dell 'Immagine, Bologna, n. 3, giugno 1967, pp. 58-59.
«[...] Incerto fra Buzzati, Kafka e Evelyn Waugh, il ricordo del Caro estinto è vivo nella seconda parte, cioè fra allegoria, incubo e satira contemporanea, Tognazzi finisce per combinare un'opera confusa nel significato ultimo e sempre a rischio di perdersi per troppe strade diverse. Ciò nulla toglie all'efficienza complessiva dell'impianto spettacolare e alla sensibilità di interprete di Tognazzi, ad una prova d'attore non facile. [...]».
Ernesto G. Laura, Bianco e Nero, Roma, n. 7/8/9, luglio-agosto-settembre 1967, p. 167.
«[...] Opera tra grottesca e crudele, "Il fischio al naso" restituisce a sufficienza il senso d'impotenza della condizione umana, presa nella inestricabile rete del destino: e al tempo stesso, toccando motivi più realistici, è una satira serrata di certi sistemi delle cliniche moderne (la citazione del Caro estinto è quasi d'obbligo). Tognazzi, naturalmente, come Gassman fa la parte del leone, ma sa controllare molto bene la sua abituale esuberanza di interprete: anzi, le sequenze del Tognazzi ormai rassegnato e quasi assente sono fra le migliori. [...]».
Angelo Solmi, Oggi, Milano, 25 maggio 1967.
«[...] Tognazzi attore batte, di molte larghezze, il Tognazzi regista. Poco male: un bravo attore vale assai di più che un mediocre, o anche un discreto regista. Se potremo avere anche il secondo, tanto meglio (e una prima prova non può essere lasciata senza appello). Se no teniamoci ben stretto il primo, perché su di lui, e giustamente, il cinema italiano fa motto affidamento».
Paolo Valmarana, Il Popolo, Roma, 22 aprile 1967.
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Dopo sei anni dal primo lungometraggio di Ugo Tognazzi (“Il mantenuto” 1961), l’Italia che egli ritrae con sarcasmo ne II fischio al naso (1967) ha compiuto passi avanti in nome del consumismo come modello di sviluppo economico. L’attore – regista veste i panni del proprietario di una cartiera, il cui motto è consumare e distruggere. Enuncia il suo principio cardine a una delegazione di funzionari del terzo mondo, ai quali si rivolge coniugando i verbi all’infinito: «Più consumare, più produrre. Più produrre, più lavorare. Più lavorare, più arricchire. Più arricchire, più consumare. Questo essere mio imperativo economico. Mio prodotto essere funzionale ma adoperare una sola volta. Poi buttare, distruggere. Questa distruzione garantire meraviglioso rinnovarsi della domanda».
L’industriale è in conflitto con il padre, fondatore della cartiera, che contesta il materialismo in nome dei valori spirituali e, se fosse per lui, produrrebbe solo santini e immagini sacre. Nonostante si professi fautore della modernizzazione, anche Tognazzi stenta però a stare al passo coi tempi: vive in una casa concepita all’insegna del razionalismo, si circonda di tecnologia, ma non conosce le lingue e si trova così molto indietro rispetto alla moglie (Olga Villi) e alla figlia. L’emancipazione femminile comporta maggiore libertà anche nei costumi sessuali: quando la figlia resta incinta, in famiglia non se ne fa un dramma e ci si limita a mandarla ad abortire fuori dall’Italia. La crisi per Tognazzi arriva invece con un leggero disturbo: il fischio al naso che dà il titolo al film. L’uomo si ricovera in una clinica di lusso che si rivela via via una struttura sempre più claustrofobica e fatale, nella quale rimarrà imprigionato fino alla sua morte. Tra gli sceneggiatori, oltre a Tognazzi e a Scarnicci e Tarabusi, è da notare la collaborazione di Alfredo Pigna, ma, soprattutto di Raphael Azcona, il partner abituale di Marco Ferreri (che appare nel film nei panni di un dottore). È proprio Azcona ad orientare la storia verso una direzione metaforico – esistenziale che si allontana dai toni consueti della commedia, dandogli un’aria grottesca e cupa; mentre gli altri autori della commedia italiana puntano la sanità come specchio di malcostume, “Il medico della mutua” di Zampa uscirà a breve, Tognazzi preferisce trarne il pretesto per una storia surreale e dai toni kafkiani.
Tratto dal racconto di Dino Buzzati “Sette piani”, la scenografia è curata alla perfezione per dare un’aria di razionalità spietata e agonizzante, coerente con la fonte letteraria. Dalla critica è ritenuto forse in miglior film di Tognazzi nei panni di regista. Gran parte del film e questa è un’invenzione che obbedisce alle frequenti dichiarazioni anticapitalistiche di Tognazzi, è occupata dalla fabbrichetta, nata come produttrice di santini e calendari religiosi, diventata poi una grande fabbrica per la produzione di articoli di carta usa e getta, con il principio che occorre produrre per consumare e consumare per distruggere e di nuovo produrre.
Agli antipodi è la Salus Bank, la super clinica di lusso che si manifesta una costosa catena di smontaggio dei propri clienti, che non sono malati (recita un giudizioso cartello della clinica: «Non si muore che in un momento di distrazione») bensì ospiti, e in quanto tali almeno inizialmente vengono trattati come clienti privilegiati. In questo non luogo, dominano speculazione e menzogna, ma regna soprattutto il senso del potere, da cui è impossibile sfuggire anche per il protagonista, che è ricco e che si ritiene potente a sua volta. L’industriale Giuseppe Inzerna è convinto di poter dominare tutto, persino il casello dell’autostrada, su cui spara nell’incipit per non pagare il pedaggio. Appena ricoverato nella superclinica per la supposta malattia (un fastidioso «fischietto al naso») si trova progressivamente isolato. Ma nonostante le insofferenze, le proteste e tentati esposti al Ministero della Sanità, Inzerna è un vinto in partenza, un predestinato: non può opporsi ai successivi trasferimenti di piano in piano, quindi alla progressiva morte. Man mano che procede verso l’alto, dove sorvola un elicottero destinato all’ultimo “trasporto” del “caro estinto”, il suo destino si compie. Secondo il motivo musicale che fa da leitmotiv al film, una vecchia “conta” lombarda «Auiliulè, che taprofit a lusinghé, tulilemblemblù, tulilemblemblà…» non v’è niente di più giusto del motto «Oggi tocca a me, domani tocca a te, non si sa perché» e questa volta tocca a Inzerna, colpevole della sua presunzione, della sua arroganza o forse solo della vicenda che gli è toccata: l’uomo non riesce a sottrarsi come vittima alla società dei consumi.
Michela Silenzi
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Intelligente rilettura di un bel racconto di Buzzati
Il signor Inzerna è il titolare di una fabbrica ben avviata nel settore della carta. Un giorno un fastidioso sibilo che esce dal naso lo spinge a fare dei controlli di routine alla clinica Salus Bank dove viene ricoverato al primo piano; da lì ha inizio la sua 'irresistibile ascesa'. Per motivi di vario tipo verrà infatti progressivamente trasferito ai piani più alti dove si trovano degenti sempre più gravi.
Ugo Tognazzi è alla sua prima vera regia e trae il soggetto di base dal racconto di Dino Buzzati "Sette piani" trasposto in teatro dallo stesso autore con il titolo "Un caso clinico". Se il grande scrittore, decidendo di far sentire al suo protagonista delle 'voci', trasferiva immediatamente il racconto sul piano della metafora (la clinica come la vita in cui si entra da 'sani' e ci si avvia, sempre autoconvinti di 'stare bene', verso la morte) Tognazzi imbastisce un'operazione diversa. L'avere tra gli sceneggiatori Azcona (uno degli sceneggiatori per eccellenza di Marco Ferreri) e lo stesso regista come interprete ironicamente sorridente nel ruolo del dottor Salamoia, gli fa prendere la direzione di un'amara satira nei confronti della tecnologia applicata alla salute per la quale gli uomini non sono altro che dei numeri (il 515 appeso al collo di Inzerna in qualsiasi piano si trovi).
Tognazzi non rinuncia poi (e come potrebbe?) alla carnalità del suo protagonista che imprigiona in una clinica di lusso in cui le infermiere sembrano delle modelle e dove riesce a far ricoverare anche l'amante (una luminosa Franca Bettola). Non manca poi, con accenti davvero ferreriani, la critica a una borghesia incapace di fare veri e propri passi avanti verso un capitalismo dal volto umano (si veda in proposito l'evoluzione del personaggio del padre).
Nel complesso un intelligente rilettura di uno dei piccoli capolavori di un genere letterario che da noi ha sempre fatto fatica ad affermarsi: il racconto.
Giancarlo Zappoli
finalmente ho l'occasione di rivedere questo bel film.
ResponderEliminargrande Amarcord !!
ooo...mi ero segnato questa data e mi sono alzato apposta presto per non farmelo scappare... ;-)
Grazie !!
A te per la tua pazienzia.
EliminarGrazie!! Amarcord,gran film del magnífico TOGNAZZI,ojalá aparezcan los sub
ResponderEliminaren castizo.
Un cordial saludo.
Eddelon