TÍTULO ORIGINAL
La tratta delle bianche
AÑO
1952
IDIOMA
Italiano
SUBTITULOS
Español (Incorporados)
DURACIÓN
92 min.
PAÍS
Italia
DIRECCIÓN
Luigi Comencini
GUIÓN
Luigi Comencini, Luigi Giacosi, Massimo Patrizi, Ivo Perilli, Antonio Pietrangeli. Historia: Luigi Comencini, Luigi Giacosi
MÚSICA
Armando Trovajoli
FOTOGRAFÍA
Luciano Trasatti (B&W)
REPARTO
Eleonora Rossi Drago, Marc Lawrence, Ettore Manni, Silvana Pampanini, Vittorio Gassman, Tamara Lees, Antonio Nicotra, Barbara Florian, Ignazio Balsamo, Brunetta Sessartini, Franco Bologna, Silvio Gigli, Gianni Bonos, Sophia Loren, Duilio D'Amore, Enrico Maria Salerno
PRODUCTORA
Excelsa Films, Carlo Ponti, Dino de Laurentiis Cinematographica
GÉNERO
Drama | Neorrealismo. Prostitución
Rilettura di tematiche e figure neorealiste tramite il filtro del noir americano e del melodramma autoctono, La tratta delle bianche di Luigi Comencini è un originale tentativo di condurre un discorso anche politico tramite strumenti allegorici e cinema di genere, dove il gusto popolare incontra squisite raffinatezze stilistiche. Disponibile su Film&Clips.
Genova chiama Chicago
Al porto di Genova, il poco raccomandabile Machedi gestisce un traffico di giovani ragazze, spinte a imbarcarsi nottetempo con la promessa di un futuro di ballerine in America. Una di loro, Alda, ci ripensa all’ultimo momento e decide di non partire più. Il giorno dopo Machedi si presenta a casa della ragazza, che vive in una borgata, ma viene allontanato di malo modo da Carlo, il compagno di Alda. Di tutta risposta Machedi organizza un furto con il coinvolgimento di Carlo e fa in modo che l’uomo finisca in carcere. Alda si trova dunque a dover raccogliere il denaro per pagare l’avvocato al suo uomo, e per questo è costretta a iscriversi a una maratona di ballo che promette un lauto premio finale a chi riesce a restare in piedi più a lungo…[sinossi]
La tratta delle bianche (1952) è uno dei film più curiosi di Luigi Comencini. Giunto al suo quarto lungometraggio, il regista realizza una sorta di secondo capitolo di Persiane chiuse (1950), ricorrendo di nuovo alla stessa protagonista, Eleonora Rossi Drago, alla stessa ambientazione di Genova e costeggiando ancora il tema della prostituzione. Operante negli anni di progressiva dissoluzione del sentimento neorealista, Comencini sembra adottarne il consueto orizzonte sociale, conservandone forse la carica polemica e di denuncia, a fronte però di un orientamento estetico-narrativo decisamente divergente. La fisionomia generale, semmai, ricorda più da vicino il noir americano, sia per i profili romanzeschi e fumettari dei personaggi, tratteggiati a tinte forti e per giganteschi profili caratteriali, sia soprattutto per le soluzioni espressive adottate, che si appoggiano a un apparato ai confini con l’espressionismo riletto da occhi statunitensi.
Del neorealismo più canonico, La tratta delle bianche conserva sostanzialmente l’orizzonte sociale, di nuovo ristretto intorno a figure proletarie e sottoproletarie, collocate nelle borgate portuali di Genova. Alle tendenze neorealiste appartiene anche l’attenzione socio-politica per scottanti questioni d’attualità. Qui è il turno dell’avviamento alla prostituzione, destino comune a tante giovani donne incapaci nel dopoguerra di sbarcare il lunario e/o attirate dal miraggio della facile ricchezza. Nel film di Comencini si tratta in realtà di un avviamento proditorio, poiché ad attirare le ragazze all’imbarco su una nave è il sogno dell’America e della società dello spettacolo. Tale piaga di cronaca, dato ricavato con indefinita fedeltà dalla realtà e dalla fame imperante nei tempi del dopoguerra, qui appare però nient’altro che un punto di partenza per un progetto cinematografico di genere diverso. Non sposa di certo l’immediata credibilità del neorealismo la regia di Comencini, che rilegge il tema secondo modalità da feuilleton nero, dove il proletariato ospita il melodramma d’appendice più convenzionale, adottandone pure i consueti sovratoni nei dialoghi.
La sceneggiatura, frutto di un’équipe a dieci mani in cui figura anche Antonio Pietrangeli, predilige infatti la costruzione di un dramma tutto avvitato intorno a ricatti morali ed espiazioni da eroine romantiche – la protagonista Alda accetta di partecipare a una massacrante gara di ballo per pagare le spese giudiziarie al suo amato Carlo, l’infame di turno è talmente determinato ad accaparrarsi Alda che organizza di proposito una rapina parzialmente fallimentare per mandare in galera il suo rivale… È un mondo di piccoli criminali, di furti e rapine, un sottobosco di traffici illeciti che, pure nei dialoghi, rimandano immediatamente a modalità cinematografiche d’oltreoceano fin nell’abbigliamento dei malfattori, acconciati con trench e completi gessati.
Se dunque La tratta delle bianche cerca scopertamente il romanzo nero all’americana, d’altra parte vi sono infinite strade per rivelarsi politici anche secondo percorsi sorprendenti e inaspettati. Comencini sembra infatti rifiutare l’immediata evidenza della polemica neorealista ricorrendo però a un’idea forte di racconto che occupa abbondantemente il centro del film, e che nella sua insistenza finisce per tramutarsi in oggetto allegorico. Le ragazze protagoniste sono infatti ingannate dagli infami di turno che le coinvolgono in una maratona di ballo a eliminazione diretta, in cui il premio finale è promesso a chi riesce a restare in piedi più a lungo. Le somiglianze con il soggetto di Non si uccidono così anche i cavalli? (Sydney Pollack, 1969) sono abbaglianti, e viene da chiedersi se Comencini e i suoi sceneggiatori non si fossero forse trovati fra le mani una copia del romanzo di Horace McCoy, scritto nel 1935, che fece da soggetto per il gemellare film americano.
Anche in La tratta delle bianche la maratona di ballo assume a poco a poco, nel suo lunghissimo reiterarsi, i lineamenti di un’allegoria sociale, in cui lo sfruttamento della donna, tema già fondante del film, non sceglie la via della denuncia diretta e immediata bensì è veicolata tramite strumenti da cinema di genere. Pietrangeli non è l’unico sceneggiatore del film, e tuttavia la riflessione sulla donna come oggetto di consumo e disgregazione, intimamente pietrangeliana, sembra coinvolgere anche il film di Comencini in un comune discorso politico. Se il cinema di Pietrangeli analizza la progressiva reificazione femminile nel pieno del boom economico, La tratta delle bianche coglie il medesimo destino agli albori di un’Italia che ha appena avviato la ricostruzione postbellica, e che tuttavia ha già riservato alla donna un preciso ruolo segnato dal sopruso e dallo sfruttamento. Non è necessario imbarcarsi per finire chissà dove come carne da macello erotico. È sufficiente vivere in una melodrammatica subordinazione alla figura di un uomo tanto appassionato e protettivo, quanto debole e irresponsabile, pronto a rubare e finire in carcere affidandosi allo spirito di sacrificio della donna che l’aspetta fuori.
In una generale negatività dei personaggi maschili, intenti uno dopo l’altro a trovare il modo di monetizzare le donne a essi soggette, La tratta delle bianche sembra in realtà alludere a spietati meccanismi produttivi che ben si riassumono nelle danze sempre più esauste sulla pista da ballo. È qui rintracciabile anche la denuncia surreale e survoltata di una nascente società dello spettacolo, che funge da ulteriore miraggio accecante per le ragazze e che di nuovo trasforma esseri umani in oggetti. Sulla pista da ballo sembra andare in scena una robusta allegoria della società capitalistica, che schiaccia nell’iterazione meccanica di gesti e movimenti un essere umano al quale promette il premio finale senza che esso poi venga mai effettivamente assegnato. Il premio del benessere individuale, promesso e via via procrastinato, è l’inganno intorno al quale si sorregge l’intero nascente sistema occidentale. È un fine pena mai, che non prevede alcuna ricompensa. In tale direzione non sembra casuale nemmeno la scelta della danza come principale focus narrativo. Diffusissimo strumento di socializzazione nel dopoguerra e di annessa riscoperta dei piaceri della vita dopo le miserie belliche, la danza in coppia è qui sapientemente rovesciata da celebrazione dionisiaca in progressiva tortura sistemica. Comencini sembra rivelare il lato oscuro del piacere, il rovescio di una ricostruzione nazionale tanto sbandierata in mezzo all’entusiasmo quanto schiacciante ed emarginante nei suoi meccanismi di inclusione ed esclusione.
La tratta delle bianche propone poi un’ulteriore suggestione cinematografica nel suo finale, che vede lo svolgersi di un processo popolare ai malfattori decisamente memore di M – Il mostro di Düsseldorf (Fritz Lang, 1931). L’acre pessimismo nei confronti del genere umano è un po’ lo stesso della conclusione del capolavoro di Lang, in cui l’isteria di massa finisce per schiacciare il diritto alla giustizia anche del più riprovevole dei criminali. Nel film di Comencini il processo popolare piega più forse verso il gusto di un melodramma all’italiana di largo consumo in cui i torti siano nettamente condannati, per garantire al pubblico la necessaria catarsi rassicurante nell’avviarsi dal cinema verso casa. È una resa dei conti “giusta” e salvifica, in cui si riscattano anche figure eticamente ambigue come quella di Lucia, secondo un collaudato meccanismo narrativo di cattiva (o “semi-cattiva”) che si redime sul finale tramutandosi in buona. In tal senso La tratta delle bianche ricorda dinamiche narrative di diverse opere italiane più o meno coeve (pensiamo ad Anna, Alberto Lattuada, 1951; La lupa, Alberto Lattuada, 1953; e ovviamente tanto cinema di Raffaello Matarazzo), e malgrado le risonanze politiche fin qui rilevate la destinazione dell’opera resta evidentemente ed eminentemente commerciale. Ne è prova anche la composizione del cast d’attori, che mette insieme volti come Eleonora Rossi Drago, Silvana Pampanini, Sophia Loren (ancora indicata come Lazzaro), Ettore Manni, un Vittorio Gassman puntualmente doppiato nell’ennesimo ruolo anni Cinquanta di carogna, e un esordiente Enrico Maria Salerno. Se riassunto in una breve sinossi, l’intreccio del film può scatenare anche franche risate, visti l’eccesso surreale e la pazza corda seguita dalla linea narrativa tra personaggi giganteschi nella loro monodimensionalità.
Tuttavia Comencini squaderna un armamentario stilistico di grandissimo pregio in uno splendido bianco e nero, che sfrutta spesso taglienti prospettive visive in profondità nel quadro e che ricorre a efficaci chiaroscuri nelle ambientazioni – una per tutte, l’avvincente sequenza della rapina allo sferisterio. Atmosfere cupe e fumose, pessimismo esistenziale, uomini truci e donne vittime: La tratta delle bianche fa somigliare Genova a un sobborgo della Chicago anni Venti. L’effetto paradosso, per un film che sembra anche, come già detto, una rilettura stilistica su materiali narrativi da neorealismo, è quello di trasformare un film semi-politico in un’occasione di puro cinema autoreferenziale, che dialoga con la propria storia più o meno recente in una riproposizione manierata. Oggetto strano, bizzarro. Da vedere, in ultima analisi.
Massimiliano Schiavoni
https://quinlan.it/2020/03/17/la-tratta-delle-bianche/
Luigi Comencini e il melò
Capitolo eccentrico nella filmografia di Luigi Comencini, sequel ideale o, piuttosto, deliberatamente variato di Persiane chiuse (1950), La tratta delle bianche costituisce un inedito crocevia di soluzioni narrative, la messa in atto di una ristrutturazione tematico-produttiva che coinvolge il cinema italiano all’inizio degli anni Cinquanta. Pensato e riletto – in special modo a posteriori – come seconda parte di un dittico melò, il film si discosta dal precedente per un’attenzione tutta formale alla «forza dei set» [1], sintomo di un linguaggio in parte algido eppur mai tendente all’esercizio formale.
I set urbani di Comencini
La volontà di adesione alle proprie storie induce Comencini, piuttosto, alla ricerca di soluzioni altre per porsi al servizio di una trama già data, confezionata attorno a una protagonista ‘sicura’ (Eleonora Rossi Drago) e ancora una volta prossima al tema della prostituzione. Animato da una ripulsa del compromesso, nonché intimamente avverso alle riproposizioni tout-court, il regista sposta dunque l’attenzione sul piano ‘spaziale’, illuminando con chiaroscuri la preminenza di set urbani potentemente «sospesi tra ipermodernità e degrado» [2].
Disgregazione del neorealismo
La scelta, oltre a marcare il distacco dall’organizzazione ‘musicale’ di Persiane chiuse (individuata da Morreale nel crescendo di sequenze forti, dal tabarrin al ritorno a casa [3]), segna i confini di una ‘zona grigia’ entro cui l’opera prende forma, incastonata tra immaginario noir e suggestioni espressioniste. Sebbene l’ibridismo sia in parte condiviso dal film precedente, La tratta delle bianche interpreta con maggiore vigore quello sconfinamento di genere che investe la pratica neorealista nei suoi aspetti semantici e sintattici [4], trasformando il ‘prodotto’ meno amato dal regista [5] in un terreno d’analisi dalle molteplici implicazioni.
Tra noir e melò
Realizzata, anzitutto, a seguito di un radicale ripensamento del melodramma contemporaneo, l’opera di Comencini conserva i sovratoni dialogici del filone “matarazziano” [6] per poi virare con decisione verso il linguaggio ‘inquieto’ del cinema muto. A impreziosire il lavoro d’incastro – in un «pout pourri multimediale» [7] segnante persino le dinamiche narrative – concorre l’innesto sul materiale neorealista, già compromesso nei suoi elementi-base dall’influenza del noir e della letteratura poliziesca.
Suspense e sguardo di donna
Oltre a Houston, Hawks, Dassin [8], lo sguardo comenciniano si estende a quel cinema interessato ai «meccanismi della suspence» [9], sovente affidati – nella loro funzione scandagliante – a un occhio femminile volutamente statico. In perenne bilico tra intimità e orizzonte sociale, il personaggio-donna del film è, come in Persiane chiuse, il residuo più evidente dell’eredità melò. Chiamato in causa per indagare «temi sordidi quali il crimine, il vizio, la prostituzione» [10], esso fornisce allo spettatore un rassicurante spettro di divisioni manichee, in cui il guazzabuglio emotivo della vita lascia il posto alla spartizione tra buoni e cattivi.
Luigi Comencini “sperimentale”
La mescolanza tra neorealismo e noir, d’altro canto, impone la giustapposizione di componenti inconciliabili, sicché ai malfattori in trench e gessato s’oppongono irrimediabilmente i borgatari a la Lizzani (si veda Ai margini della metropoli, 1953, di poco posteriore). La ricomposizione di moduli narrativi canonici permette comunque a Comencini di mostrare alcune delle soluzioni formali «più “sperimentali” della sua carriera» [11], dando vita a un impianto figurativo oltremodo originale.
Aspetti figurativi
Lontana dall’esornazione fine a se stessa, la macchina del regista effettua dei movimenti in profondità che ammantano il proscenio d’efficaci sfumature. L’atmosfera cinerea e plumbea avvicina Genova «a un sobborgo della Chicago degli anni Venti» [12], mentre lo stacco iniziale sulla partita di pelota mostra giocatori bianchissimi stagliati su uno sfondo d’assoluta oscurità. Questa continua alternanza di luci e ombre fotografa efficacemente l’intenzionale assenza di chiaroscuri nell’impianto narrativo.
Buoni vs cattivi
In La tratta delle bianche contenuto e aspetti figurativi procedono di pari passo, dando vita a una compattezza finale difficilmente riscontrabile nelle prove coeve. La schematica ripartizione in buoni e cattivi (cui corrisponde, sul piano formale, quella in bianchi e neri) s’incarna – come accennato – nello sguardo che fissa l’antitesi tra sfruttatori e sfruttati.
Luigi Comencini osservatore della società
Qui vien fuori il Luigi Comencini dell’attrazione verso i margini, l’autore sapientemente teso all’osservazione della società. Mediante i ritratti autentici (seppur ingenui e schizzati) delle protagoniste dell’opera, il regista conduce un’indagine impietosa sui miti della civiltà del benessere. In una fase di ricostruzione che già si fa smantellamento, i bisogni materiali si fondono con le illusioni, mentre il marchio dell’oppressione segna in maniera indelebile ogni tentativo di riscatto.
L’impronta di Pietrangeli
A farne le spese, secondo un destino di «flagelli subiti», le donne che pur tentano di sottrarsi a un avvenire già scritto. La figura di Alda (Rossi Drago) risente in tal senso della scrittura di Pietrangeli, co-sceneggiatore del film e attento osservatore dell’universo femminile. Pur senza riproporre i fragili equilibri dei suoi personaggi, il cineasta romano investe la giovane comenciniana del peso delle trasformazioni economico-sociali, stabilendo un cronotipo collegamento di sopraffazione e soprusi.
La gara di ballo come allegoria sociale
In una dimensione spazio-temporale immobile, la vicenda di Alda denuncia l’ineluttabilità di un ruolo pre-stabilito, cui taluna si sottomette come alle regole di un macabro, odioso gioco. E in quest’ottica che la maratona di danza diviene catalizzatore degli elementi della storia. Interpretata da Gili come «l’espressione simbolica di una società» che oppone ricchi e poveri [13], la gara è in realtà un perfido strumento di possesso, in cui ogni differenza tra l’agire di Machedi (Mark Lawrence) e quello dell’innamorato Carlo (Ettore Manni) è appiattita su un unico paradigma culturale.
Un’opera da riscoprire
L’oggettivazione sessuale – passata attraverso lo sguardo del protettore e del futuro marito – s’impianta inoltre nella promessa del sogno divistico, vera e propria tratta delle bianche per giovani squattrinate. Contrariamente allo spazio riservatogli nelle bibliografie, l’opera in questione rappresenta una delle prove più interessanti del cinema di Luigi Comencini, capace di restituirne il carattere poliedrico in costante tensione tra pessimismo e moralità.
Tre motivi per vedere il film:
*Il cast stellare: Eleonora Rossi Drago, Silvana Pampanini, Sophia Loren (ancora Lazzaro), Vittorio Gassmann, Enrico Maria Salerno
*La musica
*La sfumatura impressionista che mai più riprodotta
Note
[1]. E. Morreale, Così piangevano, Roma, Donzelli, 2011, p. 249.
[2] Ivi, p. 254.
[3] Ivi, p. 253.
[4] Si veda a proposito R. Altman, A Semantic/Syntactic Approach to Film Genre, in “Cinema Journal”, 23, III, primavera 1984, pp. 6-18.
[5] Notoriamente ostile a lavorare più volte sui medesimi temi, il regista dichiarò di non aver «mai visto terminato» La tratta delle bianche, giacché farlo lo «aveva agghiacciato»: «Ci avevo messo una cosa che mi piaceva, una maratona di danza come in They Shoot Horses, Don’t They?. Volevo centrare tutto il film su questa maratona, ma i produttori Ponti e De Laurentis, sempre cottimisti, volevano, dopo il successo di Persiane chiuse, un altro film “sulla prostituzione”. Di solito quando c’è un conflitto col produttore, io sbaglio il film. In questo caso, doveva essere un film piuttosto discontinuo». (L. Codelli, Entretien avec Luigi Comencini, in “Positiv”, 156, febbraio 1974, p. 7. Per la traduzione italiana ho attinto a T. Masoni – P. Vecchi (a cura di), Luigi Comencini autore popolare, Reggio Emilia, Comune di Reggio Emilia- Assessorato Istituzioni Culturali-Commissione Consiliare Cinema, 1982, p. 93).
[6] Si fa riferimento, qui, a Raffaello Matarazzo, iniziatore con Catene (1949) del melodramma d’ambientazione contemporanea. Per approfondimenti si veda O. Caldiron, S. Della Casa (a cura di), Appassionatamente. Il melò nel cinema italiano, Torino, Lindau, 1999.[7] E. Morreale, Così piangevano, cit., p. 254.
[8] Cfr. F. Di Chiara, La “segnorina” neorealista tra melodramma e noir. La tratta delle bianche di Luigi Comencini, in “Annali Online di Ferrara – Lettere”, I, 2007, p. 9.
[9] E. Morreale, Così piangevano, cit., p. 250.
[10] A. Farassino, Viraggi del neorealismo. Rosa e altri colori, in L. De Giusti (a cura di), Storia del cinema italiano 1949-1953, VIII, Venezia, Marsilio, 2003, p. 213.
[11] E. Morreale, Così piangevano, cit., p. 251.
[2] M. Schiavoni, La tratta delle bianche di Luigi Comencini, in “Quinlain. Rivista di critica cinematografica”, 17 marzo 2020.
[13] J. A. Gili, Luigi Comencini, Roma, Gremese, 2003, p. 22.
Ginevra Amadio
https://www.culturamente.it/cineforum/luigi-comencini-tratta-delle-bianche/
Un drammone sociale e sentimentale, interpretato dalle stelle del cinema italiano anni ’50. È così che si presenta a noi spettatori del ventunesimo secolo La tratta delle bianche, il quarto lungometraggio di Luigi Comencini. Il film in questione è datato 1952. Appena un anno dopo, il regista lombardo avrebbe diretto Pane, amore e fantasia, pellicola che lo avrebbe consacrato padre della commedia all’italiana.
la tratta delle biancheSono ancora gli inizi, quelli in cui Comencini cerca la propria strada cinematografica e, dopo una commedia interpretata da Totò, L’imperatore di Capri (1949), il regista decide di esplorare la tragedia della prostituzione e i suoi risvolti sociali. Lo fa con Persiane chiuse (1950) e ci riprova subito dopo con La tratta delle bianche. In entrambi i film, il ruolo da protagonista è affidato a Eleonora Rossi Drago, volto noto del grande schermo nazionale nel ventennio ’50-’60. L’attrice genovese ha un certo talento drammatico e ben si presta a parti del genere. Rispetto a Persiane chiuse, però, La tratta delle bianche è un’opera corale, che mette in evidenza la capacità interpretativa dei diversi attori che vi hanno lavorato: Vittorio Gassman, Marc Lawrence, Ettore Manni, Silvana Pampanini, Enrico Maria Salerno, Tamara Lees e una Sophia Loren, che allora si faceva chiamare Lazzaro, negli anni degli esordi e dei piccoli ruoli. Tutte queste star di casa nostra conferiscono un valore aggiunto ai molti personaggi – alcuni ben caratterizzati, altri appena abbozzati – della storia scritta da Antonio Pietrangeli.
Manfredi (Lawrence) organizza traffici di belle e giovani donne, reclutate nel contesto sociale del sottoproletariato genovese. Oppresse dalla povertà, circondate da uomini che vivono ai margini della legge, le ragazze sono attirate con la promessa di una vita facile e agiata grazie al mondo dello spettacolo. In realtà, vengono spedite in America e avviate alla prostituzione. Una di queste è Alda (Rossi Drago) che, grazie all’amore del giovane e squattrinato Carlo (un esordiente Manni, allora studente universitario notato da Comencini proprio per questo film), riesce a sottrarsi al giro. Manfredi, però, non la manda giù. Con la complicità di Michele (un sempre convincente Gassman), coinvolge Carlo e altri proletari in un furto e poi li denuncia. Il giovane finisce in prigione e Alda cerca di trovare i soldi per pagare l’avvocato. L’occasione è data da una singolare maratona di ballo: una faticosissima prova di resistenza fisica, che dura quindici giorni e promette lauti premi, organizzata da Manfredi come pretesto per adescare ragazze. Diversi i personaggi che prendono parte alla gara, tutti con storie più o meno tribolate alle spalle.
Sono i poveri gli autentici protagonisti di questo affresco sociale tratteggiato da Comencini. Nonostante la riuscita fotografia di una Genova polverosa che grida miseria dalle sue borgate, il regista non si sofferma più di tanto sull’ambientazione. Gli interessa piuttosto analizzare le reazioni tipiche di chi tenta di sottrarsi alla fame, in modi più o meno onesti, attraverso le vicende dei suoi personaggi: il viscido Manfredi, che approfitta delle altrui tragedie; il furbo ed egoista Michele, che tradisce i compagni; l’idealista e impetuoso Carlo; l’ingenua e dolce Linuccia, che balla per salvare il padre dalla galera e si innamora di Giorgio; la tenace Alda, pronta al sacrificio per amore; l’avvenente Lucia (Pampanini), ragazza povera ma ambiziosa, che sceglie di mettere da parte le illusioni e si avvia consapevole allo sfruttamento, pur non dimenticando il suo unico amore.
Gli intrecci sentimentali di questo film tradiscono una certa ingenuità e un lieve patetismo tipico dei fotoromanzi. Lo stesso possiamo dire di alcune scene eccessivamente didascaliche, in cui si tendono a sottolineare con le parole sensazioni ed emozioni che potrebbero essere rese con più forza solo attraverso lo sguardo degli ottimi interpreti. È questo il caso della scena in cui Alda si sforza di continuare a danzare, con il volto rigato dalle lacrime; o la scena in cui Lucia, spogliandosi dei suoi miseri vestiti e guardandosi allo specchio con un abito costoso ed elegante, che esalta la sua bellezza, decide di intraprendere la strada della prostituzione. Altra pecca è la visione semplicistica, con punte più o meno velate di moralismo, che sottende al film, in cui si contrappongono i buoni ai cattivi: da una parte i poveri sfruttati e dall’altra gli sfruttatori, senza tenere in considerazione le molteplici sfumature che stanno nel mezzo. Del resto, si tratta di una pellicola girata nel 1952, che risente indubbiamente del clima morale imperante nell’Italia dell’epoca. Nonostante i difetti riscontrati, La tratta delle bianche è un’opera di notevole impatto visivo, soprattutto nelle scene della maratona di ballo e in quella del giudizio popolare nei confronti degli sfruttatori, dove emerge prepotente la cifra stilistica del regista. Interessante è poi notare come certe situazioni, così diffuse ai giorni nostri, fossero già tipiche dell’Italia anni ’50, con giovani donne disposte a tutto pur di ottenere un briciolo di attenzione dallo show business.
Annalice Furfari
https://www.sentieriselvaggi.it/dvd-la-tratta-delle-bianche-di-luigi-comencini/
Muchas gracias
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