TÍTULO ORIGINAL
Il magistrato
AÑO
1959
IDIOMA
Italiano y Español (Opcionales)
SUBTÍTULOS
Español e Italiano (Opcionales) y Español (Separado)
DURACIÓN
90 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Luigi Zampa
GUIÓN
Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luigi Zampa. Historia: Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Luigi Zampa
MÚSICA
Renzo Rossellini
FOTOGRAFÍA
Gábor Pogány (B&W)
REPARTO
José Suárez, François Périer, Jacqueline Sassard, Massimo Serato, Maurizio Arena, Claudia Cardinale
PRODUCTORA
Coproducción Italia-España-Francia; Hispamex, Titanus
GÉNERO
Drama
La ricostruzione e la debolezza della nuova borghesia italiana, l’individuo e la corruzione morale. Consueto dramma civile dal piglio robustamente accusatorio, Il magistrato di Luigi Zampa è un film complesso e stratificato, sorretto da un’eccellente sceneggiatura. Prima volta in dvd grazie a Mustang e CG.
In un lungo flashback il magistrato Andrea Morandi spiega al procuratore le ragioni che l’hanno spinto a presentare le dimissioni. Giunto in una nuova città (presumibilmente Genova), l’uomo prende alloggio in una camera presso la famiglia Bonelli. Il capofamiglia Luigi è un impiegato senza ambizioni, afflitto da una moglie avida e arrivista. Nascondendo a tutti di aver perso il lavoro, Luigi cerca di tirare avanti costantemente preoccupato di far vivere la propria famiglia con dignità senza cedere però alle lusinghe della corruzione. Benché incoraggiata dall’avida madre, sua figlia Carla recalcitra all’idea di convolare a nozze con un ricco rampollo per sistemare tutta la famiglia, mentre il magistrato Andrea deve occuparsi di un’aggressione al porto in cui un oscuro personaggio ha rischiato di perdere la vita. Il maggiore indiziato è un manovale, Orlando, prossimo al matrimonio e oppositore del caporalato… [sinossi]
Luigi Zampa ha sempre avuto un approccio fortemente popolare al racconto, spinto dalla volontà di parlare a chiare lettere a una platea più ampia possibile. Scontando spesso una buona dose di semplificazioni a rischio pure di qualunquismo, nei suoi film si trovano sovente forme di dialogo diretto col pubblico, al quale si va incontro narrandogli più o meno quel che vuol sentirsi dire. Un incontro tra luoghi comuni, si potrebbe dire, ovvero rifarsi alla realtà italiana nelle sue storture più marchiane per denunciarle senza sfumature e tramite lo stesso linguaggio adottato dal popolo.
Il cinema di Zampa ha assunto spesso tali coordinate tramite la commedia, ma ha frequentato in egual misura le strade del dramma civile, fondato sull’immediata aderenza a una realtà sociale (o storica) con la quale il pubblico potesse identificarsi. È su questo solco sanamente popolare che s’innesta pure Il magistrato (1959), una delle opere ad oggi meno ricordate di Luigi Zampa e tra le sue più riuscite, capace di tenere a freno le derive declamatorie del suo cinema verso una maggiore asciuttezza, corroborata da una spietata lucidità d’analisi sociale. Come altrove nel suo cinema, ci troviamo di fronte a un’ennesima vicenda esemplare, ovvero protesa a dimostrare come una tesi che nell’Italia del tempo (e forse ancora di oggi) certi meccanismi perversi si ergono inesorabilmente a nemici dell’individuo, fatto prigioniero di una ragnatela di ingranaggi. Ma stavolta la tesi non mostra forzature, non lascia la sensazione di programmatico, bensì si profila come il necessario portato di un’ineluttabilità sociale del tutto credibile.
Dalla soffocante catena di eventi, tutti sorretti da spietate e geometriche risposte di causa-effetto, non spira aria di artificio tendenzioso né tanto meno di irrazionale fato avverso; il racconto si muove secondo uno schietto “pessimismo della ragione” fondato su precise responsabilità sociali, determinate da un contesto italiano in rapido mutamento (e disfacimento) morale. Una lunga ombra di cinismo e disperazione che uno dopo l’altro investe tutti i personaggi, anche i più puri e insospettabili, travolti da un’ampia degenerazione dei comportamenti. A rendere più rarefatto e pregnante il consueto impianto accusatorio zampiano concorre un raffinato lavoro di sceneggiatura, attento sia alla credibilità di un intreccio complesso e stratificato, sia soprattutto al ritratto dei personaggi, alcuni di splendida scrittura (pensiamo in particolare alle figure di Luigi e Carla Bonelli, padre e figlia legati da un sincero affetto destinato a infrangersi contro il marcitoio della società borghese, alta media o piccola che sia).
Nella ben nota galleria zampiana di individui schiacciati (o in lotta) con la società, stavolta trova posto il meschino impiegato Luigi Bonelli, capofamiglia frustrato dalle scarse entrate e dai tanti debiti, da sempre preoccupato di dare un’esistenza dignitosa ai suoi cari. Benché sollecitato da una moglie avida e senza scrupoli, Luigi si dichiara candidamente inadatto alle battaglie quotidiane per affermarsi nel mondo, rifiutando modelli di comportamento fondati sulla concorrenza e il “self-made man” di retaggio occidentale. Lui è nato per fare l’impiegato, senza responsabilità personali e senza particolari ambizioni. La sua aspirazione al basso profilo dovrà tuttavia scontrarsi con la corruzione e con le ingerenze di una società che tutto travolge, a partire dall’innocenza di sua figlia Carla, diciassettenne determinata a restare fedele a se stessa.
Narratore della vicenda, che avrà un esito tragico, è l’avvenente magistrato Andrea Morandi, pensionante in casa Bonelli colto da profonda crisi professionale e sul punto di dimettersi a seguito della triste parabola della sua famiglia ospitante. A sua volta il magistrato sta seguendo un caso di aggressione al porto (la città è Genova, benché non venga mai menzionata) in cui l’effettivo colpevole è soltanto l’esecutore di un crimine provocato da una catena di concause socio-culturali di cui il povero reo è in sostanza la prima vittima.
Tema ricorrente nel cinema di Luigi Zampa, anche ne Il magistrato il racconto si adopera alla radiografia di una spersonalizzazione dell’individuo al centro di un reticolo di ingerenze che si allargano a macchia d’olio a ricomprendere in chiare responsabilità un intero contesto sociale (tra i tanti esempi, Zampa darà a questo una lettura di commedia in Una questione d’onore, 1965, riguardo ai codici morali di una Sardegna da western). Sia Luigi Bonelli sia l’operaio Orlando commettono crimini spinti dalla disperazione e dal rifiuto di una società irrimediabilmente compromessa con le pratiche della corruzione. Corruzione prima morale che materiale, dal momento che come un ineluttabile veleno il denaro e il benessere spingono tutti i personaggi, uno dopo l’altro, a compiere scelte contro la propria natura.
Dopo aver perso il lavoro, Luigi accetterà di collaborare con un assicuratore disonesto, mentre la giovane Carla sarà l’ultima a cedere, dopo una strenua resistenza esistenziale, finendo tra le braccia dello stesso assicuratore corrotto, ben più anziano di lei. E pure Orlando, l’operaio accusato dell’aggressione, deciderà di piegarsi ai meccanismi del caporalato per poter lavorare, dopo esservisi opposto con veemenza.
Benché centrato su un’impietosa analisi della debolezza della nascente borghesia italiana, Il magistrato assume in realtà i tratti di un inconsueto dramma borghese-proletario. Le due vicende parallele sembrano voler estendere a tutte le latitudini sociali una tragedia nazionale che si radica innanzitutto in una spietata disamina della nuova Italia repubblicana. Le magnifiche sorti e progressive della ricostruzione postbellica svelano il proprio lato oscuro. Il Paese è di nuovo smagliante e sorridente, proteso a un futuro di successi determinati da modelli comportamentali non (del tutto) autoctoni. Il Paese si veste a festa per Capodanno, e l’accesso a tali nuovi paesaggi sociali pare garantito a tutti, pure a una grigia e piccola borghesia impiegatizia che magari s’indebita per comprare l’abito più bello alla figlia. Ma è un benessere non solo apparente; è un benessere traditore, che batte cassa, che chiede in cambio degenerazione morale e furto di dignità. Il nucleo più puramente tragico de Il magistrato sta proprio nell’aspirazione sempre più disperata a vivere con dignità, senza vergognarsi di se stessi. Non ce la fa Luigi Bonelli, la cui figura è sapientemente sfumata tra patetica empatia e colpevole debolezza; non ce la fa Carla, in ultimo arresa a un destino deciso dalla famiglia per lei. Non ce la fa forse neanche il magistrato Andrea Morandi, dubbioso sull’utilità e giustezza del suo ruolo professionale.
A fronte di un grande e ammirevole lavoro di sceneggiatura, Il magistrato assembla un cast d’attori internazionali per consuete ragioni di coproduzione (pare che addirittura per gli stessi motivi una parte degli esterni, che dovevano evocare Genova, siano stati girati a Barcellona). In linea di massima però il comparto attoriale appare omogeneo e funzionale, con la sola eccezione del protagonista, lo spagnolo José Suarez chiamato a incarnare un fascinoso e fonatissimo magistrato affidandosi a una diffusa monoespressività. Ma François Perier e Jacqueline Sassard conferiscono begli accenti a due figure splendidamente intagliate, mentre ai proletari Maurizio Arena e Claudia Cardinale spetta il dramma portuale. Il volto della corruzione è affidato alla melliflua eleganza di Massimo Serato, perfettamente a suo agio nei panni del laido elegante, da sempre presenza fissa degli italici salotti “bene”. Funzionale ed endemico a tutto un sistema sociale, la classe dominante se ne serve come strumento delle loro corruzioni, mentre lui si lascia sfruttare per il proprio interesse: il servo che sta assiepato sotto al tavolo dei ricchi e raccatta le briciole. Ma che briciole.
Costantemente interessato ai rapporti tra individuo e Potere, sotto le sue svariate (e anche deviate) manifestazioni, Luigi Zampa sferra di film in film attacchi alla burocrazia, al trasformismo, alle speculazioni edilizie, all’avidità dei poteri forti, al clientelismo, alle baronie professionali. L’approccio è spesso diretto, robusto e popolare, il linguaggio magari non sempre finissimo. Il magistrato dispone però di una più sottile capacità analitica, che va a scandagliare negli spietati ingranaggi di un ineludibile determinismo sociale. E ha il coraggio della vera tragedia, sintetizzata in prefinale in un mirabile piano-sequenza che racchiude in una manciata di secondi il senso di un intero fallimento esistenziale. Probabilmente nazionale. Perché, parola di Carla Bonelli, siamo tutti in fila, e se qualcuno spinge, il primo della fila cade.
Massimiliano Schiavoni
https://quinlan.it/2016/12/13/il-magistrato/
Luigi Zampa, regista considerato da taluni esponente di un ‘cinema medio’, espressione inadeguata che non restituisce giustizia alla vitalità creativa di un autore che ha realizzato film indimenticabili, quali L’onorevole Angelina (1947) con Anna Magnani e una serie felicissima di lungometraggi con Alberto Sordi, nella fattispecie Il vigile (1960), Il medico della mutua (1968) e Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (1971), tre capolavori della commedia italiana, nel 1959 mise in scena un piccolo dramma famigliare, e non solo, ambientato in una Genova algida e impersonale, in cui i personaggi brancolano disorientati.
Il magistrato è un film caduto velocemente nell’oblio, ma che per la forza della storia raccontata e la bravura degli interpreti merita un’attenta rivisitazione che ne recuperi l’indubbio valore e, soprattutto, ne consenta la visione alle nuove generazioni. Pubblicato per la prima volta in dvd da Mustang, il film di Zampa affronta il periodo della nascita della ‘borghesia capitalista’ in Italia, e, in tal senso, chi scrive si permette di dissentire dalla pur brillante introduzione al film di Gianni Canova – contenuta nella sezione extra del dvd -, giacché la sceneggiatura scritta da Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa (e dallo stesso Zampa) non metteva alla berlina l’inettitudine di una classe sociale, ma ne descriveva il mutamento in atto, con tutti i risvolti negativi che tale trasformazione antropologica comportava. La famiglia di Luigi Bonelli (interpretato dal François Périer che aveva magnificamente duettato con Giulietta Masina in Le notti di Cabiria) aspira ad un tenore di vita più elevato, e per ottenere il sospirato benessere accetta di vendere l’anima al diavolo: tutti i componenti del nucleo, rispondendo ai desideri della moglie/madre (Anna Mariscal), che incarna la voce della falsa coscienza borghese, scendono a compromessi pur di adeguarsi a uno stile di vita che cominciava allora a diffondersi capillarmente, laddove il possesso diveniva uno status che s’imponeva e dal quale non ci si poteva sottrarre. La storia parallela del giovane (Maurizio Arena), resosi involontariamente colpevole dell’omicidio di un laido reclutatore di “avventizi” (i lavoratori a giornata del porto di Genova) costituisce il contrappunto alla piccola ma assai simbolica tragedia dei Bonelli, giacché, alla fine, è proprio il più indifeso a pagare il conto per un sistema di rapporti avvelenato, in cui tutto è lecito pur di raggiungere il meschino obiettivo di una salvifica opulenza. Il gentile e probo magistrato (José Suárez) capisce bene il perverso meccanismo che regola l’attribuzione di responsabilità in un tessuto sociale corrotto e decadente, tanto che presenta le proprie dimissioni al procuratore, che, comunque, cerca di dissuaderlo. Sebbene la giustizia non paia di questo mondo, il dottor Morandi alle fine tornerà sui suoi passi, provando a prestare servizio alla nobiltà di una causa che sembra sfuggire ad ogni tentativo di presa. Si segnala anche una significativa apparizione di Claudia Cardinale, qui in una delle sue prime interpretazioni, nel ruolo della fidanzata di Orlando Di Giovanni (Arena).
Nel film di Zampa è l’inizio dell’era capitalistica italiana che viene raccontato, tentando di tracciare lo sfuggente profilo di una nuova borghesia sorta sulle ceneri della miseria del dopoguerra. La televisione, i primi elettrodomestici comprati rigorosamente a rate, i ristoranti, i cinema, i locali alla moda, le compagnie festanti: viene mostrata una girandola umana e sociale che frastorna chi, come il mite Bonelli, modesto impiegato senza ambizioni, voleva continuare a vivere in quella tranquillità che precedette la rincorsa sfrenata all’arricchimento, senza per questo sentirsi in colpa. Ma un licenziamento improvviso, dovuto alla sua onestà, che gli impedisce di piegarsi al metodo delle bustarelle per siglare più contratti di assicurazione, lo mette in una posizione molto scomoda, da cui potrà liberarsi solo sporcandosi le mani, perdendo la sua ancestrale innocenza. Il finale è tragico, e incarna l’eroica e drammatica resistenza di un uomo a una degenerazione intollerabile che cominciava a inquinare ogni rapporto. Non tutto funzione nel film di Zampa – in particolare il personaggio del magistrato è troppo contenuto e buonista per apparire verosimile -, ma nell’insieme rimane un’opera significativa che testimonia egregiamente un momento storico decisivo, che tanto influì sulla costituzione morale e politica della nostra nazione.
Luca Biscontini
https://www.taxidrivers.it/82158/preview/dvdbluray/magistrato-luigi-zampa-la-volta-dvd.html
No cabe duda que la figura de Luigi Zampa (1905 – 1991), esconde una de las personalidades cinematográficas más atractivas y al mismo tiempo menos valoradas dentro del mejor cine italiano –el desarrollado entre las décadas de los cincuenta y sesenta-. Integrado dentro del contexto de un cine popular siempre unido a su afán crítico en torno a la sociedad italiana surgida a partir del fín de la II Guerra Mundial, lo peor que le sucede al cine de Zampa –como al de tantos otros exponentes de su época, entroncados dentro de una producción dirigida al gran público, generalmente ligada al cine de géneros, es que sus películas no son nada accesibles para el aficionado previsiblemente interesado. Se trata de una limitación que vengo sintiendo en carne propia, ya que hasta el momento solo he podido contemplar dos de sus títulos –los estupendos L’ARTE DI ARRANGIARSI (1954) y la posterior GLI ANNI RUGENTI (1962)-. Ambos ofrecen bajo sus aparentes tintes humorísticos, una mirada crítica y analítica de una sociedad que conocía muy de cerca, un cierto alcance fatalista combinado con un matiz irónico muy cercano a la comedia italiana, y un agudo y siempre penetrante apunte de tintes políticos. Puede decirse que son todos ellos elementos que definen –por lo menos a partir del exiguo porcentaje de su obra que he tenido oportunidad de contemplar-, las constantes temáticas y visuales de un director que además, sabía trasladar todas estas constantes en unas puestas en escena de notable rigor.
A este respecto, puede decirse que IL MAGISTRATO (El magistrado, 1959), se excluye parcialmente de dichas características, especialmente de ese elemento de integración con la sociedad italiana, que tomaba como marco de sus historias. Y es que en esta ocasión nos encontramos ante una coproducción hispano italiana, que de entrada se caracteriza por un extraño rasgo de abstracción en su relato central, ya que sus personajes residen en una localidad urbana indeterminada… que por momentos parece española –incluso en una secuencia se encuadra como fondo el edificio de comunicaciones de Madrid; en otras aparece el mar- y en otros detectamos referencias más o menos en segundo término, que permiten pensar que nos encontramos en territorio italiano. En cualquier caso, ese forzado grado de abstracción no puede decirse que beneficie y proporcione la debida coherencia a la historia narrada. Un relato este –elaborado por el propio Zampa, unido a Pasquale Festa Campanille y Massimo Franciosa, dominado por el espectro del fracaso personal en el contexto de una sociedad en la que parece solo contar el triunfo y los comportamientos de las clases más elevadas –algo que, por otra parte, aparece corregido y aumentado, en los tiempos que vivimos-.
Las primeras imágenes del film de Zampa, muestran la llegada del juez Andrea Morandi (José Suárez) al despacho del presidente de los juzgados para entregarle su dimisión irrevocable. Como quiera que el mandatario no acepta que este lleve a cabo su deseo, se interesa por saber que motivos le han llevado a tomar tal decisión, cuando hasta entonces su carrera judicial estaba definida por su gran vocación. Será el instante que introducirá en la película un largo relato en flash-back, comentando en off su acercamiento a la familia Bonelli. Un contexto representativo de clase media que ha logrado mantener un precario progreso en su seno, y cuyas relativas dificultades cotidianas le llevan a tener que admitir un huésped en su casa. IL MAGISTRATO logra recrear con cierta agudeza esas sensaciones contrapuestas que se establecen en un marco familiar sostenido con sentimientos artificiales, en donde convive una esposa autoritaria –Ana Mariscal-, con un esposo bondadoso y de débil carácter –Luigi (François Périer)- que responde al vivo retrato del fracasado. Dentro de dicha oposición de caracteres, se establece el conflicto de un marco de relaciones en el que el juez protagonista –ayudado en este sentido por las reflexiones en off que puntean el relato-, vive y de algún modo reflexiona ante las experiencias sentidas, entre las que en un momento se estableció una muy efímera atracción sentimental hacia la hija adolescente del matrimonio Bonelli –Carla (Jacqueline Sassard)-. Todo ello en un ambiente cerrado donde se encuentra bien presente la incidencia de un homicidio involuntario en un contexto de clase trabajadora, intentado con ello un retrato coral en el que conviven el provincianismo, la hipocresía, la facilidad del delito y un cierto alcance fatalista. La confluencia de esta tensa situación psicológica alcanza en la película su máxima expresión en la resolución del drama de una familia que, pese a todos los esfuerzos de sus componentes por intentar buscar la cuadratura del círculo en su propia existencia como tal, en realidad no pueden albergar la más mínima esperanza. Una resolución, terrible, que es mostrada por Zampa con una gran sobriedad y fuerza expresiva.
A tenor de lo comentado, nadie puede dudar que Zampa se enfrenta con temáticas que llegan a abordar un matiz crítico, que por otra parte nos acerca en sus características a ese tipo de melodrama de denuncia que de manera muy personal practicara Antonioni en Italia, y en España fue trasladado por Juan Antonio Bardem –y a este respecto, la presencia en el reparto de Luís Suárez creo que no obedece a la casualidad-. Sin embargo, y aún considerando que se trata de un título de cierto interés, e incluso contando en su conjunto con fragmentos magníficos, no puedo considerarlo dentro a la altura que las pocas películas de la filmografía de su director que he podido contemplar hasta la fecha ¿Qué sucede para esta relativa insatisfacción? Serían varias las razones, pero una de ellas es el grado de forzada abstracción que la propia consideración de la película –su carácter de coproducción-, que incluso en no pocos momentos resulta equívoca en la precedencia de su localización geográfica, y que impide profundizar en el contexto sociológico de sus personajes, permitiendo con ello invalidar en parte el carácter de denuncia siempre planteado en el cine de su director, para el cual era necesario mantener un marco concreto que incluso podía subvertir con aportes satíricos. En su defecto, en esta ocasión nos encontramos con un relato en el que los servilismos de la mencionada coproducción, influyen bastante negativamente en su resultado. Y lo hace manteniendo la presencia de actrices de tan corto talento como la Sassard, pero también en líneas generales conformando en su reparto una extraña conjunción de intérpretes que no logran convencer como tal conjunto, por más el retrato que Francois Pèrier adquiera un convincente aura de patetismo
En cualquier caso, es cierto que en el film de Zampa podemos encontrar muy buenos momentos puramente cinematográficos, en los que además encontraremos una notable capacidad de análisis y denuncia de carácter sociológico. Dentro de dichos parámetros, cabría citar la secuencia de la fiesta organizada por los padres de Pierino Lucchi (Jeronimo Meynier), en donde con una breve conversación con el padre de Carla definirán de modo claro las intenciones de la clase burguesía de una ciudad de provincias. En la charla, la madre no duda en señalar el hecho del casi obligatorio compromiso que los hijos de las clases altas vayan forjándose entre ellos mismos. Pero no convendría olvidar ese instante decisivo que supone la advertencia por parte del juez, del riesgo que por su parte correría afianzar su atracción por Carla –un momento en el que la pertinencia de la voz en off es indudable- y, por encima de todo, esos minutos finales que proporcionan al relato su vertiente fatalista y esperanzadora al mismo tiempo. Será con la recuperación del tiempo presente, cuando la inicialmente arbitraria decisión de dimisión del letrado, quedará expuesta en toda su lógica y dramatismo. Todo ello, expuesto en una secuencia en la que la aparente imposibilidad de considerar un entorno de justicia para una condición y existencia humana carente de ella, irá aparejada finalmente a una apuesta a la esperanza, centrada en esa lucha incesante que, en ocasiones, permite hacernos asumir a los mortales la creencia de poder aspirar a un mundo mejor y más justo.
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