TÍTULO ORIGINAL
Perché si uccide un magistrato
AÑO
1975
IDIOMA
Italiano, Inglés y Español (Opcionales)
SUBTÍTULOS
Español (Opcional)
DURACIÓN
106 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Damiano Damiani
GUIÓN
Damiano Damiani, Enrico Ribulsi
MÚSICA
Riz Ortolani
FOTOGRAFÍA
Mario Vulpiani
REPARTO
Franco Nero, Françoise Fabian, Pierluigi Aprà, Giancarlo Badessi, Ennio Balbo, Luciano Catenacci, Giorgio Cerioni
PRODUCTORA
Capital, Rizzoli Film
GÉNERO
Drama | Crimen. Mafia
Esistono tanti possibili moventi per la morte cruenta di un procuratore. Damiano Damiani prova a smascherarli in Perché si uccide un magistrato, film datato 1974. Il genere scelto per l’impresa è il poliziesco, allora particolarmente in voga nella cinematografia italiana. Il regista non dimentica, però, la lezione impartita nel ’68 con Il giorno della civetta e confeziona un prodotto che conserva, perche si uccide un magistratofinale a parte, tutti gli ingredienti del cinema civile, a quel tempo largamente praticato con maestria anche da Elio Petri e Francesco Rosi.
L’intreccio gode di una partenza ben congegnata, che promette ritmi incalzanti e spunti interessanti, complice un suggestivo avvio meta-cinematografico. La trama ruota, infatti, attorno a un film. Palazzo di Giustizia, diretto dal giovane regista Giacomo Solaris, svela le malefatte di un alto magistrato palermitano, colluso con la mafia e il mondo politico, a sua volta corrotto. Espiatrice e catartica la scena finale, in cui il magistrato viene ucciso da un esaltato. La pellicola, presentata a Palermo, suscita scalpore e strappa gli applausi di un pubblico indignato. Le quotazioni commerciali del regista salgono. Iniziano, però, anche i problemi, perché è facile intuire che Solaris, nel delineare il suo personaggio, si è ispirato alle torbide vicende in cui è coinvolto un magistrato palermitano in carne e ossa: il procuratore Alberto Traini. Il vespaio di polemiche è pronto a sollevarsi e Traini ne finirà travolto: il magistrato viene assassinato per davvero. Il regista, ossessionato dal senso di colpa, si metterà a indagare, con l’obiettivo di mostrare alla vedova del procuratore la fondatezza delle accuse mosse nel film.
È una Palermo infangata quella svelata da Damiani in questa pellicola. Malgrado la bellezza antica dei suoi vicoli perduti, sospesi nel grigio della pietra, il fango straripa ovunque e intorbidisce la purezza delle relazioni sociali e persino familiari. In una città soffocata dai tentacoli bramosi della mafia, non c’è spazio per la denuncia. La gente non vede, né sente, ha paura, soffre la fame in religioso silenzio. La polizia, invece, vede molto bene, ma fa finta di non guardare, un po’ per quieto vivere, un po’ perché le conviene così. I politici si riempiono la bocca di chiacchiere, ma il fango li immerge fino al collo e a volte li affoga. Gli imprenditori sembrano provetti “self made men”, ma in realtà sono schiavi al soldo dei boss. Neppure i giornali sono innocenti: dietro la sbandierata smania di denuncia si cela l’ottusità della partigianeria politica. È in questo “mare magnum” che si dimena il regista Solaris, intento a guadare correnti torbide e profonde, proprio come gli occhioni ammaliatori della moglie del procuratore, interpretata da una fascinosa Françoise Fabian. Facile per Solaris (un aitante e corrucciato Franco Nero) perdere il filo. Sarà solo il colpo di scena finale a sovvertire un fato che sembrava già scritto.
Nobile l’intento di denuncia di un mondo losco e corrotto, dove la politica è un teatrino di voltagabbana pieni di scheletri nell’armadio e pronti a colpirsi alle spalle non appena cambia il vento, dove la legge vale solo per il più forte e la giustizia porta in trionfo i potenti e taglia le gambe ai poveracci. Damiani non riesce, però, ad andare sino in fondo e l’intensità del cinema civile si stempera in un finale che vorrebbe stuzzicare la fantasia, mescolando le carte, ma risulta, invece, banale e prevedibile. Il risultato è che la sfida del poliziesco non viene vinta e neppure la denuncia mantiene la forza e l’impatto di opere che hanno fatto la storia del genere filmico che ha messo in scena gli intrighi della criminalità e del potere.
https://www.sentieriselvaggi.it/dvd-perche-si-uccide-un-magistrato-di-damiano-damiani/
"Soltanto fino a un certo punto Perché si uccide un magistrato si apparenta ai film di Damiani più civilmente impegnati […]: al punto cioè in cui un “colpaccio”, del resto efficace ai fini dello spettacolo, ne sposta la prospettiva di “denuncia” in tutt’altra dimensione. Ora non si nega che il coefficiente romanzesco-privato continui ad avere la sua parte nella nostra vita :i dubbi, nel caso specifico, vertono se mai sulla saldatura dei due toni. […] Ma tali sforzature giovano poi alla compatezza e alla presa dello spettacolo, cose alle quali un Damiani piuttosto corrivo nel resto, deve avere soprattutto badato, e con buon successo. Com’è bella la Fabian con quegli sguardi lunghi che sono soltanto suoi ! "
L.P. (Leo Pestelli) - La Stampa - 14/02/1975
«Lei ha fatto molte false accuse contro di me. Sa cosa le chiederebbero prima di tutto in Tribunale?»
«Le prove»
«Ne ha?»
«Facciamo il processo e lo sapremo»
«Allora ha fiducia nella giustizia»
«No, ho fiducia nello scandalo».
Il colloquio avviene in un ricco salotto della Palermo bene. Anzi, più che bene: di potere. Il protagonista è Giacomo Solaris, un giovane reportagista romano (interpretato da un Franco Nero particolarmente in forma) che nel capoluogo ha appena realizzato un film scandalo, oggi lo si chiamerebbe docufiction, sui rapporti proibiti tra politica, criminalità e Palazzo di Giustizia. L’interlocutore di Solaris è Alberto Traini (il sanremese Marco Guglielmi), potentissimo procuratore capo di Palermo e bersaglio polemico del film di Solaris.
Questo dialogo basterebbe da solo a commentare il curioso esperimento di metacinema tentato da Damiano Damiani col suo Perché si uccide un magistrato (1974), terzo capitolo della particolare trilogia (gli altri due sono Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica e L’istruttoria è chiusa: dimentichi) del regista friulano dedicata all’impegno civile e a una particolare rilettura, critica ma non militante, delle vicende di quegli anni.
Rispetto alle altre due pellicole Perché si uccide…fu accolto con una certa freddezza dalla critica dell’epoca e ha recuperato punti solo in seguito alla rivalutazione del cinema di genere avvenuta a partire dagli anni ’90.
Nel caso di questo film, la rivalutazione non è stata una semplice operazione nostalgica a fini commerciali perché il valore c’è eccome. Più semplicemente, è venuto meno quel filone di critica politicizzata che nel ventennio ’60-’80 ha fatto e disfatto e ha relegato in secondo piano opere, come in questo caso, avrebbero meritato di più e non solo per ragioni tecniche.
Torniamo al film: Solaris di sicuro è il buono della storia. Ma è un buono alla Damiani, cioè un personaggio ricco di zone d’ombra in cui la tensione morale fa continuamente i conti con compromessi di vario tipo. Il giovane documentarista, ad esempio, sfida i vertici della magistratura con un’ottica (questa sì) militante, tant’è che mira allo scandalo che considera la chiave per la vera giustizia.
Ma le sue amicizie, come per ogni giornalista che si rispetti, sono borderline. Memorabile, al riguardo, il dialogo con Vincenzo Terrasini (l’ottimo e ironico Renzo Palmer, reduce dai fasti della radio e non ancora approdato in tv), un piccolo boss, amico e informatore:
«Ma allora sei diventato un mafioso di rispetto»
«Ma la mafia…»
«…non esiste»
«Invenzione dei giornalisti»
«Di gente di Milano…»
«Che non conosce le cose della Sicilia…»
«Però la mafia ti protegge, ti avvolge, ti fa sentire come tra due guanciali»
«Se non ci fosse la mafia di che scriveresti? Saresti disoccupato»
«Se non ci fosse la mafia una brava persona come te lavorerebbe senza essere costretta a sfiorare il codice, senza subire prepotenze e ricatti e senza fare prepotenze e ricatti agli altri»
«Io?»
«Sì, forse tu sei meno carogna degli altri, ma le regole del gioco son sempre le stesse»
«Se no, come campi?».
È borderline anche il rapporto tra Solaris e Vincenzo Zamagni (il cinematograficamente sconosciuto Gianni Zavota), un commissario di polizia decisamente sopra le righe e non precisamente sopra ogni sospetto.
Ambiguo, invece, il rapporto tra il documentarista e Antonia Traini (la bellissima Francoise Fabian), la moglie del potente magistrato. Dapprincipio ostile al regista-giornalista, la donna accetta di dialogare con lui e di cercare la verità sul marito.
Finché non arriva il colpo di scena: sulla scia dell’enorme successo del film, il procuratore Traini viene ucciso. E a questo punto inizia la parte gialla della storia, che sfocia nel classico drammone siciliano, in cui pubblico e privato si mescolano.
Nelle indagini sul clamoroso omicidio (di sicuro l’ennesimo riferimento al delitto reale del giudice Pietro Scaglione il procuratore capo di Palermo, all’epoca assai chiacchierato e poi riabilitato a oltre trent’anni dalla morte) si impegnano, oltre che i poco convinti poliziotti guidati da Zamagni, i giornalisti di Sicilia Notte, il giornale con cui collabora Solaris (ed è chiaro il riferimento alle inchieste pesantissime dell’Ora di Palermo) e in cui si segnalano altri tre personaggi di primo piano: la giornalista Sibilla (la stupenda Eva Czemerys, starlet del cinema ’70), il direttore (interpretato dal bravo Mico Cundari, calabrese come Vittorio Nisticò, lo storico direttore dell’Ora) e l’avvocato del giornale, interpretato da Damiani in persona.
È una gara a chi fa prima a scoprire – e ad affermare e a imporre – la propria verità. Una competizione che ha una contropartita pesantissima: i rapporti di potere all’interno del partito dominante, dove due big, legati ognuno per conto suo all’assassinato procuratore, sono entrati in conflitto perché uno di loro è sospettato del delitto.
Sono il parlamentare Ugo Selimi (il caratterista siciliano Elio Zalmuto, habitué dei polizieschi all’italiana) e l’onorevole Derrasi (il caratterista lecchese Giancarlo Badessi, altro volto notissimo del cinema dell’epoca), manager di uno dei tanti scatoloni dell’autonomia siciliana. Selimi, in particolare, è legato al boss latitante Carmelo Bellolampo (il caratterista Vincenzo Norvese, i cui lineamenti particolari lo hanno reso una maschera dei mafia movie a partire dagli anni ’60), mentre Derrasi cura i rapporti con la mafia attraverso l’avvocato Meloria (un Luciano Catenacci al top della cattiveria).
Mentre la doppia inchiesta incalza, la vita di casa Traini prosegue piatta: la vedova, tra l’altro in dolce attesa, si cura del figlio disabile con l’aiuto del medico di famiglia (il bello e algido Giorgio Cerioni, caratterista dal volto tedesco e futuro protagonista del filone effimero e truce dei naziporno). Nel frattempo spunta anche un indiziato: Tano Barra (un eccezionale Tano Cimarosa), un custode di auto povero, ignorante e non troppo intelligente, colpevole di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Poi, mentre il giudice istruttore (il solenne Ennio Balbo) sta per inchiodare Selimi, arriva il colpo di scena, che non è quello sperato dagli avversari del politico né dalla redazione di Sicilia Notte, che ha letteralmente pilotato l’inchiesta con un martellamento continuo.
Il delitto, come ha invece intuito Terrasini, «è privato».
Questa svolta mette Solaris a un bivio: rivelare ciò che ha scoperto e quindi smentire l’inchiesta partita dal suo film e lasciare al suo posto un uomo di potere corrotto, oppure mentire in nome della coscienza civile a cui corrisponde spesso una verità politica?
Probabilmente questa conclusione molto critica nei riguardi del ruolo della stampa nelle vicende giudiziarie («Giacomo, che raccontiamo ai lettori? Che finora abbiamo scherzato?», inveisce contro Solaris il direttore deluso), è il motivo del gelo della critica nei riguardi della pellicola. Una reazione corporativa a un giudizio scomodo simile a quella che avrebbero avuto i media quaranta anni dopo nei confronti di Numero Zero, l’ultimo libro di Umberto Eco, dedicato alle vicende di un improbabile giornale d’inchiesta.
L’apologo morale del film segna una fase di riflusso nel cinema di impegno civile di Damiani che tornerà a meditare sugli aspetti più perversi del potere in altre pellicole prima di toccare il massimo, almeno del successo, con La Piovra.
Poi scorrono i titoli di coda sul tema dolce e malinconico di Riz Ortolani.
Saverio Paletta
https://www.indygesto.com/indymovies/190-perche-si-uccide-un-magistrato-la-storia-di-un-potere-perverso
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