TITULO ORIGINAL I baci mai dati
AÑO 2010
IDIOMA Italiano
SUBTITULOS No
DURACION 80 min.
DIRECCION Roberta Torre
GUION Roberta Torre, Laura Nuccilli
REPARTO Donatella Finocchiaro, Pino Micol, Giuseppe Fiorello, Carla Marchese, Martina Galletta, Alessio Vassallo, Tony Palazzo, Valentina Giordanella, Gabriella Saitta, Lucia Sardo, Piera Degli Esposti
FOTOGRAFIA Fabio Zamarion
MONTAJE Osvaldo Bargero
MUSICA Federico Di Giambattista, Andrea Fabiani
PRODUCCION Rosettafilm, Nuvola Film, en collaboración con Adriana Chiesa Enterprises, Regione Siciliana, Sicilia Film Commission e Cinesicilia
GENERO Comedia / Drama
SINOPSIS Periferia di Catania, oggi. Manuela ha tredici anni, lavora come apprendista parrucchiera, vive con i genitori e la sorella. Una ragazza come tante. Fino alla notte in cui una statua decapitata della Vergine Maria le rivolge la parola. (Gli Spietati)
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Trama del film I baci mai dati:
Manuela, tredici anni vissuti a Librino, un quartiere modello, periferico e degradato di Catania, un giorno si inventa di poter fare miracoli. La gente non desidera che crederle e da quel momento irrompe nella sua vita un'umanità affamata e bisognosa che le chiede di tutto: dal posto di lavoro perduto alla vincita al Totocalcio. Mentre sua madre Rita intravede la possibilità di farne un commercio, Manuela si spaventa e vorrebbe smettere di fare la santa, ma non è più così facile. Perché suo malgrado un miracolo succede davvero.
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Roberta Torre e il suo cast presentano I baci mai dati
Ha già fatto Venezia, Mosca, il Sundance di Robert Redford. Insomma l'ha presa larga il film di Roberta Torre I baci mai dati, che arriva nelle nostre sale il prossimo 29 aprile.
Il cast e la regista milanese, siciliana d'adozione, ci hanno parlato di questa storia "miracolosa", che unisce toni favolistici, melodramma, un pizzico di spiritualità e una vivacità di colori notevole.
Nell'infuocata periferia di Librino, sobborgo di Catania (costruito dall’architetto giapponese Kenzo Tange per essere qualcosa di decisamente diverso), la giovanissima Manuela (Carla Marchese) dice di aver visto la Madonna in sogno. Tanto basta per cambiare la sua vita e quella dei suoi familiari. La piccola diventa improvvisamente una “santa” a cui tutto il paese chiede aiuto, la mamma Rita (Donatelella Finocchiaro), una manager che accoglie in casa tutti i bisognosi di un incontro, ricevendo in cambio grandi quantità di doni floreali e denaro. Un equilibrio fragile che porterà a scontri, situzioni comiche e una svolta imprevista.
Roberta Torre ha fatto tesoro dell’esperienza estera del suo film. “Non ho voluto dare una particolare connotazione regionale alla mia storia, volevo solo fosse ambientata in una periferia, a quel punto è arrivata Librino. Le reazioni ricevute dagli spettatori non italiani mi hanno sorpreso - dice la regista - ho capito che, al di là del contesto regionale, il fulcro di tutto erano i messaggi trasmessi. Una parola che suona così antica e che non uso mai, tuttavia sono stati proprio i rapporti, le emozioni e anche la commozione a lasciare il segno”.
Dagli Stati Uniti le è stato chiesto come mai un Paese dove regna tanta bellezza sta vivendo un tale momento di degrado. "Una domanda che sinceramente in Italia non mi è stata mai posta," ha detto Roberta, la quale ritiene possa essere difficile, ma non impossibile, trovare la bellezza anche a Librino, quartiere satellite fatto di palazzoni e cemento.
“La Sicilia, luce, caratteri, colori particolari: questa terra per me è come un palcoscenico del mondo, una regione che è luogo di un immaginario potente, per questo non smette di affascinarmi e di essere fulcro del realismo delle mie storie. In un momento di così triste immaginario e povera realtà, mi piace vivere in un posto che mi faccia scoprire le nuove strade della fantasia”.
Le chiediamo cosa rappresentano le figure femminili, vere o sognate, che nel film compaiono con la loro femminilità vistosa, i capelli cotonati, un trucco deciso su visi anche angelicati: “Credo faccia sempre parte del mio immaginario favolistico e da fumetto. Fin dai primi film ho sempre raccontato delle favole, pur se includono toni inquietanti o poco rassicuranti”.
La lavorazione de I baci mai dati, dopo un iniziale sospetto e diffidenza dei locali, è stato accolto con gentilezza e disponiblità. “Nelle periferie lavoro da sempre, in quei contesti mi trovo bene, quelli in cui il contemporaneo trova le sue forme prima di ogni altro luogo. Probabilmente ormai fa parte di me”.
A distanza di otto anni (da Angela) Roberta Torre e Donatella Finocchiaro si ritrovano. “E’ stata la mia mamma artistica – dice Donatella – in questo anno pieno di commedie quella di Roberta ha segnato nuovamente il mio debutto, in una storia che unisce ai toni comici, il realismo e l’onirico”.
Interpretare una donna con una femminilià così provocante? “Non è stato facile all’inizio, ammette divertita, questa nuance biondo Librino, le unghie laccate, stretta in abiti leopardati e tacchi alti, non è un’immagine che mi appartiene, ma ho avuto fiducia in Roberta”.
Donatella interpreta una donna sopra le righe, vistosa, accattivante, ammaliatrice, molto presa da sè. “La causa scatenante, lo snodo di tutti i rapporti nel film è proprio la visione della Madonna che mia figlia dice di aver avuto. Da quel momento ci si accorge di come tutti nel paese sentano il bisogno di sperare in qualcosa ed essere ascoltati da qualcuno”.
Le donne qualche bacio lo conservano da parte (più che non darlo) sapendo quale sarà l’occasione buona? “Mi viene in mente mia nonna quando diceva, in dialetto siciliano, che i bambini si baciano solo di notte, quando dormono. Forse sì, c’è un perchè abbastanza antico nel dosare l’affettività. Ma nel film assistiamo a una bella svolta”.
Nel cast de I baci mai dati ci sono anche Giuseppe Fiorello, Pino Micol e Piera Degli Esposti, nel ruolo di una parrucchiera che nel suo coloratissimo negozio legge anche le carte. “Mi piace aggiustare la testa fuori e dentro” spiega l’attrice, che si è divertita molto a interpretare questo ruolo, aggiungendo alla figura una sana crudeltà. “E’ l’unica che dubita dei poteri di questa ragazza, in realtà è un po’ invidiosa perché fino a quel momento ci aveva pensato lei a rendere felici o meglio a illudere (con le altissime acconciature e un giro di carte) le sue clienti”. Le chiediamo quale è il ruolo che vorrebbe nel prossimo futuro: “il commissario, spero proprio che a forza di dirlo qualcuno accolga la mia idea. Mi affascina e inoltre penso di essere portata per le indagini, nella mia testa ho risolto anche qualche caso”.
I fedeli alla piccola Manuela chiedono soprattuto lavoro e fama, in una lunga processione che costringe l’esordiente Carla Marchese ad indossare abiti “da suora” e ascotare pazientemente.
“Al contrario del mio personaggio che inventa la visione della Madonna per attirare l’attenzione, io cerco di non farlo mai, i miei compagni hanno saputo solo ora che ho girato un film”.
Quindici anni, un’esperienza sicuramente piacevole, che in futuro (adesso pensa a studiare) magari ripeterà, e una sintesi del film genuina. I baci mai dati per Carla è “emozionante, dolce e divertente”.
Giulia Pietrantoni
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Quando la Madonna ti parla in sogno, sia vero o no, qualcosa succede. Succede che Librino può diventare il centro del mondo, i paesani dei fedeli, la musica, silenzio, e una ragazzina, santa.
Con spirito e spiritualità laica la regista che si fece adottare dalla Sicilia, e si trovò benissimo, mette in scena il suo film sui miracoli. Agrodolce, allegro e misterioso.
Deciso da lei, illustrato da lei, scritto da lei insieme a Laura Nuccilli, I baci mai dati ha l'impronta di Roberta Torre, che cambia di volta in volta, non si adagia, ha coraggio, a volte sbanda. Ben fatto. Chiedersi se la Madonna possa veramente aver detto qualcosa a Manuela (Carla Marchese) non è fondamentale, non lo capisce neanche la protagonista, che confesserà una bugia, ma secondo me qualcosa aveva visto, il sogno era sfocato. Invece ha senso che il solo sospetto dello stato di grazia di quella ragazza, vivacizza un'intera comunità, quella che ha richieste e paure lecite, molte stranezze e soprattutto desiderio di essere ascoltata.
La regista milanese ha bisogno dei sogni e dei colori pop per affondare nel senso di realtà. Per rendere quella periferia catanese, né blanda, né fasulla, servono i palazzoni in cemento e i cartamodelli da collezione, l'autenticità di una casa come tante e il parrucchiere/cartomanzia dalle avvolgenti tinte rosso/viola (decisamente troppo almodovariano). Un miracolo, ha pensato Roberta, può avvenire solo dove il reale di una famiglia mezza sfasciata, impetuosa e non comunicativa, fa spazio all'immaginazione (di carrellate di donne ammaliatrici dalle teste cotonate).
Decisamente femmine di un sud fantasioso e rituale, nella versione vera, o in prorompenti visioni felliniane, le donne occupano la scena. Rita (Donatella Finocchiaro), mamma sguaita e affaccendata, che nel dono della figlia crede solo per profitto (fiori e denaro arrivano in quantità), indossa orgogliosa i suoi abiti fascianti. Manuela, scontenta ma paziente, deve indossare invece quelli più adatti ad accogliere i "fedeli". Adolescente a intermittenza, lei, a quella corte non sa proprio cosa dire, perchè non ha visto niente, però piano piano inizia a sentire.
La rivoluzione estetica (che aveva accompagnato il grottesco e surreale musical di Tano) non si ripete, questo film è sicuramente più imperfetto e indeciso nell’amalgamare i suoi elementi, ma non per smania di strafare. Senza addentrarsi nel mistero della fede, Roberta Torre preferisce piuttosto mostrare la speranza che si vuole mantenere e regalare ad ogni costo. Volutamente ironico, ancor più decisamente melodrammatico e onirico I baci mai dati non è spiegato o troppo parlato, i miracoli d’altronde sono da prendere così.
Giulia Pietrantoni
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Una freschezza narrativa e visiva che offre il respiro di una 'speranza'
Estate. Catania. Librino, quartiere satellite. Manuela ha tredici anni, una sorella maggiore che si sta infilando in giri pericolosi, una madre che non sa bene che fare della propria vita e un padre che c'è e non c'è. È un'esistenza come tante la sua fino a che un giorno la statua della Madonna che è stata eretta nello spiazzo antistante la sua abitazione diventa qualcosa di più di un monumento. Le parla o, almeno, così sembra. Da quel momento la vita di Manuela e di chi la circonda si trasforma radicalmente. La voce si diffonde e la sua abitazione diviene meta di persone che chiedono di ricevere una grazia. Diviene anche occasione di arricchimento per sua madre e di stress per lei. Finché un giorno...
Roberta Torre è tornata. Non possiamo che constatare con piacere che, dopo il passo falso di Mare Nero, la regista milanese (ma siciliana adottiva) ha ritrovato la freschezza narrativa e visiva del suo cinema migliore. La visionarietà del suo fare cinema diede origine a una piccola rivoluzione estetica con Tano da morire. Si poteva parlare di mafia con un musical in cui il grottesco si sposava con il surreale. Che cosa di meglio di un miracolo, si potrebbe pensare, per intervenire con le scelte stilistiche di cui sopra? Ma la regista, per sua e nostra fortuna, non ama ripercorrere territori già esplorati o, meglio, integra il suo passato cinematografico con un nuovo modo di narrare.
C'è ancora un negozio di parrucchiera (antro della fattucchiera Degli Esposti) in cui Manuela vorrebbe apprendere un lavoro se non le venisse impedito. Ci sono sogni in cui donne con capelli di zucchero filato si lasciano pettinare. Ma c'è, soprattutto, un'umanità alla disperata ricerca di qualcuno che sia disposto ad ascoltare le sue lacerazioni, i suoi bisogni, talvolta le sue pretese che sfiorano l'assurdo involontario ("Vorrei che la Madonna facesse trovare un lavoro al mio fidanzato in un supermercato. Nel turno dalle 3 alle 8 del pomeriggio, che è il migliore).
È un'umanità disposta a credere a chiunque sembri credere in lei. Così Manuela (che a sua volta vorrebbe essere compresa e ascoltata ricevendo quei baci che non ha mai avuto e che di conseguenza non ha dato) è costretta a trasformarsi in una sorta di fabbrica della speranza. Ma di vera speranza si tratta? Roberta Torre non ci vuole dare una risposta. Ci vuole offrire invece il respiro di una possibilità. Un respiro misterioso, come quello iniziale che percepiamo distintamente sotto il telo che ricopre la statua della Madonna.
Giancarlo Zappoli
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C'è un nuovo problema all'orizzonte per il cinema di Roberta Torre. La cineasta milanese, che si innamorò della Sicilia e che lì decise di ambientare i suoi lavori da regista, non riesce più ad affrescare quel territorio così presente (al pari dei protagonisti) nei suoi lungometraggi. Dopo l'esordio di "Tano da morire", l'abilità della Torre di contaminare i colori e i volti reali dell'isola con il suo innato spirito per un cinema fuori dalla realtà, ricco di citazioni pop e spunti fantasiosi, si è un po' appannata. Anche se, in ogni caso, la scelta di spaziare tra i generi e variare (e anche di molto) il tono del racconto metteva in luce un talento comune a pochi colleghi, almeno in Italia.
Con "I baci mai dati", la Roberta del cinema italiano tira fuori dal cilindro un copione-farsa, una commedia degli equivoci ambientata a Catania, dove l'adolescente Manuela, un po' annoiata e un po' trascurata dalle persone care che la circondano, decide di mettere un po' in subbuglio la sua vita inventandosi l'abilità di parlare con la Madonna. E così, la novella Bernadette si trova a ricevere a domicilio le visite di tutta una fauna umana di quartiere che esprime i più disparati desideri, chiede le più improbabili intercessioni alla piccola. E il dono fasullo di Manuela diventa anche un modo per sua madre, un ex reginetta di bellezza, per sognare di metter su un vero e proprio business, un modo per uscire da un anonimato di periferia in cui, malauguratamente, è finita con l'arrivo della mezza età.
Sempre attenta nei particolari della messa in scena, la Torre anche stavolta è raffinata nelle scelte stilistiche, nell'uso di primi piani e inquadrature che si soffermano sui particolari più paradossali e grotteschi della vicenda. Ma l'obiettivo finale resta confuso. Da una parte, appunto, l'aspirazione a una "alta" commedia degli equivoci ambientata in un'improbabile quartiere catanese, dall'altra una sorta di coming-of-age all'italiana, un racconto di formazione sull'importanza dei baci "non dati", dell'affetto non ricevuto da parte di una ragazzina. Entrambi gli spunti, in verità, sono interessanti e avrebbero meritato maggior elaborazione. Perché la sensazione che incombe è che il cinema della Torre, proprio quando si allontana dal suo mondo dell'assurdo, fatto di musical beffardi e di una Sicilia da cartolina onirica, e si cala di più in un mondo vero composto da volti reali, perde di fascino e, forse, si ibrida fino allo snaturamento.
E per quanto gli interpreti siano bravi e le scelte cadute su di loro azzeccate, resta il dubbio che, ad esempio, il personaggio di Donatella Finocchiaro, la madre bellissima e "decaduta", sia stato tratteggiato più con il gusto di mettere in scena un carattere "strappa-sorrisi" piuttosto che con una profondità degna di "neoverismo" siciliano.
Giancarlo Usai
Esce a breve distanza dall'omonimo film di cui è regista (presentato alla 67° edizione della Mostra del Cinema di Venezia, candidato a due Nastri d'argento, di cui uno proprio per il soggetto), I baci mai dati di Roberta Torre. Un romanzo breve e intenso, che amplia e arricchisce il film con l'approfondimento dei rapporti familiari e l'evoluzione psicologica e sentimentale della giovane protagonista. Resta, come tratto inconfondibile, la visionarietà e la vena evocativa che caratterizza i migliori film della Torre.
Manuela ha tredici anni e vive a Librino, estrema periferia di Catania: palazzi di cemento uno dietro l'altro contrassegnati da lettere, dove a stento arriva la posta. Sua madre Minuccia è un cane che scodinzola riconoscente. Suo padre Giovanni è un cane bastonato. Il Dio che ogni tanto le appare è un cagnolino abbandonato, perché nessuno si è mai preso cura di lui e si sente molto solo. Anche i compagni di classe sono animali dello zoo, mentre sua sorella è una scimmietta rompicoglioni. Solo Giuseppe è diverso, bello e stronzo da star male.
Una notte la grande statua bianca della Madonna nella piazza principale perde la testa. Tutti gridano e si disperano, è un presagio cattivo, ma Manuela sa dov'è, glielo ha rivelato la Madonna in persona. È nel garage dei Lo Sicco, divisa in due, dietro le tazzine di porcellana. Così Manuela diventa la ragazzina del miracolo, e tutti adesso le prestano attenzione, come si fa con un giocattolo nuovo, per chiedere un piccolo intervento divino anche per sé. Minuccia odora l'affare, e apre la casa a orde di questuanti. Ma Manuela pensa solo a Giuseppe e ai suoi baci, ha le spalle troppo piccole e fragili per sostenere tutta l'infelicità e il dolore del quartiere. Decine di persone al giorno, che vengono a chiedere un lavoro per il figlio nel supermercato sotto casa, nel turno dalle 3 alle 8 del pomeriggio, che è quello migliore; un fidanzato bello e ricco; un seno nuovo; una comparsa al Grande Fratello o in qualche trasmissione della De Filippi. Poi padri strangolati dai debiti, disoccupati, disperati, con figli e mutuo da pagare. Manuela guarda tutto quel dolore, che prima non sospettava neppure esistesse, e guarda sua madre, adesso così premurosa, come mai era stata, intascarsi rotoli di soldi da quei disgraziati. Manuela sa quanti baci ha ricevuto da sua madre. Sa il numero preciso. Venticinque, in tutta la sua vita, uno più uno meno. Baci distratti, dati quando non ne poteva fare a meno, e scordati in fretta.
Manuela non riesce più a dormire la notte. Le preghiere le rimbombano nelle orecchie. Sono tutti affamati, quelli che vanno da lei, hanno un bisogno disperato di essere ascoltati. La Madonna non le parla più. In verità, non le ha mai parlato: quel giorno aveva visto i Lo Sicco giocare a pallone in piazza e colpire la testa della Madonna, che si era staccata e rotta.
Ma alla fine le cose possono cambiare, perché il finale lo decidiamo noi. Ci costringono alla bugia, che è come una lunga notte, ma si può scegliere di rivedere la luce. Così, scappando di casa, Manuela riesce a farsi ascoltare dalla madre, a confessare la sua bugia e a sentirla, per la prima volta, madre, a sentirsi, per la prima volta, figlia. Il grande miracolo sta forse qui, nel ritrovarsi, nel recuperare affetti che parevano distrutti e perduti per sempre .
Un libro e un film che parlano dell'Italia di oggi, dei problemi quotidiani delle persone comuni, dei pericoli dell'isolamento, delle speranze che la disperazione della povera gente ripone in una fede che sconfina nella superstizione. Viene fuori, soprattutto dalle pagine del romanzo, un urgente bisogno di sacro e autenticità. Lo dimostra anche il proliferare di romanzi, saggi, pellicole che si interrogano sul ruolo della religiosità e della fede nella società del consumismo e della spettacolarizzazione: solo per citare i più recenti, Habemus Papam di Nanni Moretti e Corpo celeste di Alice Rohrwacher. Quest'ultimo condivide con il film/romanzo della Torre molti temi: le protagoniste sono due adolescenti con una famiglia sgretolata e poco presente, l'azione ha luogo in una periferia del sud Italia, le due giovani si trovano a fare i conti con una spiritualità confusa, in crisi, vicina alla superstizione. E poi c'è un "miracolo" finale, che sposta il focus su un piano diverso, in cui umano e divino confluiscono per ricordarci che il sacro sta, semplicemente, nell'amore per sé e per gli altri.
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Manuela ha 13 anni e vive in una famiglia grottesca, ma inquietantemente realistica, una famiglia che la ignora. Probabilmente per attirare l'attenzione su di sé si inventa di aver parlato in sogno con la Madonna, che le ha rivelato dove si trova la testa della sua statua appena inaugurata in una piazza del quartiere, rotta accidentalmente e poi nascosta da alcuni ragazzini. Dopo il ritrovamento della testa, la vita di Manuela cambia radicalmente, non solo perché diventa oggetto di devozione da parte degli abitanti del quartiere, ma soprattutto perché la madre coglie l'occasione per trarne guadagno e iniziare un dubbio percorso di ascesa sociale. Un meccanismo di mercificazione del sentimento religioso ben noto che accompagna beatificazioni, santificazioni o rivelazioni come quella di Manuela, del quale fanno parte, oltre al business dei pellegrinaggi e dei gadget sacri, anche le varie fiction televisive a tema. Un meccanismo ben sviscerato dal film di Marco Bellocchio L'ora di religione, senza dubbio il primo illustre riferimento cinematografico che viene in mente guardando I baci mai dati, l'ultimo film di Roberta Torre applaudito a Venezia e al Sundance Festival. "In realtà ho molto apprezzato il film di Bellocchio, L’ora di religione, è un autore che amo profondamente, ma non ho pensato al suo film quando ho iniziato a lavorare a I baci mai dati. L’idea è nata da un mio racconto, la storia di questa ragazzina che si inventa di parlare con la Madonna, una sorta di reminiscenza di 'Bernadette' versione truffaldina", ci dice la regista. Quello che hanno in comune i due film è sicuramente l'indagine della speculazione sul sentimento religioso, ma Roberta Torre è più attenta al sentire popolare, alle reazioni della gente e alle conseguenze personali che questa vicenda ha sulla sua giovane protagonista.
I baci mai dati è ambientato a Librino, quartiere satellite di Catania nato a metà degli anni Settanta e diventato in seguito alle varie storie di tangenti e abusivismo una zona degradata, segnata dalla criminalità. Isolati di casermoni dalle strutture modulari e ripetitive, uno spazio urbano che ricorda quello dei film del dopoguerra o le periferie romane di Pasolini, nati da una costruzione selvaggia, disordinata e poco rispettosa sia dello spazio urbano che dei suoi abitanti. Anche la comunità che lo abita ci ricorda un po' l'umanità che ruota intorno alle periferie italiane del cinema del dopoguerra, alla quale però Roberta Torre dà una connotazione tutta personale, propria del suo immaginario di regista: il prete che cerca di arginare il degrado e la criminalità e abita una chiesa kitsch dai cui soffitti pendono due enormi angeli dorati che sembrano precipitare al suolo, la parrucchiera-fattucchiera datrice di lavoro di Manuela che legge i tarocchi e trasforma tutte le donne in sorta di drag queen, l'uomo politico di dubbia moralità, eppure rispettato, di cui Rita diventa l'amante nella speranza di potersi sistemare. E poi ci sono gli abitanti di Librino, anche loro un po' grotteschi, ma che nell'esporre a Manuela preoccupazioni e richieste ci sembrano così vicini. Roberta Torre dice: "Il Sud è da sempre ricco di religione e religiosità, e dunque il rapporto con il miracolo e il miracoloso è più ricco che altrove. Faccia parte di una propensione fatalista, o invece di un reale sentimento religioso, questo è difficile dirlo. Nelle richieste di miracoli che ho raccolto, però, era evidenziato soprattutto il rapporto con il reale. Ho fatto una lunga preparazione per il film, in cui ho voluto far parlare dei veri miracoli che avrebbero potuto chiedere gli abitanti di Librino, e la maggior parte di loro mi chiedeva una cosa sola: un lavoro". Del resto il lavoro, prima della criminalità e dell'immigrazione, è la preoccupazione principale della maggior parte degli italiani, anche se i nostri media lo minimizzano o non ne parlano affatto. Quella che sfila di fronte a Manuela è un'umanità che ha perso fiducia nello Stato, nell'istruzione, nella religione ufficiale, e vede come unica speranza l'affidarsi alla Madonna perché solo un intervento dall'alto sembra poter porre fine a situazioni frustranti e in alcuni casi drammatiche.
Centrale nel film è il rapporto di Manuela con la madre, e il titolo è principalmente riferito alla loro relazione fatta di lontananza e di reciproca indifferenza. Rita (Donatella Finocchiaro) è una donna superficiale, più interessata al suo aspetto che alla sua famiglia: ignora Manuela, se non per rovesciarle addosso le sue frustrazioni, caccia il marito di casa perché esasperata dalla sua indifferenza, ma non prova in nessun modo a capirlo, diventa l'amante di un uomo politico piacione perché la vede come la via più veloce per cambiare la sua vita, non fa altro che mettere in mano alla figlia maggiore dei soldi e spingerla tra le braccia dello stesso politico di cui sopra. Rita è davvero la madre prototipo che sta dietro a molte vicende di cronaca più o meno politica a cui ormai ci siamo abituati. "Su Rita Roberta mi ha suggerito di guardare all'aspetto e alla presenza scenica di Simona Ventura che, in quanto donna dello spettacolo, lavora molto con la sua immagine. Così Rita è un po' la Ventura, un po' Lory Del Santo", ci dice Donatella Finocchiaro. Il suo aspetto esteriore, il modo di vestirsi e di muoversi, non poteva che avere radici televisive dato che i suoi desideri e le sue aspirazioni provengono da lì. Allo stesso tempo la Finocchiaro dice di aver pensato ai personaggi di madri interpretate da grandi attrici italiane, prime fra tutte la Loren e, soprattutto, la Magnani. Così Rita è anche un personaggio complesso che deve venire a patti con le sue frustrazioni e che comunque resta l'unico collante della famiglia, essendo la sola a lavorare e ad occuparsi della casa. Manuela, interpretata dall'esordiente Carla Marchese, è invece in nell'età in cui cerca il proprio posto nel mondo e si sente smarrita senza la madre e senza attenzioni. Solo il padre sembra capirla quando, ormai cacciato di casa, fa la coda e le va a parlare, portandole in regalo un asciugacapelli e dei pettini rosa, perché sa che il sogno della figlia è fare la parrucchiera. Il loro percorso, seppur con tutte le differenze del caso, ricorda quello di un'altra coppia madre e figlia: Maddalena Cecconi (Anna Magnani, non a caso) e Maria in Bellissima di Luchino Visconti. In entrambe, Rita e Maddalena, vi è la stessa volontà di riscatto sociale attraverso le figlie, entrambe sono disposte a sconvolgerne la vita, a partire dal modo di vestire (Manuela sarà costretta ad abbigliarsi in modo più consono a una santa) fino alle abitudini quotidiane. Ma se alla fine Maddallena Cecconi ritorna in sé e capisce di star facendo del male alla sua bambina, Rita non ha questa consapevolezza. Deve essere Manuela, da questo punto di vista sicuramente più matura di lei, a sbatterle in faccia il suo disagio e, infine, a salvarle tutte e due.
Ma "i baci mai dati" sono anche quelli che Manuela riceve da Ersilia, una ragazza rimasta ceca dopo aver assistito bambina all'assassinio del padre tabaccaio. Dopo la riconciliazione, madre e figlia tornano a casa determinate a cominciare insieme una vita più normale, ma ecco accadere il vero miracolo del film. Ersilia ha riacquistato la vista dopo aver avuto un paio di incontri con Manuela. Potremmo pensare che la protagonista non c'entri nulla, che la ragazza riacquisti la vista perché, proprio parlando con Manuela, è riuscita ad elaborare il suo dolore. D'altronde la sua cecità ha origine psichica non fisica. Ma resta un dubbio, perché tra le due ragazze si era instaurato un rapporto molto stretto e di reciproca empatia e, dopo un loro incontro, avevamo visto Manuela fare un sogno travagliato con al centro la statua della madonna, che ricorda da vicino quello della rivelazione sul nascondiglio della testa. Dubbio che si rafforza, ma che rimarrà tale fino alla fine, se pensiamo alla bellissima scena iniziale, quella dell'inaugurazione della statua della Madonna nella piazza di Librino, segnata da una soggettiva della statua che, attraverso il lenzuolo che la copre, si muove tra i palazzi e le persone accorse, fissando infine il suo sguardo su Manuela. Come se la protagonista fosse davvero stata scelta tra gli altri dalla Madonna per realizzare un suo progetto.
I baci mai dati è un capolavoro di equilibrio, e non solo nell'affrontare il tema religioso o quello dei rapporti famigliari e delle dinamiche sociali. Lo è soprattutto dal punto di vista della messa in scena, dell'equilibrio tra vicende personali e collettive, tra momenti narrativi e onirici, tra rappresentazione realista ed esagerazione pop. E poi perché nel film di Roberta Torre possiamo riscontare talmente tanti riferimenti cinematografici che c'è solo l'imbarazzo della scelta. Molti film e registi illustri sono stati scomodati, da Bellocchio a Buñuel, passando per tutto il nostro cinema del dopoguerra, e più lo si guarda e più se ne trovano. Pensiamo ancora una volta alla sequenza iniziale che ricorda l'inizio di Bellissima, de La dolce vita, di Mamma Roma. Eppure questi riferimenti non sono citazioni dirette e calcolate, sono qualcosa di sotteso, sono stati assimilati così profondamente che emergono senza alcuna forzatura nell'immaginario personale e riconoscibile di Roberta Torre. Tra le poche autrici che negli ultimi anni hanno saputo mettere in scena i problemi attuali del nostro paese e dare forma alle nostre inquietudini e ai nostri problemi a volte drammatici, togliendogli pesantezza ma non spessore e complessità.
Valentina Rossetto
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Preceduto, nella proiezione veneziana, dall’orribile corto Niente orchidee, in cui lo spettatore ha già il privilegio di apprezzare l’inespressività di un Beppe Fiorello che ritroviamo, somma fortuna, nel lungometraggio che segue, l’ultima opera di Roberta Torre è un tentativo, abbastanza fallimentare e moralmente ambiguo, di satira sociale in forma di commedia grottesca. La regista di Tano da morire riscrive maldestramente un’ideale pagina di cronica “azzurra” (l’apparizione della Vergine e la beatificazione istantanea della sventurata, e menzognera, giovane veggente) cercando di abbozzare un ritratto socioculturale della pagana Sicilia, alla maniera di un Pietro Germi. Al di là degli evidenti difetti di montaggio e dell’approssimativa messa in scena, dovuti, a quanto si racconta, a problemi produttivi di “ordine greco” (per dirla con Godard), I baci mai dati non convince già a livello di scrittura ed è persino irritante nell’accondiscendenza ed empatia con la quale descrive gli eventi e tratteggia i caratteri. Alla fine, a tutti i personaggi, anche ai più “mostruosi” ed indifendibili, viene riservata una carezza assolutoria che non ha nulla dell’umana pietas e molto dell’italica ipocrisia. Non si chiedevano a Roberta Torre cinismo e tantomeno uno sguardo rivelante superiorità e disprezzo, ma semplicemente coerenza e coraggio. La regista, infatti, non osa spingersi oltre il confine che separa la favola dall’assurdo, timorosa di poter urtare la sensibilità di un pubblico al quale, anche se incapace di credere, deve essere almeno concesso il diritto di non sentirsi mai chiamato in causa. Come lo spettatore, nessuno è del resto direttamente tirato in ballo: né la religione (alla fine, perché non si dovrebbe concedere alla povera gente il diritto di sognare?), né la politica (il parlamentare fedifrago non è certo un brav’uomo, ma almeno è un buon amante), né le istituzioni familiari. Il film, a cui non si perdona un finale penosamente ricattatorio, resta una piccola cosa inoffensiva ma non innocua, essendo complice del “sistema” che non vuole (o non può) stigmatizzare. Dio è forse morto, ma continua a vedere e a provvedere.
Manuel Billi
La grazia di un film italiano che parla del sacro senza scadere nell’agiografia o nel facile sberleffo. Un piccolo film stonato, disarmonico ma non bamboleggiante, saturo eppure ridotto all’essenziale. Un racconto per immagini che, in un’epoca in cui tutto deve essere chiaro, netto, spiegato, sceglie la strada dell’allusione e del collage, cammino tortuoso e lussureggiante, anche quando le immagini sono letteralmente fatte di nulla (il prologo, un intreccio di trasparenze e pause musicali, è una dichiarazione d’intenti). Una regia che non teme di immergersi nei colori e nei suoni di un’utopia in via di smantellamento (il quartiere di Librino, opera di Kenzo Tange), né di cibarsi con avidità dei più disparati riferimenti cinematografici (gli adolescenti soli e in lotta di Truffaut, citato fin dal titolo, ma anche le surreali unghiate del primo Almodóvar e, perché no, il furore rappresentativo del Greenaway di The Baby of Mâcon). Un racconto (a)morale in cui la religione non è che uno degli aspetti della condizione e della follia umana: ossessionati dal desiderio di “elevarsi”, sublimando la quotidianità, i personaggi inseguono i rispettivi fantasmi, si ritrovano prigionieri di una rete di fughe illusorie e aspettative deluse, finiscono per constatare l’inutilità di ogni simulazione. La durezza (reale, non simulata) si scioglie nell’abbraccio inatteso, la parola che non riusciva a formarsi, quasi per magia, si fa strada fino alle labbra, l’esistenza (ri)acquista un senso. Ed è allora che il sogno (l’incubo?) si avvera.
La Madonna ha fatto la grazia.
Il film, prodotto nel 2009 e presentato nel 2010 al festival di Venezia, ha trovato solo in questi giorni la strada degli schermi nostrani.
Stefano Selleri
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