TÍTULO ORIGINAL
Fiamma che non si spegne
AÑO
1949
IDIOMA
Italiano
SUBTÍTULOS
Español (Separados)
DURACIÓN
95 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Vittorio Cottafavi
GUIÓN
Siro Angeli, Oreste Biancoli, Giorgio Capitani, Giuliano Conte, Vittorio Cottafavi, Mario Pagani, Fulvio Palmieri, Alberto Pozzetti (Novela: Franco Navarra Vigiani)
MÚSICA
Alessandro Cicognini
FOTOGRAFÍA
Gábor Pogány (B&W)
REPARTO
Gino Cervi, María Denis, Leonardo Cortese, Luigi Tosi, Carlo Campanini, Danielle Benson, Diana Benucci, Siro Angeli, Lorena Berg, Nando Bruno, Tino Buazzelli, Vittorio Cottafavi, Maurizio Di Nardo, Giovanni Lovatelli, Fulvia Mammi
PRODUCTORA
Orsa Film
GÉNERO
Drama. Bélico | II Guerra Mundial. Nazismo. Basado en hechos reales
Basato su un avvenimento reale, questo severo elogio delle virtù morali e del senso di sacrificio ritrovato di generazione in generazione andava talmente controcorrente rispetto all'epoca (siamo proprio agli inizi del Neorealismo) che suscitò una polemica alla Mostra di Venezia nel 1949. Cronaca dal ritmo fluido e avvincente, Fiamma che non si spegne è come illuminato, nei suoi momenti più forti, da un lirismo di carattere tragico. (...) L'esecuzione finale è la più bella sequenza dell'opera di Cottafavi
al cui proposito il regista ha confidato di essersi lasciato guidare, per metterla in scena, dalla propria ammirazione per la musica di Bach. Lungo l'intero film le scene d'azione e le scene intime si trovano situate su uno stesso piano d'intensità quasi liturgica, esito delle ricerche formali del cineasta. La liturgia cancella il tempo, cancella la Storia: ricolloca ogni azione tragica in una continuità di ordine religioso che è una sorta di eternità: la fiamma che non si spegne. Così il quadro dell'esecuzione di un soldato anonimo, in una guerra di milioni di morti, avrà la stessa grandezza, meriterà altrettanta cura nella composizione che il suicidio di Antonio e Cleopatra. È perché guarda prima di tutto all'eternità che il cinema di Cottafavi ignora - superbamente - il Neorealismo.
(Jacques Lourcelles, Dictionnaire du cinéma, Laffont, Paris 1992)
http://fondazione.cinetecadibologna.it/evp_vittorio_cottafavi/programmazione/app_982/from_2009-06-29/h_1815
Dopo il poco convincente Sconosciuto di San Marino (1946; vedi), Vittorio Cottafavi insiste nelle tematiche pacifiste e neocattoliche con La fiamma che non si spegne (settembre 1949; 105 min.), opera complessa e per molteplici aspetti meritoria la quale tuttavia suscita nuovamente (dopo il fiasco commerciale del film sopracitato) scarsa attenzione. Questa volta però - accanto a una certa inattualità del soggetto in una società italiana in via di ripresa, che quindi preferisce dimenticare - concorrono cause politiche poiché il film possiede una coerente impostazione ideale conservatrice che genera una feroce levata di scudi nella critica “militante” (Aristarco, per tutti, parlò di film “completamente negativo in ogni senso” e addirittura di “apologia del fascismo”, sebbene di fascismo nel fim non si parli).
Cottafavi si ispira al romanzo Itala gens del generale Franco Navarra Viggiani, sceneggiato dall’esperto Oreste Biancoli (già autore de Il piccolo alpino, 1940) e rievoca un argomento per certi versi tabù - in quegli anni - ovvero il sacrificio estremo del vice brigadiere Salvo D’Acquisto (23 settembre 1943) il quale, per evitare la rappresaglia dei Tedeschi decisi a fucilare ventidue abitanti (radunati a caso) di Torrimpietra in risposta alla morte e al ferimento grave di alcuni loro soldati, si dichiara colpevole del fatto e si offre al plotone d’esecuzione.
La vicenda appare tuttora poco nitida nei suoi lineamenti storici essenziali; e così mentre nel film si parla di attentato, il fatto reale risulta in una certa misura incomprensibile.
Un soldato tedesco è morto e due sono rimasti gravemente feriti a causa di uno scoppio determinatosi (sembra) dal loro incauto maneggiare alcuni esplosivi nella sede della locale Guardia di Finanza, abbandonata dai militari italiani e requisita dai germanici (questa versione - se corretta - caricherebbe la rappresaglia di una luce particolarmente sinistra). Che cosa è esploso realmente? Si trattava di tritolo lasciato incautamente negli uffici o era stata preparata una vera e propria trappola da parte dei militi italiani per i Tedeschi? D’altro canto le truppe locali della GdF hanno abbandonato la sede senza lasciare tracce (così scrive il giornalista Giuseppe Rimbotti che si è seriamente occupato della vicenda), mentre dei dodici carabinieri che dovevano essere presenti nella stazione di Torrimpietra c’è solo il vicebrigadiere D’Acquisto; sono assenti anche i suoi diretti superiori - il brigadiere e il maresciallo - che avrebbero dovuto gestire il tragico evento.
In ogni caso i Tedeschi avevano dato un lasso di tempo entro il quale i colpevoli (o presunti tali) avrebbero dovuto presentarsi per evitare il martirio dei ventidue civili arrestati a casaccio, cosa che non avvenne. A quel punto dunque si sacrificò - in ottemperanza a un profondo senso di carità cristiana - Salvo D’Acquisto, assumendosi una responsabilità che di fatto non aveva.
Questa vicenda - ben nota oggi al grande pubblico nei suoi lineamenti generali - è tuttavia assente da tutti i ponderosi volumi dedicati dai più eminenti storici al tragico periodo della guerra, della caduta del fascismo, dell’8 settembre e della successiva guerra civile. Salvo D’Acquisto - per loro - semplicemente non esiste e non esiste soprattutto perché gli studiosi avrebbero poi dovuto confrontare lo sconvolgente gesto del ragazzo napoletano (aveva solo ventitré anni) con la sciagurata condotta dei gappisti di via Rasella i quali, nel marzo 1944, dopo l’inutile attentato - come si sa - non si consegnavano alle autorità tedesche pur sapendo perfettamente, fin dall’inizio, quali feroci rappresaglie avrebbero dovuto subire centinaia di persone comuni a causa del loro gesto.
L’accostamento dei due eventi è invece implicito nel film (nonostante che di via Rasella e delle Fosse Ardeatine non si faccia parola nella pellicola), sia perché Cottafavi e Biancoli parlano di attentato a Torrimpietra (tralasciando la versione dell’esplosione accidentale), sia perché gli eventi sono talmente recenti che è impossibile, per il vasto e popolare pubblico delle sale cinematografiche, non tracciare un immediato ed esplosivo paragone tra le condotte etiche delle persone coinvolte nell’uno e nell’altro caso.
Allontanandosi da quei difficili anni è stato possibile isolare il gesto del carabiniere e rendergli il doveroso omaggio in ripetute occasioni (oltre al film di Cottafavi, seguiranno quello di Romolo Guerrieri del 1975 e un recente film televisivo), ma raccontare quella storia nel 1949 era inaccettabile per una parte politica, quella stessa che ovviamente stroncherà in modo brutale la pregevole pellicola di Cottafavi la quale - sia detto fin d’ora - si ispira molto liberamente alla vita del vice brigadiere, tanto è vero che nel film il protagonista si chiama Giuseppe Manfredi. In ogni caso - pochi anni dopo le Fosse Ardeatine - La fiamma che non si spegne (tra l’altro presentato al festival di Venezia) è una sorta di scandalo intellettuale, di silenzioso attacco alla Resistenza che va respinto nell’ombra, che va eliminato dalla scena artistica come un oggetto ingombrante e fastidioso. Operazione che risulta perfettamente riuscita visto che il film - nonostante i suoi pregi, il suo cast, il suo argomento storicamente rilevante - è tuttora invisibile.
In realtà l’8 settembre, lo smarrimento conseguente e la decisione del protagonista di sacrificarsi sono tutti racchiusi negli ultimi venti minuti di un racconto che parte da lontano, dagli anni dell’intervento nella prima guerra mondiale, e che racconta la lunga epopea della laziale famiglia Manfredi. Ciononostante in quel finale - dopo un’intera pellicola volta a esaltare l’operato dell’Arma nella storia patria - si propongono modelli di comportamento che, senza troppi discorsi, smentiscono tutte le scelte armate della Resistenza. Il rispetto per la divisa - quella dell’Arma come quella dei militi dell’esercito tedesco (questi ultimi descritti gelidamente ma senza inutili fanatismi, come soldati costretti ad applicare le terrificanti leggi della rappresaglia) - porta con sé l’ovvio postulato che le guerre si combattono solo al fronte, tra eserciti, senza coinvolgere le inermi popolazioni civili e che solo al fronte - in ultima analisi - si configurano vincitori e vinti. Il terrorismo resistenziale appare dunque inutile e crudele tanto che per sanare i suoi danni deve scendere in campo lo spirito cristiano più ispirato, pronto addirittura al martirio.
Tutto ciò prende corpo soprattutto nella narrazione di Cottafavi il quale racconta l’intera esistenza di Giuseppe Manfredi (Leonardo Cortese) come indecisa tra sacerdozio e passione civile (ossia adesione all’Arma). Si immagina infatti che il padre di Manfredi (sempre Leonardo Cortese), anch’egli carabiniere, all’entrata in guerra dell’Italia (maggio 1915) venga spedito al fronte. Ottenuta però una licenza di un solo giorno, il giovane si precipita a casa, sposa la fidanzata Maria (Maria Denis) di notte (magnifico episodio ricco di umorismo, di umanità e di saggezza) e (lo scopriremo poi) la mette incinta. Di fronte al sommo pericolo, intuendo la morte incombente, il giovane affretta i tempi per potere lasciare un segno importante di sé all’amata e alla sua famiglia. Questo episodio da solo vale il film e testimonia l’esistenza di un’Italia che, ancora alla fine degli anni quaranta, sa aderire ai significati della Tradizione.
Dal fronte - come istintivamente previsto - Manfredi non torna. La madre alleva il piccolo Giuseppe (nato dunque nel 1916 dalle parti di Roma e non nel 1920 a Napoli come l’autentico Salvo D’Acquisto il quale peraltro non era figlio di un carabiniere) con l’idea di farne un sacerdote. La famiglia è composta di rurali, di solidi possidenti che coltivano la propria terra. C’è l’energico capofamiglia Luigi Manfredi (un valido Gino Cervi) e c’è anche l’immancabile zio prete il quale veglia sul cammino spirituale di Giuseppe che infatti studia in seminario, porta la tonaca ma all’ultimo momento cede alla vocazione dell’Arma, ereditata dal ricordo del padre. Entra felicemente a farne parte, fa a tempo a gustare la divisa, l’avanzamento di grado, le fastose parate dei suoi colleghi (il film si configura - fin dal titolo - come un omaggio al corpo dei carabinieri) ma poi, improvvisi, giungono l’8 settembre e gli eventi di Torrimpietra (paesino alla periferia di Roma).
L’intero episodio conclusivo è segnato dalla sobria intensità delle immagini, la cui armoniosa misura riesce a restituire il momento del sacrificio, evitando ogni retorica. Lo sguardo, in qualche modo stupefatto, degli ufficiali tedeschi riproduce quello rispettoso del regista il quale descrive con ferma semplicità i tragici eventi, guardandoli come “da lontano” e accompagnandoli con commossi movimenti di macchina.
La fiamma del titolo indica dunque numerose realtà materiali e spirituali: indica innanzitutto il simbolo dell’Arma; allude anche alla sua vocazione civile come pure ci parla di un mistico fuoco interiore che sopravvive anche nelle situazioni più drammatiche e oscure.
Resta da ricordare che il sacrificio del vicebrigadiere verrà in seguito onorato dall’Arma che conferirà la Medaglia d’oro al valor militare al giovane con motivazioni in cui si parla di “pagina indelebile di puro eroismo”, nonché verrà ricordato in una ventina di monumenti e di caserme intitolati a Salvo D’Acquisto come pure una sessantina di scuole, una cinquantina piazze e almeno trecentocinquanta strade.
http://www.giusepperausa.it/_anselmo_ha_fretta__biancaneve.html
TRAMA LA FIAMMA CHE NON SI SPEGNE
Dei tre figli di Padron Luigi Manfredi, onesto agricoltore, il più giovane, Giuseppe, s'è fatto carabiniere. Giuseppe è fidanzato a Maria, che sposa prima di partire per la guerra, la prima guerra mondiale. Egli muore in combattimento, lasciando alla vedova un figlio, Luigi. Questi cresce nella casa del nonno e mostra fin da ragazzo la tendenza a seguire la carriera paterna. La madre ne teme per lui i pericoli e persuade il nonno e lo zio parroco a metterlo in seminario. Ma non è possibile opporsi alla vocazione del giovinetto, il quale finisce per arruolarsi nell'arma. Passano gli anni: scoppia la seconda guerra mondiale. Luigi si batte valorosamente in Africa, viene rimpatriato per malattia e, promosso brigadiere, viene mandato a comandare una stazione, nelle vicinanze del suo paese. Dopo l'8 settembre, Luigi resta al suo posto, cercando di tutelare gli interessi dei connazionali. Nella zona vengono uccisi due soldati tedeschi: dieci paesani sono presi come ostaggi. Luigi si presenta al comando tedesco: dichiaratosi responsabile dell'uccisione, e affronta la fucilazione per salvare gli ostaggi.
CRITICA DI LA FIAMMA CHE NON SI SPEGNE
"Completamente negativo, in ogni senso è "La fiamma che non si spegne", sull'arma dei carabinieri, che certo meritava un omaggio più sincero e umano. Eroismi e sacrifici, patria amore e famiglia, si trovano in questo film nelle lora accezioni più false e retoriche [...]. Il regista (l'anonimo Cottafavi) e i suoi degni collaboratori cercano fra l'altro di fare un'apologia del fascismo". (G. Aristarco, "Voce Adriatica", 3/9/1949).
CURIOSITÀ SU LA FIAMMA CHE NON SI SPEGNE
IN UN PRIMO TEMPO COLLABORARONO ALLA SCENEGGIATURA: FULVIO PALMIERI, SIRO ANGELI, GIORGIO CAPITANI, ALBERTO POZZETTI, MARIO PAGANI E VITTORIO COTTAFAVI.
SOGGETTO DI LA FIAMMA CHE NON SI SPEGNE
DAL ROMANZO "ITALA GENS" DI FRANCO NAVARRA VIGGIANI
https://www.comingsoon.it/film/la-fiamma-che-non-si-spegne/24953/scheda/
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“Al comienzo de "Il boia di Lilla", el rostro de la heroína, cuando oye el galope de los caballos, se petrifica, mientras murmura: 'Los Mosqueteros' ... En "I Piombi di Venezia", un duque pelea en duelo, está fuera del campo, pero la figura y el cuerpo están asombrados, sumergido en la muerte, sigue adelante, como descubriendo su propio final con inmenso asombro, y poco a poco es invadido por él, hasta que finalmente en "Fiamma che non se spegne", aún no distribuida en Francia, una escena nos muestra a una joven que acaba de enterarse de que su marido fue asesinado. Entiende la noticia a través de un intercambio de miradas, por el peso del silencio que la recibe cuando entra a la casa. Se retira a su habitación. No vemos su rostro de inmediato, pero se vuelve hacia la cámara con lágrimas que le llenan los ojos. Asistimos a la lenta e ineludible invasión de un alma por el dolor, filmada cara a cara en esta habitación, en esta absoluta soledad, como si, habiendo penetrado allí por el regocijo, contempláramos con sagrado horror lo que nadie debería contemplar.
Estos ejemplos ilustran una dimensión clave de la puesta en escena de Cottafavi, la noción de irrupción, que domina los momentos de crisis. Es el único cineasta que filma sistemáticamente la instalación de la crisis, en lugar de acudir directamente a su expresión ya instalada. Toda la atención está puesta en este pasaje entre la calma y la tormenta, un segundo infinito donde el ser se sorprende en una transformación íntima, que lo priva de su libertad y de su conciencia lúcida, orientándolo totalmente hacia un solo fin y, de alguna manera, se mineraliza. él en su pasión. Es esta petrificación del ser lo que descubre la cámara, dándonos la sensación vertiginosa de violar un secreto, de penetrar en una zona prohibida, como lo que se pinta en el rostro de una mujer en el momento en que el placer lo invade y lo absorbe ”.
Michel Mourlet, Du côté de Racine , Presence du CinémaNo. 9, diciembre de 1961
http://arqueologiadocinema.blogspot.com/2009/05/sete-mulheres-1966-john-ford.html
Muchas gracias
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